Roma, 3 marzo 2007 - Con la bussola socialista. la mozione presentata da Enrico Boselli

03 marzo 2007

Il socialismo italiano ha varcato il secolo XXI per l’azione e la passione di chi, tra tante vicende drammatiche e con tanti sacrifici personali, si è pervicacemente impegnato a mantenere vivo ed autonomo un movimento politico tra i più importanti della storia d’Italia. Se questa impresa che poteva apparire impossibile in una situazione nella quale i socialisti erano accerchiati dalla diffidenza o se non peggio dalla denigrazione è stata portata avanti, il principale merito spetta allo SDI che ha continuato a rappresentare nella sinistra italiana, nell’Internazionale Socialista e nel Partito socialista europeo una fondamentale tradizione politica. Abbiamo cercato di sviluppare la grande eredità dei nostri padri che fin dalla fondazione del partito alla fine dell’Ottocento combattevano per la causa della classe operaia e bracciantile e per quella del popolo più umile e diseredato, dando una speranza di un futuro migliore a chi non ce l’aveva. Questa storia dei socialisti è stato ricca di apporti e di contributi: il libertarismo di Andrea Costa che ha raccolto il meglio della tradizione degli anarchici italiani; il riformismo di Filippo Turati che ha indicato la via da seguire per il socialismo italiano; il femminismo d’avanguardia di Anna Kulisciov che ha sostenuto il ruolo della donna in una condizione di assoluta parità con l’uomo; il municipalismo e il rigore morale di un martire, come Giacomo Matteotti, che ha posto nel suo grande significato l’esperienza amministrativa delle comunità locali e ha esaltato il valore ideale della politica; il liberalsocialismo di Carlo e Nello Rosselli che hanno costruito un ponte ideale con i liberali riformatori, come sono stati Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Guido Calogero, Piero Calamandrei e Norberto Bobbio; il federalismo europeo di Eugenio Colorni che, con la sua partecipazione all’elaborazione del ‘Manifesto di Ventotene’ ha lanciato l’idea degli Stati Uniti d’Europa; il sindacalismo riformista di Bruno Buozzi che ha sempre lottato per l’unità del mondo del lavoro; la socialdemocrazia europea di Giuseppe Saragat che è stato il rifondatore italiano dell’Internazionale socialista a Francoforte nel 1951; l’idealità e la concretezza che deve avere la politica impersonata da Pietro Nenni che è diventato il simbolo di tutta la storia socialista; l’antifascismo di Sandro Pertini che è stato un eroe della Resistenza e il presidente della Repubblica più amato dagli italiani; la grande capacità strategica e programmatica di Riccardo Lombardi che fu uno dei principali ideatori del centro sinistra, la ricerca dell’unità del movimento operaio da parte di Francesco De Martino che s’impegnò sempre per far approdare la sinistra al riformismo; il meridionalismo di Giacomo Mancini che fece della battaglia per il Sud il suo principale obiettivo; le iniziative per l’ampliamento dei diritti civili di Loris Fortuna che hanno portato, assieme a Marco Pannella, all’introduzione del divorzio e dell’aborto in Italia; l’opera di modernizzazione di Bettino Craxi che ha cercato di rinnovare la sinistra e affermare nel nostro Paese un grande spirito d’innovazione. E’ trascorso più di un secolo. Il mondo è cambiato. Senza i socialisti l’Italia non sarebbe diventata un paese moderno e civile. Ma ancora ci sono molte cose da fare, da riformare e da innovare e per riuscire a farlo occorrono ancora una volta i socialisti. Come SDI abbiamo avuto alleanze politiche e progetti comuni con tutti i riformisti italiani, dai cristiani democratici di sinistra ai liberali riformatore, agli ambientalisti e ai radicali, ma non abbiamo mai perso la bussola del socialismo europeo ed internazionale. Nello svolgere il nostro Congresso a Fiuggi, i socialisti non si apprestano a concludere, ma a continuare quella che una delle più belle storie d’Italia
Le rivoluzioni in corso
Le trasformazioni in atto nelle società contemporanee richiedono una sempre maggiore capacità di innovazione.
I nuovi fenomeni si presentano con la caratteristica di vere e proprie rivoluzioni: la diffusione e crescita delle tecnologie informatiche; la sempre più radicale riduzione delle distanze geografiche e le conseguenze di tale riduzione in ambito economico e politico (crisi dello stato-nazione); le progressive scoperte scientifiche nel campo delle bio e delle nano-tecnologie; l’aumento incontrollato della popolazione; le massicce migrazioni e la trasformazione delle nostre società, sempre più multietniche e multireligiose; l’aumento delle disparità sociali, legato da un lato alla crisi dei modelli classici di stato sociale, dall’altro alle trasformazioni profonde del mondo del lavoro, progressivamente spogliato dalle sue indispensabili tutele; infine, i preoccupanti cambiamenti climatici e ambientali. Siamo di fronte a processi che impongono alla politica un vero e proprio mutamento di paradigma, e non solo un adattamento della nostra visione della società. Come è accaduto agli albori del capitalismo industriale, una fase nuova è sempre segnata da resistenze, antagonismi, ritorni all’indietro. Ci troviamo di fronte ad un mondo che avanza e nel quale però non automaticamente vi sarà più libertà, più giustizia sociale, più benessere, più sicurezza e più pace. Anzi, nel corso di una rapida accelerazione del cambiamento, aumentano vertiginosamente le disuguaglianze sociali, si restringono e si spostano i centri di decisione e vi è una acutizzazione dei conflitti sociali, interetnici, religiosi e geopolitici.
Tuttavia, sarebbe un errore colossale fare un’opera di pura resistenza al cambiamento. Si tratta invece di mutamenti che, se contrastati nelle loro derive negative, possono determinare un miglioramento delle condizioni di vita su scala planetaria. In questo contesto è difficile segnare linee di demarcazione tra chi è l’alleato e chi è l’avversario, come è avvenuto con le concezioni più semplicistiche della lotta di classe tra proletari e capitalisti. È lo stesso carattere che assumono le trasformazioni in atto a rendere i movimenti della politica assai più complessi. Le semplificazioni, come quella della lotta alle multinazionali, ripropongono in una nuova veste antichi schemi ideologici come quello della lotta antimperialistica. In realtà, non esistono poteri buoni e poteri cattivi: ciò che conta è che qualsiasi potere sia bilanciato da pesi e contrappesi, muoversi secondo criteri di trasparenza e senza violare le regole.
È cambiata, inoltre, la scala dei valori e degli interessi. Le cittadine e i cittadini non avvertono più come esclusiva la dimensione del lavoro, ma sono sempre più interessati a tutti gli aspetti che concernono la qualità della vita, la salute, il sesso, la famiglia, le conoscenze reciproche, la comunicazione. Non si può pensare di costruire un blocco sociale che si contrapponga ad un altro. Le classi, i ceti, le differenze professionali, gli orientamenti valoriali e sessuali fanno parte di una società che, e non a torto, è stata definita “liquida” per il superamento delle rigidità conosciute nel secolo scorso. Si tratta, invece, di rivolgersi a tutti sulla base di obiettivi che non assomiglino ad un libro dei sogni, ma costituiscano i cardini essenziali di un programma di governo. Come è accaduto già altre volte, di fronte a processi che mettono in crisi tradizioni, morale, costumi e stili di vita, si determinano forti reazioni che vogliono bloccare qualsiasi novità perché in contraddizione con apparati cristallizzati di tipo dottrinale. Contro i segni positivi che emergono dalle trasformazioni in atto, si ergono da più parti fondamentalismi ideologici e religiosi di vario tipo, che si presentano come i difensori di un mondo fatto di antiche certezze ormai destinate ad andare in frantumi.
Dopo l’11 settembre una nuova epoca
Su scala planetaria, dopo il crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo, è emerso un nuovo pericolo costituito dal fondamentalismo islamico e dalle sue ramificazioni terroristiche. Con l’11 settembre si è verificato un punto di svolta su scala planetaria. Le risposte date dall’amministrazione Bush si sono fondate su azioni unilaterali, senza un adeguato coinvolgimento preventivo delle Nazioni Unite. L’approccio multilaterale seguito nel caso dell’Afghanistan, purtroppo, non è stato adottato anche nel caso dell’Iraq. Si tratta invece di un approccio che deve essere seguito sempre, senza eccezioni. La lotta al terrorismo è un impegno collettivo della comunità internazionale. Non si può escludere in assoluto il ricorso all’uso della forza, ma il terrorismo si contrasta innanzitutto con l’isolamento politico e con la soluzione dei problemi delle aree esposte a maggiori tensioni e crisi, come in Medio Oriente per quanto riguarda il contenzioso israeliano-palestinese. Occorre tuttavia essere consapevoli che, nel caso del terrorismo di matrice islamica, le cause non possono essere ricondotte unicamente all’irrisolto problema palestinese o a locali fenomeni di disagio politico, economico e sociale, ma anche ad un fondamentale e più generale problema di adattamento di alcune correnti dell’Islam alla modernità. In questo contesto, Israele si trova oggi in una situazione di gravissima difficoltà, dovuta essenzialmente a due variabili: le imprevedibili conseguenze della crisi senza fine in Iraq, ed il fattore demografico legato alla crescita della popolazione palestinese nei territori occupati e nello stesso Stato di Israele. Vi sono due popoli che hanno entrambi ragioni da far valere: va garantito non solo il diritto all’esistenza ma anche alla sicurezza per lo Stato di Israele; ma questa aspirazione è indissolubilmente legata alla creazione di uno Stato palestinese vitale, indipendente e con continuità geografica. Preoccupazione suscita la politica del governo iraniano, che non si limita ad odiosi proclami antisemiti, ma che non offre le adeguate garanzie circa la natura veramente pacifica del suo programma nucleare. Nei confronti dell’Iran vanno utilizzati innanzitutto tutti gli strumenti della pressione politica e diplomatica, senza tuttavia rinunciare al dialogo. Sarebbe, invece, assai pericoloso mettere in opera un attacco aereo sulle centrali nucleari, come stanno ipotizzando la Casa Bianca e il Pentagono.
Dopo gli strappi del governo Berlusconi, il nostro paese è tornato a guardare all’Europa come il punto di riferimento primario. L’Italia sta svolgendo un ruolo di notevole importanza nella regione mediorientale, a cominciare dalla presenza delle nostre forze armate in Libano. La conferma del nostro impegno in Afghanistan e lo stesso ampliamento della base militare di Vicenza, scelte contestate dall’estrema sinistra in nome soprattutto dell’antiamericanismo, dimostrano che è possibile, anche in dissenso con alcune scelte dell’amministrazione Bush, condurre comunque una politica di cooperazione con gli Stati Uniti, ai quali siamo in ogni caso legati, a prescindere dalle maggioranze politiche e dai Governi, da una serie di valori condivisi. Su questi come su altri temi l’Europa, un’Europa veramente unita, può fare la differenza facendo valere sia nell’ambito del cruciale rapporto transatlantico con gli Stati Uniti, sia nelle diverse crisi regionali, il proprio patrimonio di valori e di cultura politica. Solo se i paesi europei saranno in grado di ritrovare le ragioni fondamentali della costruzione europeista, dopo le battute d’arresto dei referendum francese e olandese, l’Europa sarà in grado di giocare nell’arena mondiale quel ruolo che giustamente le spetta e che la stragrande maggioranza dei paesi del mondo sollecita e reclama. In un mondo nel quale si riaffaccia la barbarie del terrorismo, ma dove talvolta gli strumenti per contrastare tale fenomeno violano la nostra cultura e civiltà giuridica, la difesa dei diritti umani assume sempre più una valenza prioritaria. La campagna per la moratoria per la pena di morte costituisce un forte impegno morale e politico, una grande battaglia di civiltà, di cui l’Italia si è di nuovo fatta interprete dinanzi alle Nazioni Unite. I socialisti non hanno mai fatto mancare la propria solidarietà a chi è oppresso da dittature e da sistemi totalitari. Ciò che valeva per le dittature reazionarie e i regimi comunisti dell’est europeo vale oggi per quasi tutti i paesi islamici, per quelli asiatici, tra cui la Cina, e per altri in via di sviluppo. La diffusione dei commerci e della globalizzazione non contrasta con questa impostazione. Attraverso l’intensificazione degli scambi, si favorisce una diffusione di informazioni e di relazioni, che può provocare un allentamento delle azioni repressive contro il dissenso politico e favorire il dialogo che, seppur perseguito a fini egoistici, risulta poi socialmente benefico.
Il commercio può essere un veicolo di libertà. I diritti umani non negoziabili della persona valgono all’Est come all’Ovest, al Nord come al Sud. Non si può efficacemente difendere la democrazia liberale se ne vengono calpestati i principi fondamentali, come accade a Guantanamo (e altrove), dove vi sono reclusi senza alcuna delle garanzie basilari del nostro patrimonio giuridico. La tutela dei diritti umani è un esempio di come il relativismo culturale non implichi relativismo etico: anzi, l'etica laica, assunta da credenti e non credenti come riferimento nella sfera pubblica, conduce a principi non contrattabili pur essendo fondata sulla ragione. Non possono essere dimenticati i problemi della salvaguardia dell’ambiente e dei cambiamenti climatici, con i quali siamo inevitabilmente chiamati a confrontarci. Sono questi i temi in cui probabilmente, negli anni a venire, ci verranno chiesti i sacrifici maggiori, nella consapevolezza che essi saranno cruciali per assicurare la salvezza del nostro pianeta. Gli strumenti e i rimedi esistono già, si tratta di avere la determinazione ed il coraggio per attuarli.

Le virtù e i vizi dell’Italia
In un’età di incertezza e insicurezza, ridare fiducia è il principale compito che spetta a tutte le forze democratiche. Infondere ottimismo nei cittadini è la vera sfida del riformismo, proprio perchè trasformare le fragilità in paura è la più insidiosa strategia del conservatorismo. Si tratta di un’impresa che in Italia non sembra alla portata delle classi dirigenti, sia al governo come all’opposizione. Il centro sinistra, che ha vinto con uno scarto minimo le elezioni, è diviso politicamente ed è privo di una comune volontà di cambiamento. L’opposizione è altrettanto frazionata e vive con un profondo travaglio il lento tramonto, troppo presto annunciato, della leadership di Berlusconi. Dopo il collasso del vecchio sistema politico, si è diffusa una sfiducia profonda verso i partiti, che non ha equivalenti negli altri paesi dell’Europa occidentale. Non c’è campagna promossa contro la classe politica, i suoi privilegi veri e presunti, i suoi difetti e le sue incapacità, che non raccolga un grande favore popolare. Nonostante il grande afflusso di elettrici e di elettori alle urne, con primati da record in Europa, il rapporto di cittadine e cittadini con le istituzioni rappresentative non è mai stato così difficile. Tuttavia, il rilievo dato ai problemi personali non costituisce una riscoperta del valore della responsabilità individuale, ma è sovente espressione di un rinnovato arroccamento a difesa di interessi corporativi, localistici e familistici, che costituiscono mali secolari dell’Italia. Manca una piena consapevolezza dell’appartenenza ad una comunità nazionale. Persiste una contrapposizione tra il proprio interesse egoistico e quello generale. Il particolarismo, che ha pesato sempre sull’Italia e che ci ha fatto arrivare con secoli di ritardo all’unità nazionale, è ancora il fattore dominante e condizionante il progresso della nostra società. Eppure le caratteristiche dell’Italia, il paese dei mille campanili, non sono solo difetti, ma anche grandi potenzialità. Le nostre città a dimensione umana non sono solo forti fattori di tenuta sociale di fronte alla crisi delle megalopoli, ma anche comunità nelle quali si esprime una grande vivacità culturale. La rete delle piccole e medie imprese, che sono una caratteristica fondamentale dell’economia italiana, ha assicurato un alto grado di flessibilità prezioso per affrontare il mercato. Allo stesso modo, il grande valore del nostro patrimonio artistico e naturale costituisce una risorsa fondamentale. Tuttavia, di fronte alle grandi trasformazioni in atto, l’Italia appare un paese nel quale non vi è lo slancio necessario per affrontare le nuove sfide. È in ritardo la politica, così distante dall’Europa occidentale, di cui l’Italia ha sempre fatto parte. È in affanno l’economia, che troppo lentamente si allontana da una produzione basata su settori tradizionali. Riesce a dominare la scena dei commerci internazionali la moda e ad essere presente nel mercato la nostra originalità architettonica. Le piccole e medie imprese, tranne lodevoli eccezioni, non riescono a mettersi insieme per sostenere gli investimenti necessari alla ricerca e dotarsi di consistente risorse finanziarie. Nel campo delle nuove tecnologie non riusciamo a svolgere alcun ruolo se non quello di consumatori. La struttura dei grandi gruppi industriali è ancora fondata prevalentemente su basi familiari, quasi le stesse del secolo passato; per di più, viviamo il retaggio di un capitalismo assistito, affiancato da un’industria pubblica e a partecipazione statale che spesso ha rappresentato l’unico asse delle sfide economiche del nostro Paese. Di fronte ad un cambiamento così rapido e incessante, che è avvenuto dopo il crollo del Muro di Berlino, l’Italia ha chiuso un capitolo della propria storia senza avere la forze, e forse il coraggio, di aprirne uno completamente nuovo.
Laicità e diritti civili
Il ruolo della Chiesa come potere temporale, a differenza degli altri paesi europei, come la Francia o la Germania, grava ancora sul destino del nostro paese. Anche la Spagna, grazie all’iniziativa di Zapatero, si è emancipata dalla sorveglianza speciale delle gerarchie ecclesiastiche. In Italia la laicità fa ancora scandalo, e viene retrocessa a “laicismo” di sparuti drappelli anticattolici. Basti pensare a come è stata trattata la posizione del gruppo parlamentare della Rosa nel Pugno in occasione della scorsa finanziaria, in favore dell’avvio di rapporti più corretti tra la Chiesa e lo Stato, attraverso, ad esempio, l'eliminazione di ingiuste esenzioni fiscali per le attività commerciali o l'attribuzione allo Stato dell'8 per mille di quei contribuenti che non esprimono alcuna preferenza, provvedimenti prontamente rifiutati anche dalla nostra maggioranza. La battaglia per l’estensione dei diritti civili, sulla ricerca, sul contrasto del mercato della droga deve essere portata avanti sulla base di alcuni punti fondamentali: - semplificazione delle procedure e riduzione dei tempi per ottenere il divorzio; - riconoscimento delle Unioni di fatto dello stesso sesso o di sesso diverso: - possibilità di ricorso all’aborto farmacologico; - libertà della ricerca scientifica e di procreazione medicalmente assistita sul modello britannico; - eutanasia e testamento biologico: legalizzazione, regolamentazione e controllo della somministrazione, nei casi terminali, di farmaci contro il dolore anche se ad elevato rischio, interruzione del mantenimento artificiale in vita, nei casi di coma profondo e irreversibile e comunque in quelli in cui non vi sia un ulteriore aspettativa di vita che non sia puramente vegetativa: la scelta deve essere espressamente indicata in un apposito testamento biologico da prevedere per ogni cittadino; - legalizzazione dei derivati della cannabis e sperimentazione della somministrazione controllata dell’eroina come avviene in Olanda e in Svizzera; - prostituzione: legalizzazione, regolamentazione e controllo..
La stessa questione, posta da socialisti e radicali, di una abolizione del Concordato, che è stata interpretata strumentalmente come un attacco alla Chiesa cattolica, nasce dalla constatazione che in una democrazia liberale, come è la nostra, dove non può esistere una religione di Stato, la libertà di culto è già assicurata da una più generale libertà di espressione. Solo così si ha “Libera Chiesa e libero Stato” .
La sinistra riformista è in crisi
Questa arretratezza culturale e politica dell’Italia, che ha lontane e forti radici storiche, ha sinora impedito l’affermazione di forze politiche di ispirazione socialista, come di quelle di impronta liberale. La geografia politica italiana durante la storia della Repubblica è stata sempre diversa da quella delle grandi democrazie occidentali. Lo era ieri, lo è oggi. Nonostante siano esistite correnti liberali e socialiste di grande vivacità culturale, il nostro Paese è stato, e per troppo tempo, dominato da un cattolicesimo integralista, pervasivo della nostra cultura e della nostra politica, come di un comunismo che si presentava con una forza ideologica totalizzante tale da sfidare quella della Chiesa. Di questa lettura, espressa per altro in chiave positiva, si fece interprete un cattolico e comunista come Franco Rodano. È vero, pur tuttavia, che nel mondo cattolico sono emerse personalità, come quella di Alcide De Gasperi, che si sono impegnate a legare la sorte dell’Italia a quella delle altre democrazie europee e americana. Le fortune politiche ed elettorali del Pci sono sicuramente dovute al realismo togliattiano che, pur mantenendo un legame di ferro con l’Unione sovietica, si è adattato strettamente al terreno culturale nel quale l’Italia si è sempre adagiata. La formula berlingueriana, che descriveva il Pci come un partito insieme conservatore e rivoluzionario, dà ancora oggi una interpretazione assai efficace di quello che è stato l’approccio togliattiano. Se il vecchio sistema politico è andato in crisi, non si sono neppure poste le premesse per arrivare a un nuovo assetto. Le antiche forze politiche si sono divise e talune, come i socialisti, disperse. È venuta meno la stessa tenuta istituzionale del nostro sistema. La rivoluzione giudiziaria non si poteva concludere e non si è conclusa con la nascita di un sistema politico più sano e trasparente e con un effettivo ricambio delle classi dirigenti, ma ha aperto un processo convulso che da una parte ha aperto le porte al populismo berlusconiano, dall’altra ha provocato una frantumazione politica senza precedenti. Non si è avuta quella evoluzione, che pure da tanto tempo ci si aspettava, la creazione cioè di un grande partito socialdemocratico di tipo europeo, formato in primo luogo dal Psi, dal Psdi e dalla maggioranza del Pci da un lato, e di un partito cristiano democratico dall’altro, secondo uno schema simile alla Germania. E la responsabilità è in primo luogo della sinistra e dei suoi leader. Craxi, pur essendo stato protagonista di grandi innovazioni, non ha compreso la portata dei rivolgimenti dell’Ottantanove, come Nenni non capì quelli del ’48. Occhetto, pur avendo capito la necessità di una rottura con il comunismo, ha pensato di costruire le sue fortune sulla distruzione di tutti i partiti che avevano sino ad allora governato, compresi il Psi e il Psdi. La dura replica della storia è che oggi la sinistra riformista si riduce ai Ds, che hanno qualche punto in percentuale in più del Psi di Craxi, e allo Sdi, che ha un po’ meno del peso elettorale del Psdi. È stata questa situazione della sinistra riformista, che da sola non è in grado di offrire un’alternativa di governo, a portare, in funzione antiberlusconiana, ad un’alleanza assai larga ed eterogenea, che va dall’estrema sinistra comunista agli eredi della sinistra democristiana, capace di vincere ma non di governare.
Un compromesso storico bonsai
È in questa situazione che è stato concepito il progetto dell’Ulivo. Al fondo di questa idea c’è stata l’aspirazione a superare le persistenti anomalie della politica italiana. Si trattava di un’operazione che non puntava a rincollare i vecchi cocci, ma a costruire una novità politica di straordinario rilievo. Di questo progetto la creazione della Margherita costituiva un momento fondamentale. Il centro sinistra, rappresentato da una Quercia contornata da cespugli, non poteva avere grandi capacità di attrazione, soprattutto nell’elettorato di centro, determinante in un sistema bipolare per far pesare il piatto della bilancia da una parte o dall’altra. Le ripetute crisi del Ppi facevano ipotizzare una scomparsa salutare di un partito cattolico, ma ponevano il problema di come utilizzare in chiave laica le energie intellettuali e politiche che questo straordinario superamento di un approccio religioso alla politica sprigionava. Si trattava, quindi, di costruire una nuova casa nella quale si potessero ritrovare riformisti di diversa provenienza, dai liberali progressisti ai cristiani democratici di sinistra, agli ambientalisti e ai socialisti. Questa nuova formazione non doveva però essere fine a se stessa, ma divenire il prototipo di un grande partito riformista che comprendesse anche i Ds. Sin dall’inizio, però, questa operazione ha mostrato i suoi limiti. La Margherita è apparsa sin dalla sua fondazione un partito troppo segnato da una larghissima presenza della sinistra postdemocristiana, a cui si contrapponeva una scarsissima incidenza delle altre componenti riformiste. Il fattore fondamentale che avrebbe dovuto impedire alla Margherita di diventare un nuovo partito cattolico era costituito dalla guida di Rutelli che non veniva dalla storia della Dc e che aveva allora un profilo nettamente laico, pur avendo da qualche tempo dichiarato di essere cattolico. È stato invece proprio Rutelli, per emanciparsi da Prodi e acquisire un controllo del nuovo partito, a sospingere la Margherita verso lidi confessionali. Questo processo ha avuto la sua fase più significativa, e in un certo senso conclusiva, con l’adesione di Rutelli all’invito fatto dal presidente della Cei, cardinale Ruini, ad astenersi dall’andare a votare per il referendum sulla fecondazione assistita. Con questo atto, sia pur allora formulato a titolo personale, si è consumata la trasformazione della Margherita in partito cattolico. Con questa scelta è entrato definitivamente in crisi il progetto originario dell’Ulivo, che presupponeva il superamento della questione cattolica. La ripresa dell’Ulivo avviene, quindi, su nuove basi completamente diverse. Diventa un accordo politico tra un partito cattolico, com’è la Margherita, e un partito postcomunista, come sono i Ds: è un compromesso storico bonsai. Non è, quindi, una novità ma la somma di quel che resta di due antiche tradizioni della storia della nostra Repubblica non fa una novità, è un regresso nel passato. E’ questo il principale motivo per cui lo Sdi, pur invitato a parteciparvi, non aderisce alla nuova formazione. Il Partito democratico avrebbe potuto essere un’esperienza originale, legata alla spinta in atto nella socialdemocrazia europea per andare oltre i suoi confini tradizionali. Lo Sdi non ha mai posto come pregiudiziale l’adesione del nuovo partito democratico al Pse, nella convinzione che non ci sarebbe potuto essere altro riferimento se non la socialdemocrazia, la più importante forza politica riformista in Europa.
La Costituente socialista
Oggi il partito democratico, con al suo interno una componente di cattolici che fanno politica in quanto cattolici e sono sensibili, se non proclivi, agli orientamenti della gerarchie ecclesiastiche, non si pone in una posizione più avanzata, ma molto più arretrata rispetto alla socialdemocrazia europea. Anche per questo motivo è tornata sulla scena politica italiana la questione socialista. È un richiamo che è venuto da alcuni di coloro che sono rimasti delusi dal modo in cui si sta costruendo il Partito democratico, come Angius e Zani, e da coloro che da diverse posizioni, come Emanuele Macaluso, rigoroso riformista, e come Fabio Mussi, non credono all’idea dell’Ulivo. Come Sdi non solo non possiamo mantenere un atteggiamento di indifferenza rispetto a questa riproposizione della questione socialista, ma dobbiamo impegnarci attivamente in un confronto nel quale, non solo per il fatto di essere eredi della storia del movimento socialista ma anche per la nostra appartenenza all’Internazionale socialista e al Pse, siamo un interlocutore fondamentale, caricato oggi da nuove responsabilità. Da parte nostra non c’è alcuna volontà di fomentare scissioni nella sinistra italiana. Casomai siamo stati ripetutamente oggetto di iniziative di questo tipo, messe in atto allo scopo di dividere il movimento socialista. Il confronto che vogliamo promuovere non parte solo dall’esigenza di colmare un vuoto che si aprirebbe se i Ds confluissero con la Margherita in un partito che non aderisse al Pse, ma anche dalla necessità di svolgere un ruolo indispensabile di critica e di stimolo per un rinnovamento effettivo della sinistra italiana. Con la corrente di Fabio Mussi vi sono divergenze politiche che non nascondiamo. Vi sono, però, convergenze significative nella difesa dei principi di laicità, nell’ampliamento dei diritti civili, a cominciare dal riconoscimento delle unioni di fatto, e soprattutto dal comune riferimento alla socialdemocrazia europea. Del resto appare paradossale che proprio chi ci critica per l’apertura di questo nostro confronto considera essenziale però che la corrente di Mussi faccia parte del nuovo Partito democratico. Questo percorso non significa per lo Sdi l’arroccamento in un recinto dove coltivare la “fede socialdemocratica”. La socialdemocrazia europea non si identifica, infatti, con un apparato dottrinale. Noi abbiamo sempre condiviso l’idea di costruire una grande forza riformista. Quindi, a partire da un forte riferimento socialista che innanzitutto faccia ritrovare l’unità dello Sdi con il Nuovo Psi di Gianni De Michelis e con i socialisti di Bobo Craxi, bisogna aprire un processo aperto a tutte quelle componenti progressiste, dai liberali riformatori agli ambientalisti riformisti, che non si ritrovano nel Partito democratico così come Fassino e Rutelli lo stanno costruendo. La stessa esperienza della Rosa nel Pugno, che vive ancora come alleanza elettorale e come azione comune nel Parlamento e nel governo, è importante sia per le iniziative portate avanti con coerenza dai socialisti sia per le battaglie condotte con coraggio dai radicali. Il confronto critico con il Partito democratico non verterà su dispute ideologiche tra chi è più ortodosso e chi lo è meno rispetto al Pse. Si svolgerà, invece, sulla natura e sui programmi del nuovo Partito democratico e sul grado di compromesso a cui saranno soggetti i principi fondamentali della socialdemocrazia europea.
La socialdemocrazia europea è all’avanguardia
La via che conduce ad una costituente socialista passa per il terreno riformista. La socialdemocrazia, infatti, ha un profilo assai avanzato ed innovativo, esprime piattaforme riformiste di notevole valore e si pone in una posizione di apertura verso le sfide della globalizzazione. Riscoprire la questione socialista quindi, significa assumere come base un riformismo assai simile a quello degli altri partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti dell’Europa occidentale. La socialdemocrazia è la principale forza riformista in Europa, perché è riuscita continuamente ad aggiornare la propria visione della società e la propria piattaforma programmatica alle trasformazioni che hanno attraversato più di un secolo di storia. Il modello dello Stato sociale, che è stato uno dei più grandi fattori di civilizzazione del ventesimo secolo, costituisce ancora oggi un riferimento fondamentale che caratterizza il modello sociale europeo rispetto a quello nordamericano. I socialdemocratici si basano su una visione dello sviluppo sostenibile che assicuri la piena occupazione, eviti che si creino emarginazione ed esclusione sociale, soddisfi i bisogni della generazione attuale senza compromettere le condizioni di vita di quelle future. Questa è l’idea che i socialdemocratici pongono alla base di una “Nuova Europa sociale”, che è la meta indicata dal Congresso del Pse di Oporto. Le trasformazioni in atto creano un grande potenziale per il miglioramento delle nostre società. Nello stesso tempo si avvertono i rischi e le incertezze che le trasformazioni possono indurre in tutti i campi. Questa visione delle cose porta a considerare la necessità di un cambiamento dello Stato sociale per adeguarlo a nuove necessità e a nuovi bisogni. La socialdemocrazia europea non è più legata a una scelta di classe, ha da tempo accettato l’economia di mercato e i principi della democrazia liberale. Conferma i principi di giustizia sociale e di solidarietà, ma nello stesso tempo vuole valorizzare la responsabilità individuale. Non pensa più a costruire un grande Stato che regoli l’economia e la finanza secondo un disegno politico calato dall’alto. Il mercato non viene visto come un puro strumento di allocazione delle risorse. Il mercato è istituzioni, tradizioni, cultura, autorità indipendenti di controllo, regole. Questo approccio della socialdemocrazia europea, che è maturato già alla fine dello scorso secolo, pone al centro della sua impostazione la necessità di contrastare nuove forme di esclusione dal lavoro, e di assicurare pari opportunità per tutti, come recita lo slogan europeo per il 2007. Considera fondamentale il ruolo delle donne, l’educazione dei bambini, l’integrazione dei disabili, l’uguale dignità tra coloro che hanno identità di genere o orientamenti sessuali diversi, il rispetto dei diritti fondamentali per tutti. La socialdemocrazia è a favore della competizione tra le imprese e contro la formazione di monopoli e di oligopoli, per la cooperazione tra gli Stati e la solidarietà tra i cittadini. La tutela dell’ambiente è stata sempre un cardine dell’azione dei partiti socialdemocratici, fin da quando l’ex premier norvegese Brundtland promosse la conferenza mondiale di Rio e sostenne la necessità di uno sviluppo sostenibile. La socialdemocrazia considera un dovere dello Stato assicurare un sistema di istruzione che sia inclusivo ed eccellente. La socialdemocrazia europea non è quindi una vecchia forza appesa al passato, ma uno dei principali protagonisti dell’innovazione politica in Europa.Scuola e ricerca sono la priorità
In Italia, riscoprire la questione socialista significa contrastare da posizioni innovatrici il conservatorismo che ancora è forte nell’estrema sinistra. Nel nostro Paese non si riesce a portare avanti una trasformazione dello Stato sociale, le cui risorse sono assorbite principalmente da pensioni e sanità. Occorre, invece, prendere atto dei cambiamenti che sono intervenuti, a cominciare dall’esigenza di assicurare flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro. Finora nel nostro Paese si è incrementata la flessibilità, ma senza introdurre un nuovo sistema di ammortizzatori sociali, come indicava Marco Biagi nel suo “Libro Bianco”, e come, ad esempio, accade in Danimarca, dove esiste un ancora più elevato livello di flessibilità, ma non altrettanto disagio sociale. Occorre ribadire ai conservatori di destra e di sinistra che la flessibilità dell’impiego può e deve essere separata dalla precarietà del reddito, grazie all'intervento dello Stato, attraverso efficaci ammortizzatori sociali. Va sviluppata quindi una politica che si proponga la sicurezza e il pieno impiego nel mondo del lavoro secondo criteri che ormai sono accolti da tutta la socialdemocrazia europea, con un passaggio il più possibile rapido dalla perdita di un lavoro ad uno nuovo, minimizzando i rischi di perdita del reddito, massimizzando la formazione di nuove competenze professionali e puntando ad attivare la responsabilità individuale. L’obiettivo della flessibilità è garantire il rapido e possibilmente indolore trasferimento di risorse e persone da attività in crisi a settori e imprese in crescita, al fine di assecondare e favorire il progresso tecnologico, vera fonte di ricchezza per tutta la società. È dunque necessario operare una redistribuzione delle risorse oggi destinate allo Stato sociale, a cominciare dalla previdenza. È importante ricordare che non si tratta di un diktat arbitrario dell'Unione Europea. Di fatto, l’Italia ha una spesa sociale complessiva comparabile a quella dei maggiori paesi europei, mentre è diverso il peso delle varie componenti, con un pesante ritardo per gli ammortizzatori sociali, dei quali la Cassa Integrazione rappresenta il principale se non l’unico elemento, neanche accessibile a tutti i lavoratori. La spesa per le pensioni, già superiore alla media europea, è destinata a crescere ulteriormente, a danno dei giovani che lavorando dovranno pagarle a genitori e nonni che già lasciano in eredità un enorme debito pubblico. Noi ci proponiamo di indicare alcuni punti essenziali: - innalzare l’età pensionabile a sessant’anni ad esclusione dei lavoratori manuali, e puntare ad una soglia ancora più elevata, attraverso una scelta volontaria dei lavoratori, in un processo basato su incentivi e disincentivi; - equiparare l’accesso alla pensione tra uomini e donne; - aumentare le pensioni minime, che sono spesso al di sotto dei livelli di sussistenza. Ammortizzatori sociali moderni non significa solo contributi monetari, ma anche fornitura di servizi efficaci e di qualità. Il vero sostegno alla famiglia consisterebbe nel garantire la conciliazione della vita familiare e lavorativa delle donne, sostenendo gli anziani non autosufficienti e costruendo più asili nido, non nel regalare pochi spiccioli in assegni familiari, che certo non contribuiranno a facilitare il lavoro delle donne, né le incentiveranno ad avere più figli. Consideriamo fondamentale l’impegno per la ricerca, la formazione e l’innovazione, secondo la tanto osannata e poco applicata agenda di Lisbona. Occorre mettere mano ad una grande riforma del sistema di istruzione scolastico ed universitario secondo alcune direttrici fondamentali: - un ciclo decennale di studi, dai cinque ai quindici anni, unitario e uguale per tutti; - un ciclo triennale di licei differenziato secondo grandi comparti, dal classico allo scientifico, dall’artistico al tecnico; - corsi di formazione gestiti dalle Regioni, di durata triennale che, previo un esame di ammissione, possano comunque consentire l’accesso all’università; - difesa della centralità della scuola pubblica statale e libertà per le scuole private, paritarie e non, ma senza oneri per lo Stato; - sostituire l’attuale insegnamento della religione con un corso di storia delle religioni che non abbia un approccio dottrinale ma un’impostazione aperta. - un sistema universitario misto tra pubblico e privato, che crei concorrenza tra diversi atenei; - progressivo trasferimento di parte del costo dell’istruzione universitaria dalla fiscalità generale a coloro che ne usufruiscono, attraverso mutui trentennali ad interessi zero; - mantenimento del valore legale del titolo di studio per l’istruzione primaria e secondaria e abolizione di quello per l’istruzione universitaria; - abolizione degli ordini professionali con una liberalizzazione che si fondi sul mercato e in alcuni casi, come per i medici, su un’abilitazione fatta con esami di Stato gestiti dallo Stato. - una forte crescita della formazione continua degli adulti e il ricorso estensivo all'aggiornamento professionale dei lavoratori come strategia competitiva per le aziende e di formazione del cittadino per la società. Il sistema sanitario deve essere notevolmente migliorato. Vanno drasticamente ridotte le liste di attesa, migliorata l’assistenza soprattutto nei confronti degli anziani e, tra questi, in particolare di quelli non autosufficienti, incrementata la ricerca nel campo della salute e migliorata la prevenzione. La sanità deve restare pubblica, introducendo fattori di concorrenza tra le diverse strutture. La politica per gli alloggi, soprattutto per le nuove famiglie, dopo essere del tutto sparita, deve tornare ad essere un punto fondamentale delle iniziative di governo nel nostro Paese:
- vanno promossi programmi di costruzione di alloggi con fitti accessibili e con la possibilità, attraverso mutui, di acquisirne la proprietà;
- va dato un sostegno ai redditi più bassi, soprattutto nelle grandi città, per gli affitti delle case;
- va progressivamente abolita l’Ici sulla prima casa;
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va abolita la politica ricorrente del blocco degli sfratti, in quanto iniqua e controproducente, generando fenomeni diffusi di elusione e un livello significativamente più elevato dei fitti.
Responsabilità individuale e solidarietà sociale
Un programma che voglia conciliare responsabilità individuale e solidarietà sociale deve poter contare su una rigorosa politica economica e di bilancio. Le necessarie misure di risanamento dei conti pubblici devono essere accompagnate da una stretta alle incentivazioni, ai crediti d’imposta ed alle elargizioni a categorie ed imprese. Bisogna portare avanti la concertazione, ma al di fuori di una politica che sia ossessionata dalla ricerca di un patto neocorporativo. È anche in questo modo che si possono reperire risorse. La politica fiscale è sempre più diventata un tema sul quale si determinano gli orientamenti di elettrici ed elettori. Non si tratta di fare scelte di tipo ideologico. Un elevato livello di pressione fiscale sulle famiglie, e un livello più basso sulle imprese, come si è visto nei paesi scandinavi, è assolutamente compatibile con la crescita. Questo non significa che ci si proponga in Italia di trasferire il modello scandinavo, dove un’elevata fiscalità ha una buona accoglienza sociale, data l’efficienza dei servizi pubblici. In Italia, come è noto, la pressione fiscale è considerata elevata e ingiusta soprattutto perché vi è spesso una cattiva qualità di molti servizi pubblici e una elevata area di evasione, ma anche perché la destra ha fatto una campagna propagandistica di tipo demagogico, volta a sollecitare le forme più miopi di egoismo individuale. È fondamentale migliorare l’efficienza della Pubblica Amministrazione attraverso la valorizzazione delle capacità e un severo contrasto delle zone di inefficienza. L'abolizione di antichi privilegi e la diffusione delle nuove tecnologie sono un'occasione irrinunciabile di modernizzazione del Settore Pubblico, che può e deve diventare uno dei motori di crescita, dell'economia e della democrazia. È un compito primario riuscire ad individuare strumenti che possano fronteggiare il fenomeno dell’evasione, che per la sua entità non ha equivalenti in altri paesi sviluppati. A tal fine è necessario procedere con controlli che facciano chiarezza e trasparenza sulle fonti di reddito: non tanto sulla base di riferimenti standard – come si è fatto con gli studi di settore – ma attraverso accertamenti campionari che riguardino tutti i movimenti di denaro dei contribuenti. A situazioni di emergenza bisogna rispondere con misure di emergenza. I contribuenti onesti non hanno nulla da temere da controlli rigorosi. È necessario non solo procedere ad una ulteriore semplificazione degli adempimenti burocratici, ma sviluppare una politica fiscale che pesi molto di meno sulle imprese, che sono i principali centri di creazione della ricchezza sociale. I processi di privatizzazione devono essere portati avanti in una stretta connessione con quelli di liberalizzazione, per evitare che i monopoli pubblici si trasformino in ancor peggiori monopoli privati. La gestione delle reti deve essere nettamente separata dall’erogazione dei servizi e può essere sia pubblica sia a capitale misto. È soprattutto nel campo delle public utilities, a cominciare dall’energia e dalle comunicazioni, che è necessaria una separazione netta e senza possibili collusioni e conflitti di interessi. Da queste scelte dipende la stessa possibilità di attivare politiche che favoriscano l’innovazione senza tradursi in pure e semplici regalie. L’Italia ha bisogno di una moderna politica dei trasporti. È necessario contrastare tutte quelle spinte - che in nome di una difesa dell’ambiente fondata su scelte integralistiche e potenzialmente controproducenti - si oppongono alla Tav, e ci farebbero restare esclusi dai grandi corridoi europei del trasporto su rotaia e favorendo indirettamente l’inquinante trasporto su gomma. La tutela del patrimonio naturale va salvaguardata e va attentamente valutato l’impatto ambientale, ma l’ecologia non deve essere un pretesto per scelte di carattere ideologico contro l’innovazione e lo sviluppo. Il Sud è un tema che ormai appartiene alla retorica nazionale. Se ne parla molto e si fa poco. Per il Mezzogiorno servono soprattutto infrastrutture e sicurezza più che incentivi. Occorrono grandi investimenti nel campo della ricerca e dell’istruzione. La sicurezza nel Sud è un tema cruciale. Senza sicurezza non si potrà mai creare un ambiente favorevole allo sviluppo economico.
Più sicurezza e più giustizia
Il contrasto delle organizzazioni mafiose e del risorgente terrorismo va accompagnato da una severa politica contro la microcriminalità. Da tempo la socialdemocrazia europea considera fondamentali le politiche per la sicurezza dei cittadini. Sono soprattutto i ceti più deboli, in particolare gli anziani, ad essere colpiti dalla piccola criminalità. Non si tratta di aumentare le pene, ma di perseguire efficacemente anche i piccoli reati di violenza alle persone, come gli scippi, e di individuare per i baby criminali percorsi di pena alternativi al carcere. La giustizia è la grande malata del nostro Paese. Non funziona, non riesce a smaltire in tempi ragionevoli i processi e non dà le garanzie che sarebbero necessarie, soprattutto a coloro che hanno bassi redditi. I socialisti da tempo indicano alcuni punti essenziali per la riforma della giustizia:
- separazione delle carriere tra giudice terzo e pubblica accusa;
- introduzione della figura di un manager che gestisca gli aspetti logistici della macchina giudiziaria;
- riduzione al minimo degli incarichi extra giudiziari;
- ampliamento dell’utilizzo dei giudici di pace, soprattutto per i piccoli processi riguardanti la giustizia civile.
Sempre in tema di libertà, in Italia esiste una concentrazione mediatica, economica, finanziaria e politica impersonata da Berlusconi. Poiché il mondo delle comunicazioni è decisivo nella nostra epoca, si tratta di un fenomeno che contrasta con i principi della democrazia liberale. Il conflitto di interessi va affrontato e risolto, pur senza utilizzare armi improprie contro Berlusconi. In Italia occorre superare il duopolio Rai-Mediaset e introdurre e garantire un effettivo pluralismo.
La nuova frontiera socialista
Sono questi i punti politici e programmatici salienti sui quali lo Sdi si impegna. L’Italia si trova in una transizione che appare infinita. Talvolta si ha l’impressione che, invece di andare avanti, si abbia una grande voglia di tornare indietro e persino di archiviare il bipolarismo, l’unico vero frutto positivo del collasso del vecchio sistema politico. Il dibattito sulla transizione si è concentrato sulla modifica della legge elettorale. Non si può sottovalutare questo aspetto. L’attuale legge, infatti, non favorisce il bipolarismo. È stata scritta e approvata in fretta e male da un centro destra che si proponeva unicamente di limitare i danni di una sconfitta elettorale annunciata. Del resto siamo tuttora gravemente danneggiati, perché non ci viene riconosciuta la nostra legittima presenza al Senato che scaturisce da una rigorosa applicazione della legge. Lo Sdi è favorevole ad una legge proporzionale che salvaguardi il bipolarismo con una chiara scelta del premier e delle coalizioni e con l’adozione di un forte premio di maggioranza. La transizione deve essere assicurata innanzitutto dalla politica. È necessaria una ristrutturazione e una ricomposizione in forme nuove delle forze politiche. Ed è più che necessaria l’affermazione della laicità nella politica italiana. Laicità, libertà e democrazia liberale sono un trinomio inscindibile. Finché nella politica italiana sarà forte il condizionamento delle gerarchie ecclesiatiche, il panorama dei partiti non si avvicinerà ma si allontanerà sempre di più da quello europeo. È già avvenuto nel nostro Risorgimento, quando il potere temporale dei Papi costituì un grave ostacolo al raggiungimento dell’Unità d’Italia. Avviene oggi con un’influenza delle gerarchie ecclesiastiche, che allontana l’Italia dall’Europa democratica e moderna. Anche per questo dare vita a una nuova forza di ispirazione socialista, chiaramente collegata all’Internazionale e al Pse e aperta all’apporto e al contributo dei riformatori liberali e dei riformisti ambientalisti, è essenziale per la modernizzazione del nostro Paese.

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