Turati Filippo: nel settantesimo della morte.

04 agosto 2004

di Giuseppe Manfrin
da Avanti della Domenica - 31 marzo 2002 - anno 5 - numero 13

Il prof. Alessandro Levi, in una ormai rara pubblicazione "mignon" del 1924 su Filippo Turati, scrisse: "…appartenente a quella plejade di giovani della borghesia che furono tra i pionieri della causa socialista in Italia, Turati ebbe il babbo prefetto del regno. Figlio unico, agiato, adorato dai suoi, col suo grande impegno, la parola facile e caustica, l’aristocratica penna, la vasta cultura, avrebbe potuto, con sicurezza di successo, scegliere qualsiasi strada, militare in qualsiasi campo. Andò incontro alle plebi, si consacrò alla loro elevazione, per generoso impulso di cuore".
Gaetano Arfé che ha curato la ristampa della "Antologia di ‘Critica Sociale’ 1891-1926" di Giuliano Pischel, scrisse, fra l’altro, nella introduzione: "… Turati resta per le giovani leve dell’antifascismo socialista e liberale il simbolo di una tradizione di civiltà da levare in alto nel momento della disfatta a significare una volontà di riscossa disposta a fare i conti anche coi tempi lunghi della storia, quale ne sia il costo".
Emil Vandervelde, il socialista belga, presidente dell’Internazionale Operaia Socialista, così si espresse dopo la morte di Turati: "… Turati vivrà, come vive Matteotti, nell’ammirazione e nell’amore di coloro per i quali il proprio sacrificio è un esempio e la propria intransigenza contro le tirannie, è un conforto inestimabile". "…quando l’Italia si sveglierà - disse il leader del socialismo francese Leon Blum - ritroverà la sua strada naturale, la sua vita dei grandi giorni; riprenderà nello sforzo comune di liberazione, il suo posto un momento abbandonato. Quel giorno, quando l’Internazionale terrà uno dei suoi congressi al Palazzo dei Dogi o in Campidoglio, Matteotti sarà vendicato, Turati sarà vendicato e con essi tutti gli eroi e tutti martiri".
Bianca Pittoni, figlia del deputato triestino al Parlamento di Vienna, Valentino Pittoni, nel presentare la pregevole raccolta delle lettere dall’esilio di Turati, così descrisse i funerali del grande italiano morto esule in terra di Francia: "… ai funerali tutti erano presenti. Pallidi, ammutoliti, si stringevano la mano l’un l’altro, senza poter valutare chi di noi portasse il lutto maggiore (…). Eravamo tutti presenti, figli e discepoli, anche quelli che non intravedevo nell’immensa folla, che lungo il percorso verso il cimitero, ad ogni angolo di strada, si faceva sempre più densa".
Rodolfo Mondolfo nell’aggiornare e ripubblicare "Le vie maestre del socialismo" di Filippo Turati, assieme a Gaetano Arfé, nella presentazione del volume stampato nel 1966, scrisse fra l’altro: "… rare volte si presentò sulla scena politica un intelletto e un carattere di pari nobiltà e dirittura che abbia, come Filippo Turati, considerato la partecipazione alla vita politica siccome una missione un apostolato che esiga la dedizione intiera e disinteressata dell’uomo al servizio del suo ideale, senza risparmio di fatiche, senza risparmio dei rischi inevitabili, senza preoccupazione delle ostilità e ingiurie degli avversari e dell’incomprensione ed ingratitudini di molti fra gli stessi compagni di lotte, sereno e costante in mezzo alle amarezze ed alle avversità". Francesco Mottola, il medico di Tropea, del quale illustrammo la figura nel nostro settimanale (n. 36 del 7 ottobre 2001), pubblicò nel 1945 un opuscolo dedicato a Filuppo Turati. Siamo nel 1910 e Mottola, assiduo lettore di "Critica Sociale", si trovava per ragioni di studio a Roma e tramite il compagno siciliano Cammareri-Scurti, poté finalmente, cosa che da tempo desiderava, incontrare Turati. "… ricordo anche dopo tanti anni - scrisse Mottola - l’indimenticabile incontro. Rivedo Filippo Turati, alto nella figura, luminoso di arguzie e bontà. Fu egli stesso a togliermi dall’imbarazzo, parlandomi del libro (Mottola aveva pubblicato per i manuali Hoepli un lavoro sulla lotta antitubercolare e che aveva dedicato alla dottoressa Anna Kuliscioff) che Anna aveva letto attentamente, del grande valore sociale e morale della lotta alla tubercolosi e della necessità che lo Stato intervenisse a questa grande opera di redenzione umana. Ma la borghesia italiana - egli aggiunse - ha ben altro da pensare". Cesare Del Vecchio, socialista di Pesaro, pubblicò un opuscolo sui suoi ricordi di Filippo Turati. Del Vecchio scrisse: "… nel 1920 ero studente di agraria all’Ateneo di Pisa. Vedo in un’edicola un opuscolo intitolato "Rifare l’Italia", discorso tenuta alla Camera dall’on. Filippo Turati. Lo prendo e lo leggo tutto d’un fiato: lo giudico un capolavoro! Avevo sulle spalle quattro anni di guerra e non vedevo uno spiraglio di luce. Avevo già avuto qualche maltrattamento da parte degli squadristi; quel discorso mi confortò. C’erano ancora dunque, fra di noi dei galantuomini che si impegnavano a rifare l’Italia?". Giuseppe Righetti, già parlamentare del Psi, riferendosi all’articolo di Togliatti scritto nel 1932 in morte di Filippo Turati, in un suo recente scritto rivolge una domanda: "…perché ancor’oggi, i post comunisti e i neo comunisti si guardano bene dal riconoscere e dall’ammettere queste ‘scivolate di stile’, queste grossolanità polemiche, queste oltraggiose espressioni che condivano la prosa letteraria e politica di Palmiro Togliatti? (…). Mentre Camilla Ravera e Umberto Terracini, due dei fondatori del partito comunista d’Italia, avevano dichiarato che al Congresso di Livorno del 1921, che aveva subito la scissione della frazione comunista, aveva ragione Turati. L’avversione prolungata nei confronti dei socialisti per conseguire la loro liquidazione politica ed organizzativa, non possono essere superare con mezze affermazioni di ‘recupero’, con goffi e spregiudicati tentativi di raccogliere l’eredità del movimento socialista!".

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