Il socialismo in Italia – Breve storia del Partito Socialista Italiano

04 agosto 2004

a cura di Enzo Collio, Milano, Dicembre 2002

Premessa

In occasione del 110° anniversario della nascita del Partito Socialista Italiano si stanno organizzando in Lombardia, nei circoli e nelle sezioni socialiste, incontri e conferenze sulle vicende del socialismo italiano, sui suoi ideali, sulle tante battaglie condotte per migliorare le condizioni dei lavoratori, sugli uomini e sulle donne che hanno fatto grande un movimento che ancora oggi conserva tutta la sua vitalità ideale e politica.
Perché questi incontri lascino una traccia ancor più duratura ho pensato di realizzare un piccolo opuscolo riassuntivo della storia del PSI facendo mia la vecchia e saggia formula, “perché i giovani sappiano e gli anziani ricordino”, tanto più valida quanto più la moderna società tende a disperdere e a dimenticare.
Ho organizzato questo breve opuscolo, senza alcuna pretesa di completezza, prendendo da quanto altri hanno già scritto, permettendomi ora alcuni tagli, necessari per condensare in poche pagine una storia così vasta e complessa, ora alcune aggiunte, doverose per rammentare molti protagonisti dimenticati, e necessarie soprattutto per avvicinare la conclusione dell’opuscolo il più possibile ai giorni nostri.
Ho usato principalmente come traccia i testi delle lezioni radiofoniche tenute da Aldo Garosci nel 1966 in occasione dell’Unificazione Socialista e diverse pagine di un opuscolo di Ugo Intini, riassunto esso stesso del volume L’albero socialista.
Ringrazio Luigi Vertemati e Roberto Biscardini, compagni di militanza da lunga data e cari amici, per i consigli ed i suggerimenti che mi hanno dato e Michela Di Pol per la rilettura e la correzione delle bozze di questi testi.
Dedico questo breve lavoro alla memoria di mio padre e di mia madre, i primi e decisivi socialisti che ho incontrato nella mia vita; mi auguro che la lettura sia agevole e utile per rammentare eventi e scelte che hanno fatto del Partito Socialista il principale protagonista della vita politica italiana del XX secolo.

Enzo Collio
Presidente dei Socialisti Democratici Italiani della Lombardia.

LA NASCITA DEL PARTITO E LA FINE DEL SECOLO

C’era un socialismo in Italia anche prima che a Genova venisse fondato, il 15 agosto 1892 presso il padiglione della Società dei Carabinieri Genovesi (il corpo dei fucilieri garibaldini) il Partito dei Lavoratori, che del resto, solo l’anno successivo, a settembre, al Congresso di Reggio Emilia, aggiunse nella sigla “socialista” e nel gennaio 1895, al congresso clandestino di Parma, prese definitivamente il nome di Partito Socialista Italiano.
Anche l’Italia infatti aveva conosciuto le aspirazioni dell’estrema democrazia, ai tempi della rivoluzione francese, con Filippo Buonarroti, Vincenzo Russo e tanti altri.
Il socialismo era entrato, con la dottrina sansimoniana, negli ideali di Garibaldi e di Mazzini, era stato la fede di Pisacane e di tanti meno noti patrioti meridionali.
La prima Internazionale aveva diffuso, soprattutto nella forma dell’insurrezionalismo anarchico del russo Bakunin (1814-1876), aspirazioni socialiste; a Milano era nato, nel 1882, e si era sviluppato il “Partito Operaio” su iniziativa del Circolo Operaio Milanese e dei socialisti evoluzionisti del giornale La Plebe di Lodi.
Il Partito Operaio, che tenne dal 1882 al 1890 cinque Congressi, lanciò al suo nascere un manifesto programmatico elaborato da un Comitato provvisorio composto da un guantaio, Giuseppe Croce, un ebanista, Edoardo Pozzi, un tipografo, Ambrogio Galli, un parrucchiere, Ernesto Dossi ed un orefice, Alfredo Guarnaschelli.
Nel manifesto si diceva che “non vi può essere libertà politica senza l’equivalente libertà economica” e si elencavano una serie di irrinunciabili riforme: la riduzione degli orari di lavoro, la libertà di sciopero, il suffragio universale, la libertà d’insegnamento, l’abolizione dell’esercito permanente, l’autonomia comunale, la tassazione progressiva, la costruzione di case operaie, l’abolizione del fondo per i culti e una politica estera avente come fine la fratellanza universale e l’indipendenza di tutti i popoli.
Per aiutare il raggiungimento di questi obbiettivi il Partito Operaio si impegnava a sostenere, anche economicamente, i lavoratori durante gli scioperi con la costituzione di leghe di resistenza locali, di società operaie cooperative per il credito, la produzione ed il consumo e persino la nascita, nel suo seno, di una sezione di collocamento per gli operai disoccupati.
Prima ancora, e cioè dal 1853, in Piemonte si erano sviluppate le Società Operaie di orientamento prevalentemente liberale divise al loro interno tra le tendenze legalitarie assistenziali e quelle radicali, mazziniane e socialisteggianti.
Nel 1860, con il Congresso di Milano delle Società Operaie, il movimento piemontese si trasformava in italiano rivendicando il suffragio universale, costituendo società di mutuo soccorso per arti e mestieri e chiedendo al Parlamento l’istituzione della sorveglianza sull’igiene delle fabbriche.
Anche in Romagna, per iniziativa dell’internazionalista anarchico Andrea Costa (1851-1911) - che il 27 luglio 1879 in una lettera indirizzata” Ai miei amici di Romagna”, pur non rinnegando il suo passato anarchico, dichiarava di voler abbandonare il rivoluzionarismo violento e verboso per abbracciare le idee socialiste della lotta politica di tutti i diseredati - nasceva il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna ed il settimanale L’Avanti!.
Alle elezioni del 1882, grazie ad una prima timida riforma elettorale che portava gli aventi diritto al voto da seicentomila a circa due milioni, il PSR di Romagna riusciva ad eleggere al Parlamento il primo deputato italiano dichiaratamente socialista, Andrea Costa.
Stimolati da queste idee e da queste iniziative i lavoratori avevano ormai avvertito chiaramente la necessità di associarsi per contrastare la povertà, la vecchiaia, le malattie, l’ignoranza, spesso cause l’una dell’altra; erano nate così, accanto a questi primi embrioni di partito, le società di mutuo soccorso, le casse mutue volontarie, le leghe, tutte create dal basso, dallo spontaneo coagularsi di forze di progresso e di giustizia sociale, diverse tra loro, generose e talvolta confuse in un misto di pragmatismo e di desiderio di ribellione.
Ma quel che s’era fondato a Genova era qualche cosa di più, qualche cosa di diverso.
Era un partito tutt’assieme più storico e più intransigente.
Più storico perché aveva l’ambizione di raccogliere tutte le esperienze maturate nelle lotte politiche e del lavoro del Risorgimento e del dopo unità d’Italia; più intransigente perché voleva fare chiarezza rispetto alle tante tendenze e tentazioni anarcoidi e rivoluzionarie ancora fortemente radicate nel movimento.
Infatti il Partito dei Lavoratori Italiani si apprestava a nascere con una scissione consumata proprio a Genova nella notte tra il 14 ed il 15 agosto.
Dopo una giornata estenuante di discussioni e di scontri alla Sala Sivori tra la componente socialista (i deputati, Agnini, Maffi e Prampolini, e Turati, Lazzari, Bissolati, Anna Kuliscioff), e quella anarchica (Gori, Pellaco, Galleani), la componente socialista si riuniva in serata in una trattoria in via Pollaioli e decideva, con l’appoggio della grande maggioranza delle Associazioni accreditate, di continuare all’indomani il congresso in un altro luogo, sancendo di fatto la rottura con gli anarchici.
Costa, giunto in ritardo, pur disapprovando il comportamento degli anarchici, si ritirava dalla contesa abbandonando i lavori congressuali.
Il primo partito socialista quindi sin dal suo nascere non accettava di confondersi con l’anarchia, l’estrema democrazia o con il repubblicanismo, voleva essere partito di lavoratori, partito di classe, ma si proponeva al tempo stesso non l’insurrezione ed il colpo di mano, bensì la lotta civile per la conquista dei pubblici poteri, attraverso l’organizzazione economica e politica, il parlamento e una lunga azione che accompagnasse la fatale e non anticipabile evoluzione della società.
Si contrapponeva a tutti i partiti che erano esistiti fino allora, che erano piuttosto organizzazioni di tipo elettorale e clientelare, spesso temporanee, anziché organizzazioni permanenti di “compagni”, ma usciva fuori da ogni tipo di settarismo e di congiura per operare alla luce del sole.
Era il primo partito italiano moderno e democratico, con una sua struttura organizzativa territoriale, un’assemblea nazionale, una direzione, un gruppo parlamentare che si identificava con il partito e con le direttive che questo si dava democraticamente nei suoi congressi nazionali tenuti di norma ogni due anni, salvo che la gravità degli eventi non imponesse altrimenti.
Anima e creatore del Partito Socialista, nella misura in cui un uomo solo crea un movimento storico, era Filippo Turati.
Questo giovane lombardo, figlio di un prefetto del regno, aveva fatto le sue prime esperienze come poeta della scapigliatura lombarda, s’era messo alla scuola della più avanzata coscienza socialista della società europea, entrando in corrispondenza con il fedele amico di Marx, Federico Engels, aveva trasformato, con l’apporto culturale e l’esperienza di Anna Kuliscioff, una rivista repubblicana, Cuore e Critica, nella prima rivista marxista teorica socialista italiana, la Critica Sociale.
Privo di quel settarismo che caratterizza spesso i politici anche grandi, aperto a tutte le correnti di idee più moderne, interprete del marxismo nel senso più evoluzionista, Filippo Turati si mise davvero, per tutta la sua vita, al servizio del proletariato italiano.
Attorno a lui si raccoglievano vecchi uomini del primo internazionalismo, come Andrea Costa, o del primo operaismo, come Maffi; coetanei ardenti, come Bissolati, o più giovani compagni, come Treves, ed una donna, compagna della sua vita, Anna Kuliscioff, (Anna Rozenstein nata in Crimea nel 1854) la “bionda dottora” dei poveri, russa di origine, anarchica, marxista e poi socialista, laureata in medicina a Napoli, reduce da peripezie e lotte politiche in mezza Europa.
Paziente, Turati, ascoltava i rabbuffi ideologici dei solenni teorici, come Antonio Labriola, il professore, primo divulgatore del marxismo in Italia, ma poi aiutava con il lavoro di segreteria le nascenti organizzazioni politiche, di categoria, i circoli operai.
Ma quell’apostolo, non era solo, come Prampolini, il portatore di un novello verbo; Turati era un politico che sapeva inserire i suoi ideali nella politica del suo tempo.
Un tempo scandito da grandi lotte per i diritti civili e bisogna ricordare che, accanto ai dirigenti del partito, lottarono con grande coraggio le tante donne socialiste: Anna Maria Mozzoni (la prima dirigente donna del PSI), Alessandrina Ravizza, Ersilia Majno (fondatrice a Milano del famoso Asilo Mariuccia per il recupero e l’educazione delle fanciulle povere), Maria Cabrini a Milano, Linda Mariani a Torino, la scrittrice Anna Franchi a Livorno, la poetessa Ada Negri, Argentina Altobelli, Rina Melli, Angelica Balabanoff e tante altre dirigenti e militanti impegnate nelle battaglie per l’emancipazione femminile, il diritto al voto, la lotta allo sfruttamento del lavoro ed alla prostituzione.
Ed il primo socialismo, tra il 1892 ed il 1900, dovette affrontare tempeste e ricevette alimento dall’intera società italiana più progredita.
Prima tempesta furono i “fasci siciliani” (i fasci erano una sorta di società di mutuo soccorso), grande moto contadino del 1894 in Sicilia, che terrorizzò i benpensanti di tutta Italia e fu represso duramente da Crispi.
Il moto scoppiava non tra l’avanzata società industriale, ma nella zona più socialmente depressa d’Italia; nondimeno, con sicura intuizione, i socialisti intesero come fosse loro compito la solidarietà con tutti gli oppressi dalla società; e la componente contadina rimase fondamentale nel futuro del Partito Socialista Italiano.
Gli avvenimenti legati ai “fasci” costarono al partito lo scioglimento e numerosi arresti, confini, esili; ma dalla persecuzione il partito uscì più forte e riorganizzato, con l’Avanti!, uscito il 25 dicembre del 1896, diventato giornale nazionale del socialismo.
Ma sul partito ricostruito si abbatté ancora la repressione del Rudinì per i moti di Milano del maggio del 1898 quando, in risposta ad una grande manifestazione di piazza per l’ennesimo rincaro del pane, il generale Bava Beccaris, convinto di dover reprimere un moto rivoluzionario, non esitò a sparare a mitraglia sulla folla e a porre lo stato d’assedio.
Dopo le cannonate, che colpirono anche il convento dei frati di Corso Manforte, si contarono ufficialmente 82 morti, ma in realtà furono oltre cento, e centinaia i feriti; Bava Beccaris fu nominato prefetto di Milano e per “il servizio reso alle istituzioni ed alla civiltà” ebbe da re Umberto un’alta onorificenza.
Seguirono arresti e carcere per molti, e al sensibilissimo Turati una condanna a 12 anni e la reclusione prima a Pallanza e poi a Finalborgo (ne scontò solo uno perché venne liberato pochi mesi dopo l’elezione a deputato); la Kuliscioff fu condannata a due anni (scontò solo sei mesi grazie ad un indulto) ed i rappresentanti del partito in Parlamento dovettero combattere ancora la battaglia dell’ostruzionismo contro i decreti incostituzionali di Pelloux.
Tra queste tempeste il socialismo era cresciuto a forza nazionale; aveva avuto la solidarietà di tutta l’intelligenza italiana di allora; per le sue file, o almeno per la sua influenza, erano passati uomini così diversi come Croce e Salvemini, De Amicis, Luigi Einaudi, Antonio Labriola.
Con l’industria le forze operaie erano cresciute, la solidarietà di tutti gli uomini liberi, anche dei partiti cosiddetti borghesi, si era stretta attorno ai perseguitati.
Quando a Pelloux successe Saracco, e poi Umberto I cadde a Monza sotto le rivoltellate dell’anarchico Bresci, giunto appositamente dall’America per vendicare i morti del ’98, la reazione interna venne meno e, con il 1900, si aprì un’epoca nuova del paese e del Partito Socialista Italiano.

LA PACE E LA GUERRA

Nel 1900 si inaugurò quella che si suol chiamare “l’età giolittiana” e che, dal punto di vista socialista, si potrebbe chiamare “l’età turatiana”.
Per dodici-quattordici anni il paese progredì in prosperità e civiltà; per un tempo corrispondente il partito socialista ed il movimento operaio si fecero più forti e più estesi, le libertà democratiche più ampie e più salde.
Il nuovo secolo vide anche la nascita del sindacato unitario dei lavoratori, la CGdL, Confederazione Generale del Lavoro, fondata a Milano il primo ottobre 1906; in essa prevaleva la componente riformista sulla corrente anarchico-rivoluzionaria, impegnata a raggiungere risultati pratici e graduali a favore dei lavoratori che versavano ancora in condizioni oggi inimmaginabili.
Nel 1886 apparì una conquista il divieto di impiegare in “opifici, cave e miniere” fanciulli con meno di nove anni e nel 1902 la limitazione della giornata di lavoro a 11 ore per i minorenni e di 12 ore per le donne. Nel 1889 i lavoratori ottennero il diritto di associarsi e di scioperare ma ancora molte lotte e molto sangue li separava da una vera tutela sindacale.
“Non è lotta solo per qualche soldo in più e qualche ora in meno, è lotta per la personalità civile del lavoratore” così commentava nel 1898 l’Avanti! lo sciopero nelle risaie di Molinella.
Anche il movimento cooperativo si sviluppava e dal primo “magazzino di previdenza” sorto a Torino nel 1854 sulle idee mazziniane e garibaldine, dalla prima cooperativa di lavoro dei vetrai di Altare (Savona) del 1856, alle case del popolo nell’Emilia di Andrea Costa e di Camillo Trampolini.
Lo stesso Turati, a Genova, al congresso di fondazione del partito, era delegato di una cooperativa.
Fu la belle epoque del nostro paese, ma il progresso non è mai senza mescolanza di dramma.
Nel paese fermentavano profondi scontenti e rivolte, lo stato appariva inefficiente e corrotto, molto restava da fare per allargare lo spazio dei diritti civili.
Nel 1882 il diritto al voto fu concesso a quanti avevano frequentato le scuole elementari quando nel solo meridione il 75% della popolazione era analfabeta; solo
nel 1912 si voterà a 21 anni, solo se si è fatto il servizio militare, altrimenti si voterà a 30 anni. Le donne avranno riconosciuto il diritto di voto solo nel 1919 ma in realtà, a causa di difficoltà burocratiche e successivamente del fascismo, potranno votare solo nel 1946.
Se il voto è lo strumento formale per raggiungere le conquiste sociali, l’istruzione è lo strumento sostanziale che trasforma le plebi in cittadini coscienti.
Nel 1894 ben 900 mila lavoratori che avrebbero voluto votare furono respinti dal seggio elettorale perché non dimostrarono un livello sufficiente d’alfabetizzazione. Solo nel 1904, grazie alla lotta del partito, l’obbligo scolastico verrà portato a 12 anni, ma senza un effettivo adempimento da parte delle autorità.
Emergono così schiere di maestri socialisti, come narrerà De Amicis, impegnati in un’opera d’insegnamento a giovani e adulti, con l’Avanti! (intorno al 1914 il giornale diffondeva 400.000 copie!) che, letto collettivamente nei circoli, diventa ben presto la “bibbia” laica dei poveri con le sue campagne contro l’alcolismo, la bestemmia, il maltrattamento degli animali, per l’emancipazione della donna, il controllo delle nascite ed il rispetto delle più elementari regole igieniche.
Mentre al Nord il movimento si organizzava nelle prime grandi fabbriche, al Sud la questione meridionale appariva drammatica, con gli eccidi periodici di contadini e la manipolazione delle elezioni da parte dell’autorità.
Anche nel partito socialista emersero le prime difficoltà e divisioni.
E’ l’era di Turati, eppure il dominio di Turati sul partito è interrotto dopo quattro anni dal pittoresco interludio della maggioranza di Enrico Ferri e Arturo Labriola e dopo una ripresa riformista, dalla maggioranza massimalista che, composta di onesti e probi dottrinari elementari, come Lazzari e Serrati, ha tuttavia alla sua testa il direttore dell’Avanti!, un giovane professionista della politica, ex maestro elementare, dagli atteggiamenti tribunizi ed insurrezionali, Benito Mussolini.
Nell’era di Turati il partito è uscito dalla forzata illegalità, lo stato ha proclamato la sua neutralità nei conflitti di lavoro, le organizzazioni di categoria e la Confederazione Generale del Lavoro diventano grandi istituzioni nazionali; le cooperative di lavoro sono una forza decisiva nella colonizzazione del suolo italiano e nei lavori pubblici, quelle di consumo una delle più moderne componenti della quotidiana vita operaia.
Dove esiste un più ricco terreno culturale e dove la rivoluzione industriale ha formato una classe operaia matura ed una classe media aperta alle innovazioni, i socialisti ottengono la guida delle prime amministrazioni comunali.
La Milano del sindaco Caldara, conquistata nel 1914, entra nel mito del riformismo socialista e i socialisti guideranno la città con il sindaco Filippetti sino al 3 agosto del 1922 quando le squadre fasciste arringate da D’Annunzio cacceranno gli amministratori socialisti dichiarati poi decaduti da Vittorio Emanuele III perché colpevoli “dell’abbandono delle loro funzioni” !
Tutte le concrete politiche sociali che oggi appaiono consuete vengono concepite e realizzate dai socialisti in quegli anni tra mille resistenze e difficoltà.
Nascono le mense popolari, i ricoveri per i vecchi bisognosi, le aziende municipalizzate per fornire il latte, il pane ed i trasporti a prezzi accessibili, la refezione scolastica, le case popolari; si conducono per la prima volta campagne di vaccinazione e di prevenzione contro pellagra, tubercolosi e sifilide.
Qualche anno dopo Lenin rimprovererà con disprezzo ai dirigenti socialisti italiani di esitare nel lanciare la rivoluzione per il timore di perdere i loro municipi, ma questi municipi sono rimasti nella storia come isole di progresso, esempi insuperati per decenni, seme di una tradizione riformista duratura.
Eppure il terrore continua a dominare molti strati della borghesia nei confronti del socialismo, come si vede dopo gli scioperi del 1904 e le intermittenti fiammate rivoluzionarie come negli scioperi di Parma del 1913. Non a caso il decennio che era cominciato con la restaurazione delle libertà democratiche terminava con una guerra coloniale, la guerra di Libia e preparava lo scoppio della prima guerra mondiale.
Nel 1914, un velleitario e disordinato tentativo di rivoluzione delle forze massimaliste ed anarchiche, “la settimana rossa”, produceva uno scontro molto duro tra le forze popolari ed il governo.
Il 7 giugno, ad Ancona, i carabinieri aprono il fuoco sui partecipanti ad un comizio antimilitarista provocando tre morti tra i manifestanti; la protesta, sostenuta dal PSI, guidato dai massimalisti rivoluzionari, e dalla CGdL, esplode in tutto il paese con scioperi e scontri che lasciano sul terreno quattordici morti (uno delle forze dell’ordine) e la sensazione d’essere all’inizio di un moto rivoluzionario.
Dopo una settimana di lotta la dirigenza riformista della CGdL, di fronte alle divisioni esistenti nel movimento socialista ed all’impossibilità di dare uno sbocco politico agli avvenimenti, revocava lo sciopero generale; due settimane dopo i colpi esplosi a Sarajevo da Gavrilo Princip che provocano la morte dell’erede al trono austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando, aprono di fatto le porte alla Grande Guerra.
Il quattordicennio giolittiano vide, proprio nel 1914, un grande successo del PSI alle elezioni amministrative, ma anche le prime scissioni nel socialismo italiano.
La prima, dopo il 1907, fu l’uscita dal partito dei sindacalisti rivoluzionari, la seconda, nel luglio del 1912, fu l’espulsione, voluta da Mussolini, dei cosiddetti “riformisti di destra” Bissolati, Bonomi e Podrecca, colpevoli di “ministerialismo e bellicismo libico”.
E’ comunque da notare come queste scissioni, che pensavano di contrapporre al partito l’organizzazione sindacale, non intaccassero l’egemonia del partito sul sindacato e sulle masse popolari. La situazione paradossale, prima del 1914, era che il partito, pur modesto in confronto al sindacato ed al ruolo dei gruppi parlamentari, in definitiva era sempre esso a prevalere. Nel partito e nella sua continuità il proletariato socialista vedeva il depositario della sua fede.
Ciò spiega anche quel che accadde al socialismo durante la prima guerra mondiale.
I giovani, i dirigenti più audaci, nemici di Giolitti e della borghesia, poterono inclinare per un momento all’interventismo o legarsi definitivamente ad esso; ma il partito e le masse rimasero fermamente aderenti al principio della pace.
Non ci fu in questo differenza tra Turati o Modigliani, cioè i riformisti, oppure Serrati o Angelica Balabanov, i massimalisti.
Comprensione di ciò che veramente è la civiltà, sogno di un ideale finale di redenzione, scarsa adesione alle necessità di stato, ideali internazionalisti, tutto contribuiva ad ancorare il pacifismo nelle masse come nei capi del socialismo italiano che alla fine seppero coniugare il no alla guerra con l’esigenza di non entrare in conflitto con un diffuso sentimento popolare di difesa della patria, nella formula “nè aderire nè sabotare”.
Coloro che avevano preso sul serio i temi della violenza e dell’attivismo, con cui avevano galvanizzato le folle, come Mussolini, entrarono malamente in rotta con il partito e furono espulsi.
Alcune delle iniziative pacifiste più importanti della prima guerra mondiale, come le conferenze internazionali di Zimmerwald e Kienthal, ebbero i socialisti italiani per attori e iniziatori. Su questa fondamentale unanimità di avversione alla guerra si svilupparono diversi atteggiamenti.
Da una parte c’era il cauto atteggiamento dei Turati e dei Treves, che dell’avversione socialista alla guerra intendevano fare uno strumento di ricostruzione per il futuro, e pertanto erano attenti a non colpire il paese in un momento tragico – quando anche per loro la patria era, come appunto ebbe a dire Turati, sul Grappa – dall’altra c’era l’atteggiamento sempre più rivoluzionario dei giovani che, sulle sofferenze delle masse, costruivano un piano o un sogno di violento spodestamento della borghesia, specie dopo quel 1917 che vide la rivolta operaia di Torino , la crisi militare di Caporetto, ma soprattutto gli avvenimenti russi della rivoluzione proletaria.
Ma l’atteggiamento di “guerra alla guerra” era comune in fondo all’intero partito e spiega i drammatici successi, le drammatiche illusioni, le speranze e la crisi del 1919.

ATTESA RIVOLUZIONARIA E COLPO DI STATO

Il mondo, alla fine della prima guerra mondiale, non fu mai più quello che era stato prima, e così l’Italia.
Nelle trincee, cinque milioni di mobilitati avevano sofferto e vissuto, più di seicentomila erano morti; nelle campagne le donne ed i vecchi delle famiglie contadine avevano dovuto prendere il posto dei combattenti; nelle città un’ondata di nuovi immigrati era stata immessa nell’industria; i figli della borghesia, da ufficiali di complemento, avevano imparato ad uccidere.
Immensi risentimenti per risultati che non parevano commisurati ai sacrifici patiti, esasperazione di nazionalismi a contrasto con altri nazionalismi, una rivoluzione come quella russa che pretendeva di aver messo fine alle guerre scatenate dai capitalisti e che fra poco avrebbe messo fine addirittura a una vicenda di sfruttamento vecchia come la storia, questi erano i miraggi e le realtà nuove di un mondo in cui le vecchie certezze evoluzionistiche sembravano crollare.
E, in quelle condizioni, anche il socialismo italiano era e non era più quello di prima.
Aveva impiegato un ventennio ad acquistare diritto di cittadinanza politica, ora appariva avviato a conquistare il potere.
Nelle elezioni del 1919, 156 deputati socialisti erano stati eletti; i liberali, tradizionalmente al potere da soli, ora non potevano più governare contro i socialisti senza i cattolici.
Il potere delle classi medie sembrava in pericolo; gli operai non erano mai stati tanti né così forti.
I sindacati contavano adesioni a milioni, i partiti a centinaia di migliaia; ma prendere ed esercitare il potere in modo da dare soddisfazione assieme ai malcontenti esasperati dalla guerra, alle aspettative messianiche sorte nel nuovo clima ed al fondamentale umanesimo e senso democratico che era stato del socialismo da sempre, implicava superare sovrumane difficoltà.
Si videro perciò nel 1918 e negli anni seguenti diversi momenti e piani del socialismo.
Gli uomini attorno a Turati ed alla Confederazione del Lavoro – dove emergeva già per energia, capacità e moderazione, accanto ai vecchi dirigenti, Bruno Buozzi – pensavano a profonde riforme democratiche dello stato e ad uno sviluppo dei servizi e di quelle che oggi chiameremmo infrastrutture: i capisaldi di tale politica erano riassunti dalle parole d’ordine come la costituente (Modigliani) e rifare l’Italia (Turati).
Coloro che, influenzati dalla rivoluzione russa e dalla presa del potere da parte dei bolscevichi nell’ottobre del 1917, credevano nell’onnipotenza della rivoluzione operaia, pensavano invece che si dovesse praticare la lotta di classe più intransigente, smascherando, com’era di moda dire, le menzogne democratiche.
Ma l’uno come l’altro programma cozzavano contro difficoltà intrinseche.
Da un lato i programmi di ricostruzione avrebbero richiesto vaste maggioranze, collaborazione positiva e responsabile del socialismo con altre forze, e la guerra aveva invece approfondito le lacerazioni sociali e politiche.
Dall’altro lato la rivoluzione coglieva sì il punto che lo stato liberale democratico era in profonda crisi, ma non vedeva che tutta l’organizzazione passata del mondo operaio era stata diretta in profondità, verso la gestione autonoma della società in un clima democratico e non verso la rivoluzione.
Sugli uni e sugli altri doveva prevalere perciò il sentimento dei massimalisti che esprimevano l’attesa dell’apocalisse rivoluzionaria ma senza l’organizzazione di fatto della rivoluzione.
Così il 1918, il 1919 ed il 1920 passarono con vaste agitazioni operaie, dal moto del carovita, all’occupazione delle terre e poi delle fabbriche (marzo-settembre 1920), ma senza tentativi veri di attacco allo stato.
Se questi tentativi ci furono, vennero compiuti prima di tutto dalla parte nazionalistica con D’Annunzio a Fiume.
In questi anni si sviluppò in Italia una vera e propria guerra civile, con la distruzione da parte delle squadre fasciste delle opere costruite dai lavoratori: cooperative, leghe, sedi di partito, di giornali e dei comuni.
La sede milanese dell’Avanti! venne incendiata e devastata dagli Arditi di Mussolini una prima volta il 15 aprile 1919, una seconda volta il 3 agosto del 1922, in concomitanza con l’assalto fascista al Comune di Milano ed una terza il 29 ottobre.
Militanti e dirigenti socialisti vennero uccisi un po’ dovunque; nel settembre del 1921 cadde assassinato a Mola di Bari dagli squadristi il deputato socialista Giuseppe Di Vagno; a Ferrara, durante uno scontro che lascia sul terreno molti morti, è pestato a sangue il socialista on. Adelmo Nicolai; a Bologna viene assaltato il comune al momento dell’insediamento dell’amministrazione socialista.
Questi solo alcuni dei più clamorosi episodi e, mentre militanti e dirigenti socialisti venivano aggrediti od uccisi un po’ dovunque, il terrore si diffondeva con l’aiuto di ceti e di organi dello stato che la minaccia rivoluzionaria aveva spaventato a vuoto e che ora si facevano complici della violenza antisocialista.
In un certo senso era tardi sia per tentare la controffensiva rivoluzionaria, che tentare di difendere, con l’aiuto dei migliori liberali, la legalità democratica.
Il prevalere nel partito della componente massimalista dei Lazzari e dei Serrati impedì qualsiasi azione di collaborazione con le forze liberali e democratiche che forse avrebbe potuto impedire il dilagare e l’affermarsi dell’illegalità.
Anzi, le pretese di una parte minoritaria del partito di aderire ai 21 punti dell’Internazionale guidata da Lenin, tra cui l’espulsione dei riformisti di Turati, spaccò il partito indebolendone l’azione e disorientando militanti ed elettori.
Il Partito Comunista, in gran parte su pressioni dello stesso Lenin, sorse a Livorno nel gennaio del 1921 quando ormai non c’erano probabilità di azione rivoluzionaria; Turati venne espulso dal PSI dai massimalisti il 4 ottobre 1922, o, meglio, se ne andò consapevolmente - come preferiva dire lui - quando la situazione ormai precipitava.
Il socialismo si venne così a trovare, nel momento di maggiore crisi del paese, diviso e percorso da violenti contrasti.
Divisioni e contrasti che resero difficile per alcuni comprendere il tragico significato della marcia su Roma, come Umberto Terracini, uno dei fondatori del PCI, che scrisse “si tratta di una crisi ministeriale un po’ mossa; possano i proletari italiani capire finalmente che le classi conservatrici, che si sono servite del terrore bianco, e lo stato democratico che si pone al loro servizio, sono alla stessa stregua i loro mortali nemici”.
Una pericola equiparazione, quella del PCI, tra democrazia e fascismo, che dovrà condurre nel 1929 addirittura a quella tra socialismo democratico e fascismo con l’adozione della famosa formula staliniana del socialfascismo.
Nell’ottobre del 1922 aveva quindi luogo il colpo di stato fascista, mascherato da rivoluzione, e cioè da una minaccia di tipo paramilitare contro lo stato monarchico e burocratico, che passò il potere a Mussolini.
Questi portava con se l’eredità di tutta la violenza della polemica bellicosa contro il neutralismo della maggioranza degli italiani e la passione di un quindicennio di critica presente anche nelle file socialiste, contro lo stato democratico parlamentare, reo di non esprimere la vera situazione del paese.
Però Mussolini aveva spogliato quel retaggio di ogni profondo significato problematico ed umanistico, di tutto ciò che era stato nel fondo delle speranze e delle utopie dei socialisti e lo aveva ridotto a strumento per demoralizzare una classe dirigente, impadronendosi del potere con la sua banda.
Poteva prendere il potere, come lo prese, solo contro il socialismo e la democrazia insieme.
I socialisti intanto vivevano un profondo travaglio che non si era concluso con la scissione di Livorno ma continuava ad essere alimentato dal dibattito in corso nel movimento proletario internazionale sotto la pressione dei leninisti.
Al XX Congresso di Milano, tenuto dal 15 al 17 aprile 1923, Pietro Nenni, capo redattore dell’Avanti!, in opposizione alla frazione che, in ossequio ai deliberati della III Internazionale, voleva la fusione con il PCI, riusciva a conquistare la maggioranza ottenendo con la mozione di Difesa Socialista 5361 voti contro i 3968 dei fusionisti di Lazzari e Buffoni.
Il PSI, grazie a Nenni, Vella, Romita e tanti altri, manteneva il suo nome e la sua autonomia pur riconfermando la sua adesione ai principi dell’internazionalismo proletario.

DAL DELITTO MATTEOTTI ALLA NASCITA DELLA REPUBBLICA

Quel che l’Italia democratica non aveva fatto prima della marcia su Roma, e cioè difendere validamente le libertà contro il fascismo, cercò di farlo dopo l’avvento di Mussolini al potere e negli anni successivi, ma con tragica sfortuna sino al 1927, l’anno dell’instaurazione dello stato totalitario; lo fece nelle prigioni e nell’esilio fino alla seconda guerra mondiale, apertamente e con diverse e rinnovate fortune, nella resistenza e nella liberazione.
E il socialismo che era parso come colpito da paralisi nel momento rivoluzionario del primo dopoguerra, toccò il massimo di altezza ideale nella prima lotta antifascista e salì alto nel favore popolare, come nuova classe dirigente, nel momento della repubblica.
Questo momento antifascista del socialismo si riassume nel nome di Giacomo Matteotti, il segretario del PSU, il Partito Socialista Unitario, quello di Turati, nato dopo la scissione dell’estate del 1921.
Questo giovane deputato del Polesine, di agiata famiglia agraria, eroe tutto prosa, come lo chiamava Gobetti, fermamente e saldamente neutralista anche quando l’Italia era percorsa dal pathos della guerra, fermamente antidemagogico nelle difficili giornate successive, amministratore locale esemplare, aveva portato nel gruppo che Turati, Treves, Modigliani avevano ricostruito dopo l’espulsione dei massimalisti, una ventata di giovane attivismo; ma attivismo freddo, protestante, animato dal senso del dovere.
Ricostruire un partito quando gran parte delle posizioni di forza erano ormai occupate dalla fazione fascista, ricostruirlo tra i moderati - fuori cioè da ogni premessa rivoluzionaria - , ricostruirlo nell’intransigenza assoluta, era impresa che solo un uomo di tempra eccezionale poteva compiere.
Contro il fascismo appoggiato dalla violenza e dalle intimidazioni, nelle campagne dominate dallo squadrismo, Matteotti sostenne la battaglia del suo partito come battaglia delle opposizioni; e certamente a lui si deve se una pattuglia agguerrita del vecchio socialismo, che era parso colpito come da paralisi nel momento dell’avvento al potere del fascismo, si oppose strenuamente a Mussolini nonostante fosse ormai una minoranza di fronte alle truppe ufficiali del duce.
Ma Matteotti non era solo un organizzatore, era un combattente e un combattente ideale.
Quando la Camera, in maggioranza fascista, si riunì, il deputato socialista, nel memorabile discorso del 30 maggio 1924, documentò freddamente, tra le ingiurie dei fascisti, violenze, illegalità, brogli, assassinii, che avevano impedito il libero svolgimento della campagna elettorale, e concluse chiedendo l’annullamento delle elezioni.
La conclusione invece che ebbe a dire al termine del suo discorso ai compagni che gli stavano vicino fu profeticamente “E ora potete prepararmi l’elogio funebre”.
Il 10 giugno 1924, per ordine di Mussolini, era rapito ed ucciso; il suo corpo sarà ritrovato solo il 16 agosto a 20 chilometri da Roma, in località Quartarella, da un brigadiere dei carabinieri.
Per l’Italia intera l’assassinio di Matteotti significò il rifiuto di accettare in silenzio la sfida di Mussolini; per mettere a tacere le opposizioni e le diffuse voci della protesta morale, Mussolini dovette instaurare la dittatura, lo stato totalitario.
Per il socialismo italiano l’assassinio di Matteotti significò la persecuzione, lo scioglimento, lo schiacciamento, ma anche la ripresa intellettuale e morale, l’attivismo politico, il pegno dell’avvenire.
I due partiti, massimalista e riformista, parteciparono insieme alla secessione delle opposizioni detta dell’Aventino (i deputati dell’opposizione il 27 giugno 1924 abbandonarono il Parlamento), che scosse profondamente il regime, minacciandone la caduta.
Ma ancora una volta le divisioni delle opposizioni e la determinazione di Mussolini ebbero la meglio.
Fu lo stesso Mussolini - ormai sicuro dell’appoggio del re, al quale aveva concesso nell’agosto 1924 il contentino del giuramento di fedeltà della Milizia Fascista che veniva inquadrata con le forze armate dello Stato -che il 3 gennaio 1925, alla riapertura della Camera, decise di mettere le opposizioni con le spalle al muro.
“Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano – egli disse - che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto……..Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione. Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è nella forza”, e concludeva promettendo ai fascisti che la situazione sarebbe stata chiarita entro 48 ore “su tutta l’area”.
Le misure che vennero prese sciolsero organizzazioni e circoli, fu messo il bavaglio alla stampa, ma la morte definitiva del sistema democratico doveva ancora arrivare.
Il 5 novembre 1925 l’ex deputato socialista Zaniboni, aiutato dal generale Capello, tentava di uccidere Mussolini ma l’attentato andava a vuoto per colpa di una spia.
Il 31 ottobre 1926, dopo essere sfuggito a due attentati effettuati il primo il 7 aprile da una inglese, Violetta Gibson, il secondo l’11 settembre dall’anarchico Lucetti, Mussolini fu fatto segno ad un colpo di rivoltella andato a vuoto, esploso a Bologna dal giovane Zamboni immediatamente linciato dalla Milizia.
Quest’ultimo avvenimento fu l’occasione che il regime attendeva; il 5 novembre il Consiglio dei ministri scioglieva tutti i partiti, sopprimeva i giornali antifascisti e tutte le associazioni non in linea con il regime, introduceva la pena di morte ed istituiva il Tribunale Speciale per la difesa dello stato.
Al movimento socialista non restava che la lotta clandestina e l’esilio dove - come scrisse un giovane socialista milanese, autorevole dirigente del partito e parlamentare dopo il fascismo, Guido Mazzali - compiere l’espiazione socialista e cioè la riflessione ed il ripensamento sui comportamenti socialisti negli anni che avevano preparato l’avvento al potere del fascismo.
I due partiti, il PSI ed il PSU, non tornarono ad unirsi in patria, ma non si può dimenticare che quando il partito di Matteotti e Turati era già sciolto, Pietro Nenni, massimalista, e Carlo Rosselli, riformista e liberal-socialista, diedero vita a Milano al Quarto Stato, un settimanale che aveva come programma politico immediato l’alleanza socialista-repubblicana e l’unità di tutti i socialisti.
Ne’ si può dimenticare che di lì a poco fu resa impossibile anche la vita ai dirigenti dell’opposizione: sorvegliati, arrestati, picchiati a morte, confinati, i vecchi e i nuovi giovani dirigenti del socialismo democratico presero la via dell’esilio ed in esilio trovarono la forza di proclamare nel 1933 la Carta dell’Unità che ricomponeva l’unione di tutti i socialisti italiani.
Aderivano al partito unificato i Turati, i Treves, i Modigliani, i Buozzi; vi aderiva anche quel giovane massimalista, già repubblicano e poi direttore dell’Avanti! che aveva guidato il rifiuto della fusione con i comunisti, Pietro Nenni, ed un altro giovane torinese, che veniva invece dal PSU di Turati e a Vienna s’era iniziato al marxismo storico, Giuseppe Saragat.
E ancora un altro giovane avvocato di Savona che aveva organizzato, con Rosselli e Parri, la fuga in Corsica e poi in Francia del vecchio leader Turati, Sandro Pertini, che aveva cercato di installare oltralpe una radio contro il regime; tornato in Italia per tentare di ricostruire il partito socialista nella clandestinità fu arrestato e rimase in galera ed al confino fino alla fine del regime.
Rodolfo Morandi conobbe il carcere di Saluzzo; Fernando De Rosa cadde in Spagna alla testa del battaglione internazionale Octobre; l’operaio Ricciardi fu ucciso, come molti altri, nel passare la frontiera; Giuseppe Faravelli, dopo aver diretto il centro socialista interno con Morandi conobbe l’esilio ed il carcere, Buozzi fu assassinato dai tedeschi a La Storta e uccisi da sicari fascisti i fratelli Rosselli.
Il carattere epico di quella lotta socialista non deve tuttavia fare velo a tre constatazioni fondamentali: primo, fu una lotta dura, come tutte le opposizioni democratiche, quella socialista giunse alla caduta del fascismo pressoché scardinata come organizzazione; secondo, il risultato maggiore della lotta nell’esilio e nel carcere fu di conservare attiva in una minoranza la tradizione socialista e di sottoporla al vaglio delle esigenze europee, ma appunto perciò il partito non poté abbracciare tutti i fermenti di novità e non poté organicamente assorbire quella tradizione di azione, sostanzialmente socialista, che si formò attorno a Carlo Rosselli ed ebbe impetuoso sviluppo durante la Resistenza; terzo, il partito vittorioso con la vittoria dell’antifascismo in generale era sì, sotto molti aspetti, quello del prefascismo, ma sotto altri doveva rifarsi e riformarsi alla dura prova dell’esperienza.
I socialisti comunque non furono i soli a combattere il fascismo nelle piazze d’Italia sino al 1922; nella terra di Spagna, con le brigate internazionali, dal 1936 al 1938; nelle nostre montagne, con la resistenza partigiana, dal 1943 al 1945; in un’ininterrotta ventennale azione politica nell’esilio e nella clandestinità.
Forse i socialisti fornirono un apporto militare inferiore a quello comunista, per le minori capacità organizzative del loro partito, ma nessuna forza fu altrettanto moralmente e politicamente coerente in questa lotta.
Non il mondo cattolico, perché la Chiesa ed il mondo cattolico nella stragrande maggioranza, alfine si adattarono alla pacifica convivenza con il regime; non il mondo liberale, la borghesia italiana, che in maggioranza finì con l’accettare il regime.
Neppure il mondo comunista, che subì due vizi strutturali: il legame di ferro con Mosca e l’abitudine a considerare il valore della libertà meno significativo degli aspetti economici.
Dalla linea stalinista della lotta al socialfascismo del 1929 in cui tutte le forze democratiche furono equiparate al fascismo, si passò ad assecondare le ragioni di potenza dell’URSS quando nel 1939 dopo l’accordo Hitler - Stalin i comunisti si trovarono a predicare un approccio pacifista verso la Germania hitleriana.
Scriveva Stato Operaio “I Tasca, i Modigliani, i Saragat, i Nenni, questi farabutti, fanno la stessa politica che fece Mussolini nel 1914-’15 per l’intervento in guerra a favore dell’imperialismo dell’Inghilterra e della Francia”.
Parole gravissime verso i fratelli socialisti che, nonostante il fuoco del conflitto e l’immenso sacrificio compiuto dagli stessi comunisti nella Resistenza, mai del tutto si cancellarono dalla memoria dei vecchi socialisti democratici e riformisti.
Certo il partito dei martiri antifascisti, da Matteotti a Buozzi ai fratelli Rosselli e degli eroi come Pertini, potrà rivendicare, insieme alla lotta, l’unicità della sua assoluta coerenza politica antifascista.

DALLA VITTORIA ALLA SCISSIONE DI PALAZZO BARBERINI

Il Partito Socialista Italiano uscì dal travaglio degli anni del fascismo, dai 19 anni di esilio e dalla improvvisata ricostruzione della liberazione in posizione eminente, quasi di speranza e di guida della vita politica italiana. Era stato pronto, quando l’Italia era ancora parzialmente liberata, a seguire nel 1944 nell’opposizione al secondo gabinetto Bonomi, guidato da forze monarchiche e conservatrici, i gruppi più chiaramente repubblicani, mentre il PCI, in aperta polemica con il PSI, si era adattato ad appoggiare il governo monarchico.
Nenni con la sua campagna del “vento del Nord” che riportò all’Avanti! la popolarità dei giorni più gloriosi, aveva preparato l’opinione pubblica dell’Italia liberata al ricongiungimento con il nord e al rinnovamento anche istituzionale del paese.
Ignazio Silone, uscito dal PCI per dirigere l’Avanti!, il 6 giugno 1946 titolava il fondo del giornale con “Grazie Nenni”. Nel giorno della vittoria referendaria contro la monarchia i socialisti davano atto al loro segretario di essere stato, insieme a tutti i militanti, il fattore decisivo per la vittoria della repubblica.
Sconfiggere la monarchia significava per i socialisti sconfiggere l’autoritarismo di una dinastia provinciale e militare con alle spalle le repressioni antioperaie e la connivenza con il fascismo.
Il partito si fece anche carico, come sempre successivamente, di difendere quei valori liberaldemocratici che la borghesia nostrana non sapeva interpretare perché a cavallo del secolo si era adattata alle politiche forcaiole maturate all’ombra della corona e, nei decenni successivi, alla dittatura fascista.
Il partito svolgeva quindi un’opera di garanzia e di mediazione tra le varie forze politiche e fu artefice, con il Ministro socialista degli interni Romita, del regolare svolgimento delle elezioni per il referendum e per la Costituente, assicurando l’ordine e spegnendo sul nascere tentazioni di colpi di stato di destra.
Alle elezioni della Costituente che fecero del PSI il secondo partito italiano ed il primo della sinistra con oltre il 20% dei consensi, aveva fatto da preludio l’affermazione socialista nelle elezioni amministrative, specie a Milano: i socialisti apparivano ai cittadini portatori di progresso e assieme di stabilità democratica.
Si aggiunga che, con l’iniziata dissoluzione del Partito d’Azione, cominciava, da parte dello storico Partito Socialista, il riassorbimento di quelle forze della Resistenza che in parte gli erano mancate durante il periodo della lotta clandestina e dell’emigrazione.
Inoltre in più occasioni, come nel conflitto alla Costituente per l’inserzione del Concordato con la Chiesa nell’articolo VII della Costituzione, i socialisti, contrariamente ai comunisti, si erano rifiutati di accedere a un compromesso che pretendeva di fondare la pace religiosa su un’insincera accettazione di pretese ecclesiastiche esorbitanti; poi nella politica estera, con l’accettazione di un trattato di pace duro ma necessario, e nella politica sociale – con la funzione di mediazione nella CGIdL (unitaria anche con i cattolici) - il partito aveva una posizione chiave.
Poco dopo tuttavia, quasi sull’onda di quei successi, nello stesso 1946, il maggior partito della sinistra italiana andò incontro a una crisi dalla quale non pochi profeti di sventura dissero che non si sarebbe risollevato.
Le cause stavano nella politica italiana, nella politica delle alleanze, nella politica internazionale.
Nella politica italiana il partito era sì in una posizione centrale, ma le posizioni centrali logorano quei partiti che, oltreché per se stessi, operano per la nazione e per le classi diseredate.
Tra i voti che erano venuti al socialismo nel 1946 non pochi erano voti dati per convinzioni momentanee e spesso labili: omaggi al progressismo che non osavano spingersi al comunismo, o espressioni di preoccupazioni conservatrici che non osavano passare al clericalismo o alla destra economica.
Il partito applicava la più larga (sebbene spesso ancora giudicata insufficiente) democrazia interna, mentre i due partiti rivali – DC e PCI – erano invece obbedienti alla ferrea disciplina di autorità collocate fuori dalla discussione democratica, anzi addirittura fuori del paese (il Vaticano e gli USA, l’URSS).
Portato innanzi per primo sull’onda del generico entusiasmo, il PSI doveva essere il primo a subire gli effetti del riflusso.
In secondo luogo la politica delle alleanze. Il PSI era stretto al partito comunista da un patto di “unità di azione” che aveva avuto grandi effetti durante la lotta antifascista mettendo fine a un periodo di logoranti polemiche in presenza di un nemico comune; esso asseriva a proprio fondamento la riconosciuta affinità dei due partiti.
Indubbiamente, comune era il ceppo del partito socialista e del comunista ma, dalla scissione di Livorno in poi, il partito comunista si era profondamente allontanato dal ceppo originario.
Aveva sostituito alla flessibilità della consociazione socialista la più salda e centralistica organizzazione gerarchica; aveva fatto della presa del potere il problema essenziale e quasi unico, fino ad esaltarlo nella forma totale e dittatoriale che esso aveva assunto nell’esperienza staliniana. Nondimeno - ed era il suo dramma oltre che la sua forza – non rinunciava a scendere sul terreno della democrazia parlamentare per realizzare le alleanze più spregiudicate, condannando ogni compromesso quando non vi fosse parte, difendendolo quando era sua iniziativa; affermava di essere depositario degli ideali socialisti, della concezione della classe e della democrazia quando rifuggiva dai metodi democratici al suo interno e idolatrava il regime staliniano di cui già si percepivano i segni autoritari.
La convivenza poi nell’unità di azione con il partito socialista era per il PSI svantaggiosa, in quanto il PCI portava nei contatti con la base socialista un’unica direttiva, precisa, rigida, uniforme, senza le perplessità tipiche della dialettica democratica e della libera espressione ampiamente di casa tra i socialisti.
Resta da osservare che i socialisti non avevano potuto ancora compiutamente elaborare, tra la scissione di Livorno e la caduta del fascismo, una tattica e una politica matura ed adatta ai tempi nuovi.
La crisi sarebbe comunque stata superabile se contemporaneamente non si fosse scatenata in Europa la guerra fredda, accompagnata dalla divisione in blocchi militari, dall’instaurazione nei paesi di influenza sovietica delle cosiddette “democrazie popolari”, regimi assolutistici in veste di ampie coalizioni, le quali si svelarono ben presto stati di polizia a partito unico.
La cortina di ferro calò a dividere il mondo occidentale e l’orientale, ciononostante nella libera Europa i partiti socialisti, anche nei paesi di più vecchia democrazia, mantennero con qualche difficoltà la posizione dominante che avevano acquisito dopo la vittoria antinazista e la liberazione.

DALLA SCISSIONE ALL’UNIFICAZIONE SOCIALISTA

In queste condizioni, in meno di due anni, un partito vittorioso fu condotto alla scissione ed alla crisi che segnò l’inizio del 1947.
Prima che nel partito socialista il nuovo clima di tensione interna ed internazionale fu sentito dal paese che fu nelle elezioni amministrative del novembre del 1946 assai meno caldo verso il partito di quel che non fosse stato nel giugno dello stesso anno.
Tenere insieme la fede nei valori permanenti delle soluzioni democratiche con la possibilità di condurre la lotta di rinnovamento delle masse divenne particolarmente difficile e all’interno del partito, anche sotto la pressione delle forze esterne, la cosa finì per presentarsi come una scelta alternativa.
Anche in quegli stati come la Francia dove non vi furono scissioni nel movimento socialista, ma erano presenti correnti comuniste di considerevole ampiezza, i socialisti registrarono crisi di voti.
In Italia la scissione prese la forma più radicale proprio per la maggiore coscienza che della gravità del conflitto avevano i protagonisti, per la situazione del paese, per la scelta della via di salvezza che sembrava divergere irrimediabilmente, per il tentativo, non ripetuto altrove – che si concretò a Roma nel congresso del PSI nel gennaio 1948 – di formare uniche liste elettorali socialiste e comuniste.
Possiamo oggi dire che Nenni, con il suo richiamo all’unità del partito “che è al di sopra degli uomini, che è l’espressione della continuità storica” e Saragat con il suo proposito di mantenere la solidarietà con L’Internazionale Socialista e la classe lavoratrice dell’occidente europeo, esprimevano entrambi esigenze giuste che drammaticamente non trovarono una composizione.
Così accanto al PSI si formò, con il congresso di Palazzo Barberini, il PSLI che, dopo vari mutamenti di nome, assunse in via definitiva il nome di PSDI.
Da allora, per quasi un decennio, i due partiti si affrontarono; il PSI stretto al PCI da un patto di alleanza, il PSDI, se non costantemente al governo, partecipe degli indirizzi dei governi di coalizione a maggioranza democristiana che ressero il paese dal 1948 in poi.
Se si guarda all’opera dei due partiti nel loro campo, non si può non riconoscerne il carattere largamente positivo, entro la cornice nella quale si vennero a trovare.
Il PSDI, venutigli a mancare gli apporti di massa in cui sperava, di fronte a una Democrazia Cristiana padrona di una maggioranza assoluta, mantenne non solo aperti i programmi sociali, ma collaborò ai momenti capitali positivi di quel periodo come l’orientamento europeo.
Uomini come Tremelloni posero per la prima volta, in sede di governo, i problemi del piano, incontrando l’ironia facile quanto stolta delle destre che dovevano troppo tardi riconoscere quanto, su questo punto, fossimo stati indietro rispetto alle altre maggiori nazioni europee.
E la collaborazione al governo, pure da una posizione mutilata, fu tutt’altro, come fatalmente doveva apparire attraverso la polemica, di un’accettazione fatalistica e remissiva.
La fondazione del Comisco (Comitato di cordinamento tra i partiti socialisti) e la ricostruzione successiva dell’Internazionale socialista rimontano al PSDI e a questo periodo.
Analoghe osservazioni si possono fare, dall’altra parte, per il PSI, al quale era rimasta la più ampia base di iscritti e i quadri tradizionali del partito.
Anche se premuto dalla forza comunista, come il PSDI lo era da quella di governo democristiana, il partito seppe conservare un contatto profondo con la sua tradizione, salvandola attraverso momenti difficili.
Questo fu il suo maggiore apporto alla tormentata storia di quegli anni quando tutto pareva rinchiudersi nella lotta “fronte contro fronte”.
La riorganizzazione intrapresa da Rodolfo Morandi; le parole d’ordine di “alternativa socialista” lanciate per le elezioni del 1953, ma preparate già dai congressi di Bologna e Milano e confermate da quello di Torino, misero capo alla profonda revisione che, dopo i fatti d’Ungheria, condussero il partito ad aprirsi verso il superamento della scissione.
Tutta quest’opera positiva che ha salvaguardato in un periodo difficile la presenza del socialismo tra le masse, nella società moderna e al governo, non deve far dimenticare i gravi danni e le occasioni perdute.
Quanto ai pericoli corsi dai due partiti di diventare succubi di forze estranee, basterà accennare per il PSI al “fronte” del 1948, per il PSDI agli “apparentamenti” con la legge maggioritaria del 1953 (cosiddetta “legge truffa”).
Più del ricordo delle dure censure e delle accuse di tradimento che a quel tempo i più settari rivolgevano ai compagni dell’altro partito valga l’ammonimento, sempre attuale, delle numerose crisi e scissioni interne dell’uno e dell’altro, con itinerari tra di essi di andata e ritorno con l’inevitabile dispersione di molte energie.
La fedeltà serbata all’idea permise però ai due partiti, malgrado le polemiche, di non considerarsi affatto estranei l’uno all’altro e la presenza tra essi di nuovi atteggiamenti fu visibile sin dal 1953, quando la situazione internazionale divenne più aperta con la morte di Stalin e quella interna più variabile con la perdita da parte della DC della maggioranza assoluta.
Il 1956 è l’anno del XX congresso per PCUS, del rapporto Krusciov, delle rivolte operaie nell’Europa orientale, in particolare di quella ungherese, e dell’avventura di Suez.
Il PCI, scosso dagli avvenimenti sovietici, registra dissensi che provocano una scissione capeggiata da Antonio Giolitti che confluisce nel PSI.
L’estate del 1957 vede il colloquio di Pralognan tra Saragat e Nenni, la fine dell’unità d’azione del PSI con il PCI, l’inizio di un dialogo vero tra PSI e PSDI.
La tendenza all’unità socialista, già chiaramente espressa nel 1956, non valse a portare i due partiti all’unità immediata.
Ci vollero per questo due elezioni generali, quelle del 1958 e del 1963, un lungo accostamento con identità di posizioni politiche, e infine le trattative che misero capo alla Costituente Socialista.
Le elezioni del 1958 mostrarono ancora una considerevole diversità di tono e di accento tra i due partiti, ma nel corso della legislatura - tra l’altro dopo drammatici momenti di crisi - si giunse ad un governo presieduto da Fanfani con l’appoggio esterno del PSI, in esso si vide la prefigurazione e la premessa della successiva unificazione e si cominciò l’attuazione di un programma quale quello di centro sinistra voluto dai socialisti a cominciare dalle riforme di struttura già attuate nei paesi democratici moderni.
Questo governo gettò le basi del successivo governo di centro sinistra con piena partecipazione di tutti i socialisti.
Il processo politico, qui sintetizzato, non fu senza conseguenze sull’unità del partito socialista che pagò, tra il 1963 ed il ’64, questa scelta di governo con una dolorosa scissione, alla sua sinistra, che portò alla nascita del Partito Socialista di Unità Proletaria. alla perdita di alcuni dirigenti storici ed alla nascita di una corrente interna di sinistra guidata da Riccardo Lombardi.
Fu messa comunque in moto un’importante serie di riforme legislative, discusse e strappate alla DC con infiniti compromessi, per dare compimento alla Costituzione.
La barriera di sospetto che le circostanze e l’abilità dei conservatori avevano eretta contro i socialisti, contro la parità di diritto delle classi popolari, venne lentamente abbattuta.
E in questo nuovo clima maturò nel 1964 l’elezione di Giuseppe Saragat alla Presidenza della Repubblica; nel luglio del 1966 PSI e PSDI elaborarono la Carta dell’unificazione socialista ed il 30 ottobre poté nascere a Roma il PSI-PSDI unificato.

IL CENTRO SINISTRA

Il primo governo organico di centro sinistra dovette affrontare una crisi economica di dimensioni nazionali e sopportare il peso di misure necessariamente impopolari, ma il primo colpo decisivo all’arretratezza della società italiana, come nell’apparato governativo e statale, era dato.
Inizia la stagione delle riforme: dal 1964 al 1968 viene cancellata la vecchia mezzadria; con la legge sui patti agrari nascono gli enti di sviluppo ed il piano verde, ma lo scontro è durissimo sia con la destra conservatrice che con il massimalismo comunista.
Vengono poste le basi per l’unità europea e lo sviluppo dei Trattati di Roma già condivisi dai socialisti nel 1957 con la contrarietà dei comunisti che, negando il voto alla costruzione europea, la bollano con Pajetta alla Camera come “un’alleanza scellerata fra i monopoli”, contrarietà che continuerà sino al 1978, quando il PCI voterà contro all’adesione al sistema monetario europeo unico (SME).
La spinta dei socialisti verso l’unità europea risale a molti anni prima dell’esperienza di centro sinistra e si identificava con una spinta verso l’Internazionale Socialista, verso cioè una comunità di partiti riformisti in grado di aiutare a cancellare il massimalismo assimilato negli anni del frontismo. L’operazione non risulta facile a causa dell’influenza dei comunisti sul mondo culturale e sul sindacato.
Proprio nel sindacato si dovrà aspettare il 1973 perché la CGIL abbandoni la FSM (la Federazione Sindacale Mondiale governata dai sovietici) per aderire alla CES di ispirazione socialdemocratica.
E’ comunque utile ricordare come il primo sasso contro la FSM, con un coraggio poco ricordato, venne lanciato dal segretario socialista della Camera del Lavoro di Milano, Bruno Di Pol, che nel 1961, a Mosca, solo tra migliaia di delegati, votò no al congresso della federazione.
Nel 1962, mentre è in corso un duro attacco del PCI ai socialisti accusati di tradimento e di cedimento alle forze conservatrici, il centro sinistra realizza, su richiesta socialista, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la più incisiva e traumatica delle sue riforme, sostenendo una campagna di aggressione senza precedenti condotta dalla grande stampa, dalla Confindustria e dal mondo economico.
Il Corriere della Sera e la gran parte delle testate nazionali dipingono questa riforma come poco meno di un atto sovversivo di ispirazione bolscevica e collettivista.
I protagonisti di questa riforma, Riccardo Lombardi e Ugo La Malfa, non sono affatto estremisti statalisti, ma portatori nel mondo laico e di sinistra di un pensiero economico moderno e pragmatico.
L’obiettivo non è la demolizione del mercato ma l’eliminazione delle discriminazioni tariffarie in particolare per il mezzogiorno, l’erogazione dell’energia, condizione prima dello sviluppo industriale, non secondo la logica del profitto dell’erogatore, bensì secondo una logica di programmazione e di sviluppo.
L’annunciata catastrofe economica non si verifica e, come si vedrà, a distanza di 25 anni, nel 1987, l’energia prodotta passerà da 4 a 160 miliardi di chilowattori con una diminuzione del prezzo medio per utente del 30%.
Il primo ottobre 1963, con l’approvazione della legge Gui–Codignola, si raggiunge un obiettivo da tempo agognato dai socialisti: la scuola unica e obbligatoria sino ai 14 anni, altri tre anni di scuola media unica obbligatoria si sommano ai cinque anni obbligatori delle elementari.
A questa “riforma di struttura”, che introduce uguaglianza e coesione sociale, se ne aggiunge ben presto un’altra, quella della sicurezza sociale varata alla Camera, con la protesta e l’astensione comunista, il 30 aprile 1969 dal ministro socialista del Lavoro, Brodolini.
La riforma interessa tutto il settore della sicurezza sociale, da quel momento gli anziani hanno diritto alla pensione sociale, i lavoratori lasciano il servizio con il 74% dell’ultima retribuzione.
Il 15 maggio 1970 l’Avanti! scrive “La Costituzione entra in fabbrica”; ed ecco un’altra grande conquista: lo Statuto dei Lavoratori.
Dopo la riforma del sistema pensionistico, la riforma per la liberalizzazione e la modernizzazione delle relazioni industriali, voluta anch’essa da Brodolini ormai vicino ai suoi ultimi giorni di vita, va in porto non senza un duro scontro con una destra chiusa e retrograda ed il massimalismo comunista, che non vota a favore, sempre pronto a chiedere di più di quello che realisticamente si può ottenere.
L’arbitrio padronale è sconfitto e si realizzano nelle fabbriche condizioni di democrazia quali solo negli anni ’50 neppure si potevano immaginare.
Accanto a queste si pongono nel 1963 le basi per un’altra decisiva riforma di struttura: quella della Sanità.
Nel 1963 il governo di centro sinistra costituisce per la prima volta il Ministero della Sanità e responsabile è il socialista Giacomo Mancini; nel 1968, un altro socialista, Mariotti, vara la riorganizzazione di tutto il sistema ospedaliero e all’interno del sistema pubblico l’assistenza viene perciò garantita a tutti e gratuitamente.
Nel 1978, con il ministro socialista Aniasi, si compie il passo decisivo: la creazione del Servizio Sanitario Nazionale e l’eliminazione del vecchio sistema mutualistico.
Il 1967 vede finalmente l’approvazione della legge elettorale regionale; i socialisti, vincendo le disperate resistenze di gran parte della DC, ottengono che le regioni, previste dalla Costituzione, prendano finalmente vita coronando un sogno che era entrato nei programmi socialisti sin dal 1919.
All’indomani del primo governo di centro sinistra il direttore dell’Avanti! Gerardi titolava a tutta pagina “Da oggi ognuno è più libero”, poteva sembrare anche allora un’ingenua esagerazione propagandistica, ma in realtà, come si constaterà, con i socialisti nel governo si venne realizzando un nuovo clima di crescita delle libertà e delle garanzie collettive ed individuali nelle leggi come nel costume.
Si procede allo smantellamento progressivo delle vecchie bardature autoritarie dello stato monarchico e fascista con l’attuazione della Costituzione e con l’utilizzazione di uno degli istituti più importanti della carta, il referendum popolare, il cui uso sarà decisivo per l’affermazione di riforme fondamentali per il costume come il divorzio e l’aborto.
Argentina Altobelli, una dirigente contadina tra i fondatori del partito socialista, si chiedeva nel 1902 “il divorzio è legge dello stato in Francia e nel Belgio, paesi cattolicissimi, or come va che la Chiesa in questi paesi ha acconsentito al divorzio e vorrebbe negarlo in Italia?”.
Passa molto più di mezzo secolo, si susseguono proposte socialiste e soltanto nel 1970 l’anomalia italiana viene cancellata con l’approvazione della legge Fortuna - Baslini.
La parte conservatrice della DC non si rassegna e la Chiesa si ostina nonostante il divorzio sia legittimo in tutto il mondo civile.
Si invoca il referendum sperando in un paese più arretrato del Parlamento ma non è così: la vittoria è definita la sera del 12 maggio 1974, il 59% degli italiani dice no all’abrogazione del divorzio.
La battaglia dei socialisti per la non discriminazione tra uomini e donne nella società e sui luoghi di lavoro, che faceva dire ad Anna Kuliscioff, la fedele compagna ed ispiratrice di Filippo Turati, nel 1890 al circolo Genio e lavoro di Milano, a proposito della condizione femminile, “prima di tutto a lavoro uguale salari uguali”, ha con il centro sinistra i suoi primi successi.
E’ del 1963 la legge sull’accesso delle donne ai pubblici uffici ed alle professioni, del 1971 quella che regola il congedo delle lavoratrici madri dalle aziende prima e dopo il parto, del 1977 la normativa sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, nel 1983 un decreto del governo Craxi istituisce il Comitato Nazionale per le pari opportunità.
Purtroppo molto tempo passerà ancora perché la parità diventi concreta, le conquiste di costume infatti non possono essere decretate solo per legge.
Ma il più è fatto, e con la battaglia per la liberalizzazione dell’aborto, in cui si assiste in parte ad una ripetizione di quella per il divorzio, la condizione femminile in Italia fa, grazie all’avanguardia radicale ed alla forza di persuasione dei socialisti, decisivi passi avanti.
La legge sull’aborto viene approvata nel 1978 e, ancora una volta, sotto la spinta dell’integralismo cattolico, occorre un referendum, nel 1981, perché gli italiani la confermino.
Il centro sinistra, lentamente ma definitivamente, avvia il motore del rinnovamento del costume, cessano le diversità rispetto all’Europa; negli anni ’60 cade la rigida censura su film e spettacoli, non si può licenziare per causa di matrimonio, vengono abrogate le norme penali che puniscono la propaganda a favore del controllo delle nascite, si avvia il superamento del cosiddetto “delitto d’onore”.
La sinistra è unita su queste battaglie, anche se il PCI vi arriva dopo molti tentennamenti a causa del suo desiderio di offrire, con maggiore generosità dei socialisti, una disponibilità al dialogo con il mondo cattolico, quasi tagliare la via al PSI per riconquistare l’iniziativa del dialogo con i cattolici proprio sul terreno per essi più importante, quello della famiglia.

DALLA SCISSIONE DEL 1969 AL GOVERNO CRAXI

Al Palazzetto dello Sport di Roma, alla presenza del Presidente dell’Internazionale Socialista, Nenni viene acclamato presidente del nuovo partito socialista unificato, ma le speranze suscitate tra militanti, intellettuali e cittadini vengono ben presto deluse da una gestione paritetica tra le due componenti del PSI e del PSDI, che si rivela quasi da subito paralizzante.
Con il passare dei mesi la situazione interna, deteriorata da continui dissensi, pare poter avere uno sbocco solo attraverso un congresso straordinario in grado di procedere ad un chiarimento politico definitivo tra tendenze e provenienze che ormai hanno assunto la fisionomia di vere e proprie correnti.
Le elezioni politiche del maggio 1968, svolte in un clima interno esasperato dai conflitti elettorali, sanciscono una riduzione del peso elettorale del nuovo partito che non raccoglie i consensi neppure della somma dei due precedenti partiti.
Il resto è crisi; disimpegno dal governo e dalla politica di centro sinistra ritenuta ormai sbiadita nella sua carica riformatrice, congresso nell’ottobre e nascita di ben cinque correnti interne.
La necessità di un rinnovato rapporto con il PCI invocato dalle componenti che fanno capo a De Martino e Lombardi, in contrapposizione ai nenniani ed ai saragattiani, aggrava lo scontro, che si consuma nel luglio del 1969 con una nuova scissione.
In meno di tre anni si è consumato il generoso tentativo di Nenni, di Saragat e della grande maggioranza dei militanti del PSI e del PSDI, di dar vita a un solo partito socialista dopo anni di divisioni e incomprensioni; le divisioni e le diffidenze dei “colonnelli” riportano in vita i due partiti, da un lato il PSI con De Martino, Lombardi, Mancini, Giolitti, Nenni e Craxi (questi due ultimi, seppure profondamente amareggiati, restano comunque fedeli al partito nonostante siano stati posti in minoranza) dall’altro il PSU, poi di nuovo PSDI, con Tanassi e Cariglia, ma anche Mauro Ferri, Matteo Matteotti e tanti altri nenniani che hanno preferito la prospettiva socialdemocratica ad un PSI che rischia di essere di nuovo subalterno al PCI.
In realtà, dopo una prima crisi, PSI e PSDI continueranno a collaborare nel centro sinistra, affronteranno con atteggiamenti diversi la stagione culturale e politica del ’68 (il PSI con maggiore apertura alle innovazioni anche radicali del movimento studentesco, il PSDI con perplessità e riserve confinanti con il conservatorismo) mentre si troveranno uniti in quelli che vengono definiti “gli anni di piombo”, gli anni sanguinosi dell’offensiva terroristica delle BR contro lo stato democratico.
Ma ancora una volta gli eventi internazionali scuotono le coscienze della sinistra: il 1969 è l’anno della primavera di Praga, la rivolta democratica contro l’assolutismo sovietico in Cecoslovacchia.
Il PCI, duramente colpito per i suoi tradizionali legami con l’URSS, non può ignorare quanto di libertario e di democratico è invocato dai giovani e dai lavoratori cecoslovacchi insorti contro i carri armati sovietici.
Nasce un primo tiepido dissenso nel PCI e inizia la breccia democratica nel monolito dei paesi dell’Est, pochi decenni e il comunismo verrà travolto in Russia ed in tutta l’Europa orientale.
Nel 1970 Mancini è segretario del PSI e nel 1972, al congresso di Genova, sull’onda della polemica dovuta ai modesti risultati elettorali, De Martino prende il posto di Mancini affiancato da due Vicesegretari, Giovanni Mosca, già Segretario Generale aggiunto della CGIL e Bettino Craxi, recente deputato e leader degli autonomisti milanesi e lombardi.
Nel luglio del ’76 alla riunione del Comitato centrale convocato all’Hotel Midas di Roma De Martino è posto in minoranza e la componente autonomista riconquista, proprio con Craxi, la segreteria nazionale.
E’ l’avvento nel PSI delle generazioni posteriori alla Resistenza, di coloro che hanno solo intravisto nella loro infanzia la guerra e che nel partito non possono vantare la loro militanza nella Resistenza.
La segreteria Craxi si segnalerà subito per attivismo politico e culturale; si rivaluteranno le radici riformiste e ci si appresterà ad approntare i progetti di quelle grandi riforme di sistema che ormai i tempi nuovi richiedono.
Il paese è stato percorso per anni da trame e da complotti: stragi e bombe costellano il susseguirsi di governi a guida DC che svuotano la spinta riformista del centro sinistra e poco fanno per adeguare l’Italia alle nuove sfide internazionali che si annunciano.
Nel PSI ci si prepara a parlare di riforma costituzionale, di rinnovamento dello stato e di nuova sinistra in chiave riformista, laica e liberale, contrapposta all’unità delle sinistre invocata da tempo, non senza un disegno egemonico, dal PCI che con Berlinguer ha però inaugurato fin dalla fine del 1973 una nuova stagione di attenzione verso la DC, lanciando dalle pagine di Rinascita la proposta del “compromesso storico”.
“Compromesso storico”: un’espressione per definire un sistema democratico imperfetto dove è bandita l’alternanza di governo tra le forze rivali in campo che invece si consociano in nome della difesa del sistema e delle libertà democratiche che vengono così avvilite e tarpate nel loro naturale sviluppo.
Il compromesso storico, ovvero l’allargamento della maggioranza di governo al PCI, coronando un disegno da molti coltivato nella DC, quello di superare i limiti dell’alleanza con i socialisti per realizzare intese direttamente con il più grande partito di opposizione.
Aldo Moro è l’interprete democristiano di questa attenzione verso il PCI che si viene a trovare quasi alle soglie del governo, anche se pesanti sono le riserve del mondo cattolico tradizionale e netta è l’opposizione degli USA.
Su questi nuovi fermenti si è già abbattuta la violenza del terrorismo, figlio degenere del ’68, che ha colpito ed ucciso uomini politici, sindacalisti, manager, giornalisti, magistrati (in totale dal ’69 all’80 si registreranno 362 morti, 4490 feriti).
Nell’impossibilità di realizzare il “compromesso storico” si sceglie la politica della solidarietà nazionale, una formula che viene adottata sotto la spinta del terrorismo, con il dichiarato proposito di far fronte comune, quasi in chiave CLN, al partito armato, ma in realtà utile all’avvicinamento di PCI e DC nelle scelte di governo.
E’ questa una stagione difficile per il PSI, che rischia di essere schiacciato dai due maggiori partiti della DC e del PCI.
Alla vigilia di importati decisioni che dovrebbero coinvolgere il PCI nella maggioranza di governo si raggiunge l’apice della crisi con la strage di via Fani, dove trova la morte l’intera scorta del presidente della DC Aldo Moro che viene sequestrato.
La vicenda Moro divide i partiti democratici ed il PSI, con Craxi, si pone a capo della corrente che, nella tradizione umanitaria del socialismo, intende trattare per salvare la vita dello statista democristiano, ma tutto è vano.
Con la scoperta del cadavere di Moro la politica di solidarietà nazionale resta orfana
e il PSI torna a giocare le sue migliori carte: l’elezione di Sandro Pertini alla Presidenza della Repubblica restituisce al PSI iniziativa e ruolo.
Il crollo elettorale del PCI alle amministrative del ’78 ed alle politiche ed europee del ’79 conferma il declino definitivo delle politiche compromissorie tra DC e PCI.
Craxi, che nel 1979 lancia i temi della “grande riforma” istituzionale, è convocato da Pertini per la formazione del governo ma il tentativo fallisce per l’ostilità della DC.
Il primo gennaio 1980 muore Pietro Nenni, con lui, con La Malfa, scomparso pochi mesi prima e con Giorgio Amendola, che morirà nel giugno del 1980, scompaiono alcuni dei più prestigiosi padri della repubblica, i rifondatori dell’Italia democratica.
Craxi si consolida come leader del PSI e con il successo del congresso di Palermo dell’aprile del 1981, si conferma come l’erede di Pietro Nenni.
Tra il ’79 e l’80 vedono la luce i governi Cossiga e Forlani con la partecipazione del PSI, ma nel 1981, sull’onda della crisi provocata dalla scoperta delle liste della P2 del faccendiere Licio Gelli, Pertini incarica il repubblicano Spadolini che dà vita al suo primo governo pentapartito (DC,PSI, PSDI, PRI, PLI).
La strada per un laico alla guida del paese è spianata; dopo due governi Spadolini ed un governo di transizione Fanfani, dopo i risultati delle elezioni generali del giugno 1983, in cui DC e PCI perdono consensi mentre il PSI ne guadagna di nuovi, il Presidente Pertini dà l’incarico per la formazione del governo a Bettino Craxi, che si trova ad essere il primo socialista a guidare un governo italiano.
Con la presidenza del consiglio socialista si apre una stagione di stabilità, di innovazioni e di rinnovato prestigio internazionale, che segnerà profondamente gli anni ’80, ponendo il partito socialista al centro della politica italiana.
Gli anni del pentapartito a guida socialista demoliscono progressivamente i retaggi del compromesso storico, attirando sul governo una dura opposizione del PCI guidato, dopo l’improvvisa scomparsa, nel giugno del 1984 di Enrico Berlinguer, da Natta e successivamente da Achille Occhetto.
Negli anni dei suoi due governi, dal primo agosto 1983 all’aprile 1987, Craxi dimostra una grande autorevolezza e risolutezza sia in campo economico (nessun altro avrebbe deciso il taglio dei tre punti della scala mobile che fecero scattare la molla psicologica della ripresa economica), che in quello internazionale (l’opposizione armata agli USA a Sigonella nella vicenda del sequestro dell’Achille Lauro; il vertice europeo a Milano al Castello Sforzesco che spiana la strada agli accordi di Maastricht).
L’inflazione, ancora al 16% nel 1983, scende al 6%, il prodotto interno lordo sale
dalla crescita zero fino a sfiorare un 3% annuo, l’Italia si pone al quinto posto nel mondo per reddito pro-capite, i consumi crescono e la conflittualità sindacale scende a livelli minimi, si avviano con successo i processi di ristrutturazione industriale che neutralizzano le conseguenze dei forti aumenti petroliferi con recupero di produttività e introduzione di nuove tecnologie.
Certo la favorevole congiuntura internazionale gioca a favore del governo a guida socialista, ma l’affidabilità internazionale di Craxi, la stabilità dei suoi governi e la modernità delle sue proposte, decretano il successo dell’iniziativa socialista.

Dal 1987 ad oggi

La fine del governo Craxi (aprile 1987), conseguenza di una lunga e complessa lotta interna alla DC, stanca, in molte sue componenti, di dover subire - in politica interna come in quella internazionale - l’iniziativa socialista, apre le porte ad una stagione di profonda instabilità e di crescente discredito dei partiti a cui vengono imputati i mali del paese ed i malfunzionamenti dello stato.
In questo clima sopraggiungono eventi internazionali di portata storica che se compiutamente compresi potrebbero cambiare la storia della sinistra italiana: novembre 1989, cade il muro di Berlino, è l’inizio della fine dei regimi comunisti nel mondo.
Giuseppe Saragat, scomparso nel giugno del 1988, non può assistere a questi avvenimenti epocali da lui sempre auspicati e non assiste neppure alla scissione del suo partito che vede Pietro Longo, Franco Nicolazzi ed altri dirigenti e militanti socialdemocratici, passare nel PSI.
La profezia turatiana, che un giorno rivoluzionari e leninisti avrebbero dovuto ricredersi ed accettare il socialismo democratico e riformista, si avvera, ma solo in parte.
La caduta del comunismo non favorisce, nella revisione e nell’autocritica, una nuova unità a sinistra; il PCI muta nome in PDS e si divide partorendo un nuovo partito, Rifondazione Comunista, che si richiama ancora ai principi del comunismo e fa del massimalismo e del radicalismo la sua regola d’azione; nascono nuovi partiti, tra cui la Lega Nord, la Rete, Alleanza Nazionale, erede del MSI.
Il PDS resta sostanzialmente ostile al PSI, e la politica dell’unità socialista lanciata da Craxi non fa alcun passo in avanti.
Gli alti costi della politica intanto hanno preparato il terreno a illegalità e corruzzioni a cui non sfugge nessun partito, sia esso coinvolto nella gestione del potere nazionale o in quello locale.
Partita da episodi locali per giungere ben presto a più complesse vicende nazionali, dilaga la stagione di Mani pulite e con essa la fine dei partiti della Prima Repubblica.
Il resto è storia d’oggi: scioglimento di partiti, localismi, nascita di nuovi movimenti, modifiche elettorali, bipolarismo; Casa delle libertà e Ulivo, gli schieramenti che oggi si contendono il potere.
E il socialismo?
Dopo il governo Amato del maggio del 1992, dopo le segreterie Benvenuto e Del Turco, il PSI - con molti dirigenti costretti ad abbandonare per vicende giudiziarie che diventano troppo spesso ingiustificata persecuzione - si scioglie, ed il movimento socialista si ritrova nel SI guidato da Enrico Boselli, poi SDI con l’unificazione a Fiuggi del SI con la componente riformista del PS di Ugo di Intini e con quella socialdemocratica dello PSDI di Schietroma; ma una parte di dirigenti confluisce in Forza Italia, un’altra, più ridotta, nei DS, ed un’altra ancora si disperde in altre formazioni politiche.
Si tenta a più riprese la strada dell’unità socialista, del superamento della diaspora socialista, ma il processo è lastricato di insuccessi.
Il comportamento dell’ex PCI, che cerca di approfittare della disgregazione socialista e che accondiscende spesso a un giustizialismo violento e antidemocratico (di cui sono aperti sostenitori Lega ed Alleanza Nazionale) allontana anziché avvicinare le componenti storiche della sinistra.
Craxi muore nel gennaio del 2000 lontano dal suo paese, rimpianto e odiato come spesso capita a chi ha saputo misurarsi con la storia.
Sulla sua tomba in Tunisia ad Hammamet è incisa una sua frase che sintetizza l’uomo ed il politico: “La mia libertà equivale alla mia vita”.
I socialisti storici stanno oggi nello SDI e stanno a sinistra, stanno nella coalizione dell’Ulivo difendendo strenuamente le loro peculiarità, la loro storia e la loro autonomia politica.
I Democratici di Sinistra si definiscono, al congresso di Pesaro del 2002, riformisti e socialdemocratici, seppure ancora con distinguo e difficoltà.
Sarà ancora lunga e tormentata la strada per ricomporre, nel nome del
riformismo democratico, l’unità della sinistra italiana?
Forse sì, ma a sinistra in Italia, anche nell’era della globalizzazione, c’è ancora posto per un grande partito socialista, democratico, laico e riformista, un partito del socialismo europeo che si lasci alle spalle divisioni e rancori del passato e si ponga al servizio delle nuove generazioni e dei nuovi problemi che l’inizio del terzo millennio sta ponendo anche alla società italiana.

Il cammino del socialismo italiano.

1881 – 30 aprile - Andrea Costa, passato dall’anarchia alle idee socialiste, fonda in Romagna il settimanale l’Avanti!.
1882 – ottobre - Nascita a Milano del Partito Operaio
1882 – 22 ottobre - Andrea Costa viene eletto al Parlamento, è il primo deputato socialista.
1886 – 1-2 maggio – a Chicago, dopo una grande manifestazione per le otto ore di lavoro, una bomba provoca diversi morti tra la polizia che spara sui manifestanti. Accusati ingiustamente vengono condannati a morte diversi dirigenti anarchici e quattro di loro giustiziati l’11 novembre. Da quel momento il primo maggio diventa la festa internazionale dei lavoratori.
1892 – 14 agosto – A Genova presso la sala Sivori si consuma la separazione tra anarchici e socialisti.
1892 - 15 agosto – Si costituisce a Genova presso la sala dei Carabinieri (il Corpo dei fucilieri garibaldini) il Partito dei Lavoratori Italiani.
1893 – Settembre - Al Congresso di Reggio Emilia il partito prende il nome di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.
1895 – Gennaio - Al Congresso clandestino di Parma (a causa delle leggi eccezionali di Crispi) il partito prende definitivamente il nome di Partito Socialista Italiano.
1896 – 25 dicembre - Fondazione del quotidiano l’Avanti! diretto da Leonida Bissolati
1897 – 21/28 marzo – Alle elezioni politiche il PSI, con 623 sezioni e 27.281 iscritti, elegge 15 deputati.
1898 – maggio - Repressione dei moti di Milano per il caro pane; il generale Bava Beccaris fa sparare sulla folla, oltre 100 morti e centinaia di feriti.
1900 – 29 luglio – Muore a Monza il re Umberto I sotto tre colpi di pistola esplosi dall’anarchico Gaetano Bresci, giunto dall’America per vendicare i morti del ’98.
1907 – Luglio - Espulsione dal partito dei sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola.
1912 – 10 luglio – Al XIII Congresso di Reggio Emilia vengono espulsi, con l’accusa di bellicismo e di ministerialismo, i riformisti di destra Bissolati e Bonomi.
1914 – 7 giugno – Scoppia ad Ancona e in altri centri la rivolta anarchica nota come settimana rossa.
1914 – 15 novembre – Il direttore dell’Avanti!, Benito Mussolini, fa uscire il primo numero di un nuovo giornale, Il Secolo d’Italia, da cui scatena una campagna antisocialista e interventista. Il 24 novembre è espulso dal partito.
1917 – Febbraio rivoluzione menscevica contro lo zarismo in Russia. Ottobre – rivoluzione bolscevica guidata da Lenin e Trotzky.
1919/1920 – Biennio rosso: le grandi agitazioni operaie, l’occupazione delle fabbriche (sett. 1920), la crisi del massimalismo.
1921 – 21 gennaio – Congresso di Livorno: la frazione comunista abbandona il partito e fonda il Partito Comunista d’Italia.
1921 – Settembre – Il deputato socialista Giuseppe Di Vagno è assassinato dai fascisti a Mola di Bari.
1922 – 4 ottobre – Il gruppo riformista di Turati espulso dai massimalisti del PSI fonda il Partito Socialista Unitario con segretario Giacomo Matteotti.
1922 – 30 ottobre – Mussolini giunge nella capitale dove si è conclusa la marcia su Roma delle squadre fasciste.
1924 – 10 giugno – Giacomo Matteotti, Segretario nazionale del PSU, è rapito ed assassinato dai fascisti dopo la sua denuncia in Parlamento dei brogli elettorali dell’aprile precedente.
1925 – 29 dicembre – Muore a Milano Anna Kuliscioff. I suoi funerali sono disturbati dalle squadre fasciste.
1926 – 5 novembre – Il fascismo scioglie i partiti politici. Ha inizio il periodo dell’esilio e della clandestinità.
1930 – 21 luglio – A Parigi i due partiti socialisti PSI e PSU, grazie a Turati ed a Nenni, si unificano.
1932 – 29 marzo – Muore in esilio a Parigi Filippo Turati.
1934 – 17 agosto – Viene stipulato tra PSI e PCI un patto d’unità d’azione per la lotta comune al nazifascismo.
1936/38 – Guerra di Spagna – Le brigate internazionali con socialisti, comunisti, anarchici, democratici di diverse nazionalità combattono a fianco dei repubblicani spagnoli contro i franchisti sostenuti da fascisti e nazisti.
1938 – 10 novembre – Vittorio Emanuele III controfirma le leggi razziali emanate dal governo fascista.
1943 – 23 agosto – Si ricostituisce ufficialmente il movimento socialista in Italia e prende il nome di PSIUP con Pietro Nenni Segretario. Viene rinnovato il patto d’unità d’azione con il PCI.
1946 – 2 giugno – Al referendum vince la Repubblica e si elegge l’Assemblea Costituente.
1946 – 18 giugno - Proclamazione della Repubblica.
1946 – 25 giugno - Saragat eletto Presidente della Costituente.
1947 – 9 gennaio – I gruppi che si richiamano al socialismo democratico facenti capo a Giuseppe Saragat e Matteo Matteotti escono dal partito e fondano il PSLI (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani).
1948 – 1 gennaio – Entra in vigore la Costituzione approvata il 22 dicembre ’47.
1948 – 18 aprile – Sconfitta elettorale del fronte popolare PSI-PCI.
1948 – 14 luglio – Attentato a Togliatti, scontri nel paese con 23 morti.
1948 – 22 luglio – La componente cattolica rompe l’unità sindacale.
1949 – 11 maggio – Al XXIX congresso del PSI di Firenze esce la componente di Giuseppe Romita che nel dicembre fonda il PSU; il 30 maggio le correnti socialdemocratica e repubblicana escono dalla CGIL e fondano la FIL.
1949 – L’Internazionale Socialista espelle il PSI.
1950 – 1 maggio – Dalla scissione della FIL nascono CISL e UIL.
1951 – 1 maggio – Dall’unione di PSLI e PSU nasce il PSDI.
1953 – 5 marzo - Morte di Stalin.
1953 – 29 marzo – E’ approvata tra i tumulti la legge elettorale maggioritaria (la cosiddetta “legge truffa”).
1953 – 7 giugno – Alle elezioni politiche la coalizione centrista manca per 50 mila voti il raggiungimento del premio di maggioranza.
1954 – 9 giugno – Abrogata la legge maggioritaria si torna al proporzionale.
1955 – 31 marzo – Al XXXI congresso del PSI Nenni lancia il dialogo con i cattolici.
1956 – XX Congresso del PCUS e denuncia di Krušëv dello stalinismo.
1956 – 25 agosto – Nenni e Saragat affrontano nei colloqui di Pralognan i problemi della prospettiva dell’unità socialista.
1956 – 23 ottobre - Rivolta d’Ungheria.
1957 – 6 febbraio – Prevale decisamente al Congresso di Venezia del PSI la linea autonomista di Nenni.
1957 – 25 marzo – Entra in vigore il Mercato Comune Europeo.
1959 – 15 gennaio - Il XXXIII congresso del PSI è vinto dagli autonomisti di Nenni.
1960 – 19 luglio – Si conclude l’avventura di destra del governo Tambroni nato il 25 marzo.
1961 – 12 gennaio – Nasce la prima giunta locale di centro sinistra a Milano.
1961 – 15 settembre – XXXIV congresso: il PSI accetta la Nato e rivendica un ruolo nella “stanza dei bottoni”.
1962 – 21 febbraio – 1° governo Fanfani con l’appoggio esterno del PSI.
1963 – 28/29 Aprile – Alle elezioni politiche leggera flessione del PSI che passa dal 14,2% al 13,8% e successo PSDI dal 4,5% al 6,2%.
1963 – 25 ottobre- Congresso PSI, vittoria autonomista e ratifica dell’accordo per il primo governo Moro a partecipazione PSI.
1964 – 11 gennaio – Contraria all’alleanza di centro sinistra esce dal PSI la sinistra di Basso e Vecchietti che costituisce il PSIUP.
1964 – 21 agosto – Togliatti muore a Yalta.
1964 – 28 dicembre – Giuseppe Saragat è il primo socialista eletto capo dello Stato in Italia.
1965 – 29 giugno – Il socialista Pieraccini presenta una proposta di pianificazione economica.
1966 – Luglio – PSI e PSDI elaborano la Carta dell’Unificazione socialista.
1966 – 30 ottobre – Si tiene a Roma la Costituente Socialista: nasce il PSI PSDI unificati con Presidente Nenni e Cosegretari De Martino e Tanassi.
1968 – 31 gennaio – Con l’occupazione dell’Università di Trento comincia la contestazione studentesca.
1968 - 19 maggio – Alle elezioni politiche flessione elettorale del partito unificato e disimpegno dal governo di centro sinistra.
1969 – 13 maggio – Si crea nel partito unificato una nuova maggioranza che guarda ad un rinnovato rapporto con il PCI ponendo in minoranza la componente autonomista guidata da Nenni. Il Segretario Mauro Ferri si dimette.
1969 – 6 luglio – I gruppi di Autonomia e Rinnovamento Socialista escono dal partito e costituiscono il PSU con Mauro Ferri Segretario e Tanassi Presidente.
1969 – 12 dicembre – Strage di piazza Fontana a Milano. Ha inizio la strategia della tensione.
1970 – 24 aprile – Giacomo Mancini è eletto Segretario del PSI, il 20 Maggio lo Statuto dei lavoratori è legge. Il primo dicembre è definitivamente approvata la legge sul divorzio.
1971 – 6 febbraio - Il PSU riprende il nome di PSDI.
1971 – Il 23 dicembre Giovanni Leone è eletto capo dello stato; il PSI abbandona il governo.
1972 – Dopo le elezioni politiche del 7/8 Maggio crisi nel PSI della segreteria Mancini.
1972 – Il 39° Congresso del PSI di Genova si conclude con la vittoria dell’alleanza demartiniani-autonomisti favorevole alla ripresa del centro sinistra. De Martino è Segretario, Bettino Craxi e Giovanni Mosca Vicesegretari.
1973 – 7 luglio – Il PSI rientra nel governo Rumor.
1973 – 9 ottobre – Berlinguer lancia il compromesso storico.
1974 – 13 maggio – Vittoria del divorzio al referendum.
1975 – 31 dicembre – Con un editoriale sull’Avanti! De Martino annuncia l’uscita del PSI dalla maggioranza di governo.
1976 – 15 luglio – Bettino Craxi è eletto Segretario del PSI al posto di De Martino durante la riunione del Comitato Centrale all’Hotel Midas.
1976 – 27 novembre – Al Congresso dell’Internazionale Socialista a Ginevra, Bettino Craxi è eletto Vicepresidente; Presidente è Willy Brandt.
1978 – 16 marzo – Aldo Moro sequestrato dalle BR; uccisi i 5 agenti di scorta.
1978 – 29 marzo – Craxi e Signorile vincono il Congresso di Torino: alternativa socialista e linea umanitaria nel caso Moro.
1978 – 9 maggio – E’ rinvenuto a Roma il corpo senza vita di Aldo Moro.
1978 –15 giugno - Si dimette il Presidente Leone e l’8 luglio è eletto a Capo dello stato Sandro Pertini.
1979 – 25 settembre – Craxi lancia dall’Avanti! i temi della “grande riforma” costituzionale ed istituzionale.
1980 – 1 gennaio- Muore Pietro Nenni.
1980 – 27 giugno – Precipita a Ustica il DC9 partito da Bologna: 81 morti – 2 agosto – Strage alla stazione di Bologna, 85 vittime.
1980 – 28 ottobre – Berlinguer abbandona il compromesso storico.
1981 – 22 aprile – Craxi vince con l’80% il Congresso PSI di Palermo ed è eletto Segretario direttamente dall’Assemblea dei delegati.
1981 – 17 maggio – Al referendum la legge sull’aborto è confermata con il 68%.
1982 – 31 marzo – Conferenza programmatica del PSI a Rimini sulla modernizzazione del paese; lo slogan è Governare il cambiamento.
1983 – 4 agosto – Primo governo Craxi.
1984 – 18 febbraio – Nuovo concordato Italia/Santa Sede.
1984 – 11 maggio – 43° Congresso PSI a Verona, Craxi rieletto Segretario per acclamazione.
1984 – 11 giugno – Muore Enrico Berlinguer.
1985 – 10 giugno – Il 54,3% degli elettori vota per la non abrogazione della legge che ha tagliato la contingenza.
1985 – 10 ottobre – Fatti di Sigonella; 17 ottobre – Crisi tra Italia e USA, dimissioni di Craxi. La crisi rientra dopo un incontro tra Craxi e Reagan.
1986 – 1 agosto – Craxi forma il suo secondo governo.
1987 – 17 febbraio - Crisi del governo Craxi – 14 giugno – Elezioni politiche, successo del PSI al 14,3% dall’11’4% del 1983.
1987 – 31 marzo – 44° Congresso PSI a Rimini, Craxi è riconfermato Segretario per la quinta volta con il 93,25% dei voti.
1988 – 11 giugno – Muore Giuseppe Saragat
1989 – 15 febbraio – Scissione nel PSDI: Longo e Nicolazzi passano al PSI.
1989 – 13 maggio – 45° Congresso del PSI, a Milano all’Ansaldo, fortemente critico verso la DC; successo alle lezioni europee con il 14,8%.
1989 – 9 novembre – Cade il muro di Berlino e tre giorni dopo Occhetto annuncia che il PCI cambierà nome.
1990 – 11 gennaio – Muore Sandro Pertini.
1990 – 6 maggio – Alle elezioni amministrative: il PCI perde il 6%, la Lega al 20%.
1990 – 10 ottobre – Il PCI diventa PDS; il 12 dicembre nasce Rifondazione Comunista.
1991 – 9 giugno – Il 95,6% degli elettori vota a favore dell’abolizione delle preferenze plurime alle lezioni politiche.
1992 – 17 febbraio – Con l’arresto di Mario Chiesa inizia il periodo detto di “Mani pulite”.
1992 – 28 giugno – Il socialista Giuliano Amato guida un governo DC, PSI, PSDI, PLI.
1993 – 11 febbraio – Dimissioni di Craxi da segretario, Giorgio Benvenuto Segretario del PSI.
1993 – 28 maggio – Ottaviano Del Turco sostituisce Benvenuto alla segreteria del PSI.
1994 – 14 novembre - Scioglimento del PSI e nascita del SI con Segretario Enrico Boselli.
1996 – 30 novembre – Nasce a Roma all’EUR il PS con leader Ugo Intini.
1998 – 8/10 maggio - Congresso di Fiuggi nascita dello SDI.
2000 – 19 gennaio – Craxi muore in Tunisia ad Hammamet.
2001 – 16/18 Novembre – Congresso di Pesaro dei DS.
2002 – 12/14 Aprile - Congresso SDI di Genova e conferma a Presidente di Enrico Boselli.

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