luglio 2004 - LA QUESTIONE MERIDIONALE E' ANCORA APERTA di Antonio Landolfi da Mondoperaio, luglio ottobre 2004

18 settembre 2004

A vent'anni dalla fine della Cassa del Mezzogiorno si può ben dire che la fine dell'assistenzialismo aveva offerto un'occasione decisiva per un incisivo mutamento: un'occasione che nel suo complesso è stata mancata. Occorre un cambiamento d'indirizzo da parte delle forze politiche, delle istituzioni, delle rappresentanze sociali. Montezemolo ha lanciato un allarme che va condiviso: "Un imbarazzante silenzio caratterizza il dibattito sulla questione meridionale. Eppure - ha sottolineato - il problema Sud resta ancora drammaticamente aperto". Con buona pace di tanti revisionismi, la "questione meridionale" esiste ancora

L'intervento straordinario cessava con la scomparsa della Cassa del Mezzogiorno; con il Governo Craxi, a metà degli anni Ottanta. Esso aveva avuto dei meriti indiscutibili, ma non aveva risolto la questione meridionale. S'imponeva una svolta, che derivava dalla consapevolezza della insufficienza di una strategia che ormai aveva fatto il suo tempo. E i socialisti, dopo il Midas, ne avvertirono con forza l'esigenza. Posero il problema di un nuovo corso politico nel Mezzogiorno, alla conferenza programmatica di Rimini (31 marzo - 4 aprile 1982) partendo da un'analisi spietata della situazione che si era andata creando, e proponendo nuove modalità e nuovi obiettivi. Era stato Giacomo Mancini, ministro del Mezzogiorno nel 1974, a proporne la conclusione. Rino Formica, all'epoca ministro delle finanze, parlando alla conferenza, condusse un'analisi molto lucida. Affrontando il problema degli investimenti pubblici "da sempre regolati da interessi e depressioni", citava gli esempi "effettuati in modo sorprendente nella regione pugliese, dove, nella stessa zona, ben tre autostrade corrono in modo parallelo a poche centinaia di metri di distanza" con la conseguenza che il problema dell'acqua in Puglia resta irrisolto "a circa un secolo dalla battaglia iniziata dai socialisti".
Nel programma di Rimini - che ormai da molte parti politiche viene riconosciuto come uno dei documenti più innovativi della storia politica di fine Novecento - partiva quell'acquisizione di consapevolezza riformista anche dei nuovi termini in cui doveva essere posta la questione del Mezzogiorno.

Il Psi si mosse su binari nuovi. Fu chiusa l'esperienza della Cassa, divenuta peraltro anacronistica con l'entrata a pieno regime del sistema delle regioni.
Oltre a beneficiare dei miglioramenti complessivi dell'economia italiana, dovuta all'azione riformistica di governo, e in particolar modo alla crescita dei livelli di occupazione l'obiettivo che venne perseguito fu quello di inserire il Mezzogiorno nel pieno di un'economia di mercato tale da assicurarne, con un'intelligente opera di sostegno normativo, il nascere e il crescere di energie autonome di sviluppo, con la diffusione dei nuovi centri di cultura, a cominciare dalle nuove università.

Oltre a beneficiare dei miglioramenti complessivi dell'economia italiana, dovuti all'azione riformistica di governo, e in particolar modo alla crescita dei livelli di occupazione, l'obiettivo che venne perseguito fu quello di inserire il Mezzogiorno nel pieno di un'economia di mercato tale da assicurare, con accurata e intelligente opera di sostegno normativo alla formazione Umana e professionale, alla iniziativa imprenditoriale soprattutto a livello giovanile, alle azioni propulsive a livello territoriale. Notevoli azioni vennero a stimolare la trasformazione delle strutture agricole meridionali e la formazione di un'imprenditorialità contadina in grado di realizzare investimenti produttivi redditizi e di qualità, con l'impiego delle notevoli risorse esistenti. Si sollecitò lo sviluppo ed il mutamento qualitativo del turismo, insieme con un'opera di salvaguardia dell'ambiente e di conservazione e di restauro dell'immenso patrimonio di beni culturali, un tempo trascurato o colpevolmente abbandonato. (Va ricordata l'azione per i giacimenti culturali e l'archeologia industriale dei ministri socialisti).
Si doveva avviare in tal modo il passaggio da un'economia assistenziale ad una economia propulsiva di mercato regolato e sostenuto nei suoi punti più deboli, basata sull'impiego delle risorse proprie del Mezzogiorno e sulla promozione del fattore umano. Avvalendosi, a tale scopo, anche degli interventi strutturali e delle risorse provenienti dalla Comunità europea.

Né le forze imprenditoriali né quelle sindacali hanno proposto ed attuato un'azione coerente con le esigenze di rinnovamento della politica meridionalistica

La svolta non era semplice né facile. Scomparso il Psi, dissoltesi le altre forze politiche di quella che viene definita prima Repubblica, le premesse poste dalla conclusione dell'esperienza sostanzialmente assistenzialistica non hanno tuttavia trovato nell'azione dei governi degli ultimi dodici anni sia di quello nazionale, sia di quelli regionali - un indirizzo rivolto a creare le condizioni per il passaggio alla nuova fase.
Né le forze imprenditoriali né quelle sindacali hanno proposto ed attuato un'azione coerente con le esigenze di rinnovamento della politica meridionalistica. E questo tanto nella fase in cui permaneva la prassi della concertazione (quando la guida politica del Paese era affidata alle forze del centrosinistra) quanto nella fase in cui, saltata la concertazione (negli anni in cui la guida dell'Italia è passata nelle mani del centrodestra) si è invece acuita la conflittualità sociale.
Deludente soprattutto è stata la politica della confindustria con la presidenza di D'Amato, che era giunto alla testa dell'organizzazione degli imprenditori sulla spinta dei suoi colleghi meridionali e delle aziende di più recente costituzione e che invece ha completamente fallito il suo compito. Era inevitabile, di conseguenza, che egli pagasse il prezzo di questo fallimento proprio con il contributo dato dai suoi iniziali sostenitori alla recente svolta della organizzazione confindustriale con l'avvento di Montezemolo, il quale nel discorso inaugurale di presidente ha voluto sottolineare l'esigenza di un rinnovamento. Se son rose, fioriranno.
La Cassa cessò quindi di vivere nell'estate del 1984. il Governo in carica, quello di Craxi, ne aveva chiesto la proroga: ma fu battuto in Parlamento, e non ritenne opportuno insistere nella richiesta. Così, dopo 34 anni (era stata istituita con la legge 646 del 10 agosto1950 e rifinanziata nel 1965) entrò in agonia e nello spazio di poco tempo venne liquidata, e di conseguenza vennero meno i cospicui finanziamenti che avevano alimentato le innumerevoli iniziative di intervento straordinario, che, tra l'altro, avevano ad ogni passo provocato sempre un vespaio di polemiche. Comunque nel 1986 l'intervento straordinario venne ripreso fissando una scadenza al 1989, e la sua gestione venne affidata all'agenzia per lo sviluppo e la promozione del Mezzogiorno. Questa legge (la 64 del 1986) ha cessato di essere operante per mancanza di finanziamenti prima della sua scadenza, e con la successiva 488 del 1992 è definitivamente stato concluso il ciclo degli interventi a carattere straordinario.
Contestualmente a tale fase terminale dell'intervento straordinario s'è aperta una vasta discussione ed un diffuso lavoro di ricerca, rivolto a "revisionare" tutta la filosofia politica ed economica che aveva presieduto, fin da prima del fascismo, alla logica dell'intervento straordinario: vale a dire del complesso pensiero, che da Nitti a Gramsci aveva proposto la "questione meridionale" come questione nazionale e come eredità negativa del "Risorgimento incompiuto" fino all'enfatica proposizione di Enrico Berlinguer, che negli anni Settanta del secolo scorso era giunto a proporre la soluzione del problema meridionale come "banco di prova della democrazia".

Un processo di destrutturazione del meridionalismo tradizionale, che ha trovato il suo acme in un'opera della storica Marta Petrusewicz (una professoressa di origine polacca dell'università di Cosenza) che ha inteso porre in discussione le stesse radici storiche della questione del Mezzogiorno (Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione, Rubbettino).
Il nucleo essenziale della riflessione della Petrusewicz sta, a parer nostro, nella sua argomentata contestazione ad una visione del Mezzogiorno come ricettore passivo della rappresentazione che di esso proviene dalla cultura esterna all'ambito meridionale, in particolare dal Nord dell'Italia. Una pretesa di rappresentazione unilaterale ed esterna alla realtà del Mezzogiorno che dura dalla metà dell'Ottocento -in particolare dall'epocale Quarantotto - fino ai giorni nostri. Una pretesa che ha finito per vivificare ed inasprire quel "dualismo culturale ed economico" che pur si pretendeva di eliminare. Fino alla fase che s'è andata avviando e sviluppando negli ultimi due decenni del secolo scorso, con l'insorgenza di una "questione settentrionale" accanto ed alternativa a quella meridionale. Un processo che rischia di concludersi con l'imposizione di una destrutturazione della stessa unità nazionale del Paese in virtù di un esasperato federalismo devolutivo.

Se il "modello assistenziale" è stato a ragione aspramente criticato per le sue "cattedrali nel deserto" e per gli sprechi delle risorse, ciò che è seguito ad esso non ha fatto scomparire i vizi assistenzialistici ma ha eliminato ogni progettualità e ogni strategia organica

Si tratta quindi di una questione politica e di prospettiva. Tanto più che la fine dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, invece di condurre ad una omologazione della società nazionale, e in primo luogo della sua vita economica, ha finito per accentuare questo dualismo.
E un'acuta ed avvincente analisi di come il Sud vive e soffre questa fase apertasi nel trentennio successivo alla decretazione della conclusione dell'intervento straordinario la si ritrova nella testimonianza raccolta in un'opera di Sandro Petriccione, che offre uno scenario autentico della rappresentazione della questione meridionale come si pone in termini attuali, secondo un'ottica interna al Sud, e non estranea ad esso.
La testimonianza di Petriccione è preziosa, in quanto proviene da un'esperienza di studioso e di manager pubblico che ha personalmente percorso pressoché tutti gli stadi della questione meridionale dagli anni Sessanta ad oggi, non soltanto come economista di notevole livello e come tecnico (è professore di economia dei trasporti all'istituto navale di Napoli, e ha al suo attivo un'infinità di libri e di saggi teorici e di economia applicata) ma ha ricoperto e ancora ricopre incarichi di grande responsabilità operativa ai vertici dell'Iri, della Cassa del Mezzogiorno, alla presidenza della finanziaria meridionale, ed è attualmente presidente dell'autorità portuale di Taranto.
Il suo recente La marcia nel deserto. Il Sud a 138 anni dell'Unità d'italia (Tullio Pironti editore) rappresenta un codice prezioso di interpretazione per la realtà meridionale, di ieri e di oggi. Dalle pagine del libro balzano in tutta evidenza le figure di tutti i grandi meridionalisti italiani: da Nitti a Salvemini, da Morandi a La Malfa, da Rossi Doria a Saraceno, insieme a personaggi di rilievo nella vita economica nostrana, come Menichella e Mattei, Ruffolo ed Einaudi. E non manca un accenno a Marx, che non poteva non essere ricordato da un autore, come Petriccione, che ha dedicato un'opera pregevolissima negli anni giovanili, alla Teoria economica del socialismo: uno dei rarissimi studi originali di critica evolutiva al pensiero economico di Marx e di altri economisti socialisti, come Enrico Barone.
Quel che vorremmo sottolineare, per restare nel tema suggeritoci da 'anniversario della cessazione della Cassa del Mezzogiorno, è tutta l'ampia parte dedicata all'intervento straordinario e alle fasi ad esso successive, di cui pochissimi - ed è più che singolare - si sono occupati.
Tra questi, oltre Petriccione, va citato Luigi De Rosa, uno storico dell'economia, professore di Napoli, anche egli meridionalista di scuola socialista.
In una sua recente pubblicazione (La provincia subordinata, Laterza) De Rosa svolge un'attenta analisi delle varie fasi dell'azione meridionalistica e dei suoi esiti nel susseguirsi dei suoi "modelli": da quello iniziale, il modello 1830-1865", al "modello assistenziale" (quello appunto della Cassa) per addivenire a quel "non modello" dell'ultimo decennio, come ci sembra di poter definire la fase attualmente in corso.

Dalle "cattedrali nel deserto" si è passati al "deserto senza cattedrali", affidandosi soltanto alla diffusione sempre più vasta del sommerso, attivata anche dagli effetti della crescente immigrazione

Perché se il "modello assistenziale" è stato con ragione aspramente criticato per le sue "cattedrali nel deserto", per gli "interventi a pioggia", per gli sprechi delle risorse, per le ricadute clientelari che tante giuste polemiche hanno stimolato, ciò che è seguito ad esso non ha fatto scomparire i vizi assistenzialistici ma ha eliminato ogni progettualità, ogni strategia organica, ogni preoccupazione non dirigistica ma di indirizzo e di finalizzazione interventistica anche fuori da ogni orientamento dirigistico certamente da rifiutare.
De Rosa analizza i maldestri e sconclusionati tentativi che si sono susseguiti dopo la fine della Cassa, fra i quali spicca la vicenda dell'agenzia e quella del dipartimento per il Mezzogiorno, che avrebbe dovuto sostituire il Ministero per il Mezzogiorno, eliminato piuttosto affannosamente. La liquidazione degli strumenti di una politica meridionalistica è in tal modo apparsa tanto frettolosa quanto dilettantesca, finendo con l'aprire un vuoto che non si è ancora colmato. Un'autentica irresponsabile ed imprudente dismissione della politica meridionalistica in quanto coincidente con la fase apertasi con l'attuazione del Trattato di Maastricht.

Scrive De Rosa: "Per adeguarsi ai parametri finanziari e monetari fissati da Maastricht, l'Italia ha perciò dovuto sottoporsi ad uno sforzo e ad una tensione che hanno richiesto complesse manovre di politica economica, finanziaria e fiscale che non hanno favorito il Mezzogiorno. In sostanza, l'avvio della politica di risanamento dei conti pubblici è stato realizzato in gran parte a spese del Sud e delle Isole, dove non è stata impostata e portata a compimento nessuna importante opera pubblica, e tutti sanno quanto ve ne sia bisogno. Il processo di adesione all'euro [...] si è tradotto nella più acuta deflazione che si sia mai verificata nel Sud d'Italia a partire dal dopoguerra, e al tempo stesso in una consistente inflazione che ha falcidiato il potere di acquisto dei detentori di reddito monetario". Su tale fenomeno ha gravato anche la riduzione dei tassi d'interesse sui titoli pubblici, che ha sottratto forti dosi di liquidità, deprimendo consumi e investimenti.
In sostanza l'analisi di De Rosa pone in rilievo come la fine dell'era assistenzialistica della Cassa è stata il preludio non di una nuova strategia meridionalistica fondata sulla logica e le regole di un'economia espansiva di mercato, ma al contrario sia coincisa con l'ingresso in un tunnel di difficoltà e di crisi, di cui ancora non si vede la fine, senza più neppure poter fruire di questi presidi assistenzialistici di cui aveva beneficiato nel passato. E che, pure criticabili, non avevano tuttavia mancato di produrre nei decenni precedenti alcuni effetti non trascurabili: si veda, per tutti, il caso dell'impianto portuale di Gioia Tauro, per anni oggetto di campagne ostili e assurto ingiustamente a simbolo dello spreco clientelistico, e poi diventato uno dei maggiori porti del Mediterraneo. Dalle "cattedrali nel deserto" si è passati al "deserto senza cattedrali", affidandosi soltanto, in via generale, alla diffusione sempre più vasta del sommerso, peraltro attivata anche dagli effetti della crescente immigrazione, perfino di quella clandestina.

Quella che è mancata è una politica adeguata alla nuova realtà, a cominciare dalla innovazione tecnologica, che ha visto il Mezzogiorno tagliato fuori dagli investimenti proprio nei settori di punta dell'hi-tech

L'analisi di Petriccione, in questo scenario, è esemplare. In La marcia nel deserto egli segnala la drammaticità del passaggio dai guasti dell'assistenzialismo e clientelismo diffuso dell'intervento straordinario alla sua abolizione non accompagnata dalla previsione dei suoi contraccolpi in coincidenza con l'innesto del Paese nella fase del risanamento reso imprescindibile dal Trattato di Maastricht, e senza l'avvio di un'unica alternativa possibile: quella della formazione di un'economia di mercato indirizzata ed assecondata da una politica ad essa adeguata delle istituzioni pubbliche oltre che da una classe politica ed imprenditoriale che ancora manca nel Mezzogiorno, e non soltanto nel Mezzogiorno.
Già agli inizi degli anni Novanta Petriccione non mancò di far sentire la propria voce chiedendo con forza qual cambiamento di strategia meridionalista che purtroppo non c'è mai stato. In un'intervista a Guido Rialta, apparsa sul "Sole 24 Ore" del luglio 1992 dal titolo significativo Liquidare l'agensud e portare il Mezzogiorno al mercato, così si esprimeva: "L'intervento straordinario è ormai giunto alla scadenza [...] ed è un bene che sia così" (si trattava della scadenza della legislazione che indicava il 1993 come data definitiva della liquidazione di tutte le forme e gli strumenti che la Cassa aveva creato).

Quanto alla strategia di lungo periodo, cioè alla politica che avrebbe dovuto sostituirsi all'intervento straordinario ed all'assistenzialismo, Petriccione la delineava in questi termini: "Lo Stato deve ritirarsi dalla gestione dell'economia, ma questo non significa che debba essere assente. Gli interventi da abolire sono quelli discrezionali di oggi che però andrebbero sostituiti da quelli fiscali. L'agevolazione fiscale presenta una serie di vantaggi: intanto è automatica e riduce i rischi di intermediazione politica, e scatta solo se l'impresa è valida e dà utili. E sto parlando solo dell'agevolazione diretta alle imprese, quella da collegare ai profitti, agli investimenti tecnologici eccetera. Poi ci sono gli incentivi indiretti, quelli per esempio finalizzati a incanalare il risparmio privato verso gli investimenti nelle aree meridionali". Ciò che Petriccione delineava, per contenere gli effetti della "gelata" che a suo giudizio sarebbe conseguita nel Sud alla cessazione dell'intervento straordinario, e alla erogazione di un fiume di quattrini pubblici nel meridione, era l'alternativa di una cultura e di una prassi politica nuova, basata sull'acquisizione di una politica fiscale non soltanto come politica di "prelievo" per alimentare le casse dell'erario; bensì di un'azione fiscale come leva per incrementare ed indirizzare lo sviluppo del mercato e la promozione dell'attività produttiva delle imprese. Si trattava dunque di presupporre l'esistenza di un tessuto imprenditoriale dinamico e in grado di rispondere positivamente agli stimoli derivanti dall'innovazione politica. Su questo Petriccione delineava una possibilità reale di superare la "gelata" conseguente alla fine dell'assistenzialismo: "Certo - aggiungeva - sarà pesantissimo; anche se già ora esistono nel Sud imprese che riescono ad imporsi sul mercato, e sono spesso quelle minori". La "gelata" prevista c'è stata. Quel che è mancata è una politica adeguata alla nuova realtà, a cominciare da quella della trasformazione tecnologica, che ha visto il Mezzogiorno tagliato fuori dagli investimenti proprio nei settori di punta dell'hi-tech: con le poche eccezioni di alcuni significativi investimenti stranieri, come quello della finlandese Nokia nel catanese, che, dimostrano l'esistenza delle possibilità, di un esito positivo per tali tipi di iniziative. E l'aggravante della scomparsa del sistema bancario meridionale, tutto, o quasi, assorbito nei grandi processi di fusione e di integrazione dominati' dalla finanza settentrionale.

A vent'anni dalla fine della Cassa c del Mezzogiorno si può ben dire che la fine dell'assistenzialismo aveva offerto un'occasione decisiva per un: incisivo mutamento: un'occasione che nel suo complesso è stata mancata. C'è sempre da sperare in un cambiamento d'indirizzo da parte delle forze politiche, delle istituzioni, delle rappresentanze sociali. Dicevamo dell'impegno assunto da Luca di Montezemolo; che, scavalcando tra l'altro la posizione filonordista di Tremonti, ha espresso l'esplicita opzione per la leva degli sgravi fiscali, rivedendo il sistema degli incentivi più efficace e mirato. (La stessa posizione espressa appunto da Petriccione). Montezemolo ha lanciato peraltro un allarme che va condiviso: "Un imbarazzante silenzio caratterizza il dibattito sulla questione meridionale. Eppure - ha sottolineato - il problema Sud resta ancora drammaticamente aperto" ("Sole 24 Ore" del 28 maggio 2004), con buona pace di tanti revisionismi, la "questione meridionale" esiste ancora.

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