Il processo per "la boje"

04 agosto 2004

di Giuseppe Manfrin
da Avanti della Domenica - 16 febbraio 2003 - anno 6 - numero 07

Il 27 marzo 1886 si concluse alla Corte d’Assise di Venezia il processo intentato contro ventidue lavoratori e organizzatori dei contadini mantovani ch’erano stati alla guida del grande sciopero agricolo che passò alla storia col nome "la boje". Il processo durò quaranta giorni (iniziò il 16 febbraio) e tutti gli imputati furono assolti dopo che avevano subito circa un anno di carcere preventivo. L’accusa era grave ed assurda: erano stati accusati di "… aver tra di loro e con la Società provinciale di Mutuo soccorso e la Federazione dei lavoratori di Mantova, sia con statuti, regolamenti e tariffe; sia con discorsi in adunanze ufficiali e con scritti; con eccitamenti e scioperi, attentato alla sicurezza interna dello Stato, mediante atti aventi per oggetto di portare devastazioni, strage e saccheggio in vari comuni della provincia di Mantova".

Quel processo rappresentò un capitolo importante della storia del movimento contadino e proletario del nostro Paese; in esso vennero registrati i primi passi di quel movimento che avrà in seguito prospettive e ruoli di notevole importanza nella nostra storia sociale. In quegli anni si verificò la presa di coscienza delle masse dei lavoratori della terra; dei primi conflitti sociali in un contesto dove l’agricoltura era investita da una grave crisi. Prima di allora le agitazioni che avvenivano nelle campagne in varie parti del paese, erano da considerarsi fatti sporadici, irrazionali, delle "jaquerie". Erano, infatti, ancora vivi i ricordi, dei moti sulla tassa del macinato. Sulle condizioni di lavoro, igienico-sanitarie, abitative, nutrizionali ecc. eloquenti sono state le pagine dell’inchiesta parlamentare agraria, diretta dall’on. Jacini. I tipici lavoratori agricoli padani erano i salariati fissi, gli obbligati dell’azienda capitalista della pianura irrigua, ma accanto ad essi, apparvero in grande crescita i braccianti avventizi o disobbligati e la condizione di questi ultimi era d’esser senza terra e senza lavoro. Di solito venivano impiegati nei lavori agricoli di punta e in quelli straordinari, ma, specie nell’inverno, vivevano il periodo più drammatico di piena disoccupazione che bisognava affrontare con lavori pubblici, con emigrazione stagionale oppure con lotte sociali.

Fra questi lavoratori, specie nelle province di Rovigo, Mantova e Cremona, nacque il movimento proletario di resistenza e quello che era l’associazionismo mutualistico si diffuse anche nei piccoli villaggi rurali e i lavoratori impararono la solidarietà di classe. Quindi negli anni 1884-’85 si ebbero quelle agitazioni al grido di "la boje". Il grido era una specie di invettiva polesana figurata, di chi non ne poteva più: "la boje, la boje e de boto la va da fora" (Bolle, bolle e di colpo fuoriesce). Le prime agitazioni iniziarono nel Polesine con quel grido, che più di una minaccia, per i lavoratori, diventò una apertura a nuova speranza. Ma lo sviluppo maggiore dell’agitazione si ebbe nel mantovano, dove i contadini erano organizzati in due Associazioni: quella mutualistica dell’ing. Sartori e l’Associazione generale diretta dall’ex garibaldino Francesco Siliprandi e dal contadino Giuseppe Barbiani. Lo sciopero nel mantovano durò parecchi mesi e provocò molta paura fra gli agrari. Per la prima volta i lavoratori erano organizzati e si poté notare la crescita e la maturazione del proletariato. Alla disperata resistenza degli agrari si aggiunse la pesante reazione governativa con l’intervento dell’esercito. Nel marzo 1885 lo sciopero venne soffocato: circa 200 persone vennero arrestate e 22 delle quali deferite all’Autorità Giudiziaria. Al processo delle Assise di Venezia, fra gli imputati figuravano anche Sartori, Siliprandi e Barbiani ed altri dirigenti contadini. Il Collegio di difesa era composto dall’avv. Giuseppe Ceneri, maestro di Diritto all’Ateneo di Bologna, l’avv. Ettore Sacchi, deputato di Cremona della Democrazia radicale e futuro ministro e il giovane e brillante avv. Enrico Ferri, già noto giurista mantovano, non ancora socialista. Chi seguì tutto il processo fu l’on. Andrea Costa, il primo deputato socialista, inviato speciale de "Il Messaggero" di Roma. La giuria popolare della Corte d’Assise di Venezia, con sentenza del 27 marzo 1886, assolse i ventidue imputati. Quella sentenza operò una profonda svolta sul costume e sugli atteggiamenti dei contadini con la tendenza – come osservò lo storico mantovano Rinaldo Salvadori – di "…trasformare i centri tradizionali di relazione (la piazza del paese, la stalla, l’osteria ecc.) in luoghi di organizzazione proletaria; si notò pertanto una violenta lacerazione del tessuto sociale tradizionale basato sull’istituto della parrocchia e dell’altrettanto secolare mondo della corte padronale".

I resoconti pubblicati sulla stampa nazionale, il dibattito in Parlamento e lo stesso svolgimento del processo, misero in chiaro quanto fosse mutata la coscienza dei contadini i quali, invece di andare ad assaltare i forni e i municipi come ai tempi della tassa sul macinato, andavano organizzandosi chiedendo migliori tariffe e giuste mercedi. Da queste constatazioni tutta l’impalcatura di una cospirazione alla luce del sole o di progetti anarchici o sovversivi, che se confermati avrebbero fatto condannare gli imputati ai lavori forzati a vita (art. 157 cod. Pen.), venne prima molto attenuata, poi crollò con la generale assoluzione. Il processo di Venezia rappresenta sicuramente un momento significativo nella storia della classe operaia in Italia.

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