FEBBRAIO 2004 - DOCUMENTO POLITICO PER IL CONGRESSO NAZIONALE DELLO SDI

01 febbraio 2004

Verso il partito riformista Qui di seguito il testo del documento politico approvato dal Comitato esecutivo nazionale che si è riunito giovedì 26 febbraio a Roma, presso l'Hotel Exedra. I lavori sono stati introdotti da una relazione del vicepresidente Roberto Villetti, che anche a nome della Commissione politica ha presentato il documento per il terzo congresso nazionale del partito che si terrà a Fiuggi il 2, 3 e 4 aprile prossimi. Nel dibattito sono intervenuti Enrico Boselli, Antonio Landolfi, Enzo Ceremigna, Raffaele Gentile, Roberto Biscardini e Pia Locatelli. Durante i lavori non sono stati presentati, e neppure annunciati, documenti alternativi e dunque questo è il testo che sarà alla base del dibattito congressuale. Gli antichi valori di libertà, di giustizia sociale e di pace, che hanno caratterizzato sin dalle origini il movimento socialista, socialdemocratico e laburista, sono tuttora validi. Le grandi trasformazioni, quelle avvenute nello scorso secolo e quelle in atto, non ne hanno intaccato i principi fondamentali. Ciò è avvenuto perché il socialismo democratico ha saputo rinnovarsi, non è rimasto impigliato in un corpo dottrinario fisso e immodificabile, è riuscito a interpretare bisogni e esigenze di società in continuo mutamento. Nello scorso secolo il socialismo democratico ha vinto la doppia sfida che aveva di fronte: verso il capitalismo autoritario e verso il totalitarismo comunista. I socialisti hanno costituito la forza politica più coerente e cosciente. Ferma, vigorosa e straordinaria è stata la partecipazione del socialismo democratico alla lotta antifascista e contro il nazismo. L'olocausto, nel suo profondo orrore, ha smosso le coscienze, ha rimosso inerzie e apatie, ha spinto verso l'affermazione dei diritti umani contro ogni sorta di discriminazioni di etnia, di religione o di concezione di vita, di sesso, di reddito, di status sociale. L'affermazione della dignità di ciascun essere umano è il fondamento del socialismo democratico. Mantenendo inalterati i principi essenziali, i socialisti democratici non sono restati, però, arroccati dentro un fortino ideologico, difeso da dogmi sacri e inviolabili. Al contrario, il socialismo democratico è stato permeato dall'influenza di nuove e antiche correnti politiche e di pensiero: dal liberalismo al cristianesimo sociale fino all'ambientalismo. Questa caratteristica aperta e pluralistica costituisce la maggiore garanzia sulla possibilità che il socialismo democratico possa svolgere ancora un ruolo importante nel futuro. Il socialismo democratico non è stato mai - e non ne ha neppure preteso l'esclusiva - l'unica corrente politica e di pensiero che si sia impegnata sul fronte della libertà, della giustizia sociale e della pace. Già nello scorso secolo liberali progressisti, cristiano sociali e ambientalisti riformisti hanno condiviso con i socialisti democratici i medesimi obiettivi politici e programmatici. Questa convergenza di fondo non è, quindi, una novità. Del resto, il grande progetto del Welfare State non si è nutrito solo delle idee socialdemocratiche, ma è stato alimentato da indicazioni ed elaborazioni di provenienza e di origine tra le più diverse (gli apporti più significativi alla definizione di una politica economica progressista e alla costruzione dello stato sociale sono stati quelli di due liberali inglesi, Keynes e Beveridge). Un nuovo internazionalismo progressista All'apertura del nuovo secolo, si pone il tema assai rilevante di una sempre più stretta cooperazione a livello internazionale e - per quanto ci riguarda più da vicino - su una scala europea di tutti i movimenti, le associazioni e i partiti che condividono valori e principi comuni. Questa, del resto, è stata l'aspirazione che ha avuto l'Internazionale Socialista sotto l'impulso di Willy Brandt e che oggi si è in larga parte realizzata: nell'Internazionale convivono, infatti, formazioni che non possono essere ricondotte all'antica matrice socialdemocratica: da movimenti di liberazione nazionale a partiti ex comunisti e a forze generalmente progressiste. Proprio in occasione dell'ultimo Congresso dell'Internazionale Socialista a Sao Paulo in Brasile, si è stabilito un legame di collaborazione con una importante associazione, radicata nel partito democratico americano e si sono realizzate ulteriori rapporti con partiti progressisti, esistenti nel terzo mondo ed esterni alla socialdemocrazia come quello diretto dal presidente Lula. Si tratta di ulteriori passi in avanti che tuttavia non sono ancora risolutive per dare una nuova fisionomia dell'Internazionale, come organizzazione di tutti i progressisti. Questo processo è destinato a svilupparsi, e l'Internazionale socialista è destinata ad ampliarsi, poiché i cambiamenti avvenuti hanno assai ridotto le distanze tra le varie forze progressiste nel mondo. Ora, tuttavia, non è sufficiente che questo rapporto resti solo sul piano delle alleanze politiche e delle solidarietà internazionali. Il socialismo democratico è pronto a ulteriori innovazioni che lo mettano in sintonia con le grandi trasformazioni in atto e consentano una crescita della sua influenza e dei suoi rapporti politici: con il superamento di una vecchia concezione statalista il socialismo democratico ha sposato i principi del liberalismo; andando oltre un'antica visione industrialista, ha abbracciato i valori dell'ambientalismo; con l'abbandono di un angusto clericalismo ha riscoperto l'importanza dei valori religiosi nell'ambito di una visione laica della società, accettata da tutti i cittadini, credenti e non credenti. L'incontro tra i diversi riformismi e i differenti riformisti è avvenuto, innanzitutto, all'interno dei grandi partiti socialdemocratici, socialisti e laburisti. Questo pluralismo interno ha cambiato la stessa natura tradizionale dei partiti socialdemocratici: l'adesione non è data più sulla base di un accettazione di una visione ideologica e classista della società, ma di una condivisione di principi generali di libertà e di giustizia sociale. Personalità, provenienti da mondi distanti e distinti da quello tradizionale del movimento operaio, hanno assunto funzioni di leadership nei partiti socialdemocratici: l'ingresso nei partiti socialdemocratici non è stato avvertito come una perdita della propria identità culturale o religiosa da uomini come Francois Mitterrand o Jacques Delors. In questo contesto in rapido cambiamento sono ormai maturi i tempi per un mutamento del nome all'internazionale, che superi l'antica denominazione "socialista" al fine di aprire le porte a tutti i partiti che condividono gli stessi valori e gli stessi principi, a cominciare da quello democratico americano, che è la più grande formazione progressista storicamente estranea alla socialdemocrazia. Verso un gruppo europarlamentare progressista Su scala europea questo processo di allargamento richiede tempi e modi più graduali che su scala mondiale. Il Partito Socialista Europeo non ha, infatti, lo stesso pluralismo che esiste nell'Internazionale. Ciò è dovuto al fatto che la socialdemocrazia ha avuto la sua origine proprio in Europa. Tuttavia, la situazione è in piena e intensa evoluzione. Il Partito Popolare europeo ha da tempo superato i legami con l'antica radice cristiano-democratica per divenire, a tutti gli effetti, la Casa dei conservatori. Ne è stato un segno evidente l'ingresso di Forza Italia di Berlusconi. Questa situazione ha creato una sempre più difficile coabitazione per i cristiano-democratici che sono rimasti fedeli alle proprie tradizione e che sul piano sociale hanno una posizione progressista e di centro sinistra. Tra i liberali europei vi sono nette diversità tra chi sposa posizioni di destra radicale e chi invece si pone su una sponda di riformismo progressista. I Verdi, con la recente costituzione a Roma di un partito europeo, sono interlocutori naturali per i socialisti. Del resto, in Italia alle ultime elezioni politiche è stata presentata una lista tra lo Sdi e i Verdi, che - se non avesse registrato un insuccesso dovuto anche all'improvvisazione che ha caratterizzato questa iniziativa - avrebbe potuto rappresentare l'avvio di una stretta cooperazione rosso-verde. Purtroppo, i Verdi in Italia hanno abbracciato, soprattutto dopo le elezioni politiche, posizioni che li rendono più vicini a formazioni estreme che si proclamano "comuniste" come i Comunisti Italiani e Rifondazione comunista. In questo contesto il rapporto tra i Verdi e i socialisti, che in altri paesi come la Germani è particolarmente stretto, è invece attualmente assai difficile. I tempi per la costruzione di un grande partito progressista e democratico comunque sono abbastanza maturi. In queste condizioni si può realizzare una più forte convergenza tra socialisti, cristiano-democratici di centro sinistra, liberali progressisti e Verdi, che dia vita ad un gruppo europarlamentare dopo il prossimo voto di giugno, in grado di contrapporsi al partito popolare europeo. Così si potrebbe costruire la Casa dei riformisti europei. Lo Sdi s'impegnerà nell'ambito del Partito socialista europeo affinché questa prospettiva sia perseguita. Resta, comunque, evidente che, in attesa che si possa realizzare un'aggregazione dei progressisti, gli eletti dello Sdi nella lista Prodi, come - riteniamo - quelli dei Ds, si collocheranno nel gruppo europarlamentare socialista. Da questo panorama in evoluzione si può facilmente dedurre che l'opera in corso per costruire in Italia un partito riformista e riformatore, capace di unire socialdemocratici, liberali progressisti, cristiano democratici di centrosinistra e ambientalisti riformisti, non rappresenta un'ulteriore anomalia del nostro paese, ma una novità che è in sintonia con i profondi mutamenti in corso al livello europeo e su scala internazionale. Del resto, qualsiasi partito deve fare i conti con la nuova velocità della politica, che non ammette il ristagno in vecchie idee, il puro e semplice mantenimento di antiche tradizioni, la ripetizione di schemi politici e programmatici, validi nel passato e ormai obsoleti nel tempo presente, pena l'emarginazione e, a lungo andare, l'estinzione. Un secolo di incertezze e paure Il nuovo secolo si è aperto all'insegna dell'incertezza, dell'ansia e del timore per il futuro. L'ondata terroristica, con il suo apice nel crollo delle Twin Towers a New York, ha dato l'impressione che d'ora in poi si debba vivere in un mondo continuamente esposto a qualsiasi improvviso e devastante atto di violenza. Persino i cambiamenti scientifici e tecnologici, che stanno avvenendo con grande rapidità e che una volta erano accorti con sollievo e speranza, oggi provocano una grande inquietudine. Non è la prima volta che la paura si diffonde di fronte all'avvento di grandi trasformazioni. È già avvenuto nella seconda metà del secolo XVIII, agli albori del capitalismo industriale, quando divenne di moda il mito del "buon selvaggio" contro le gravi conseguenze che comportava il nuovo modo di produzione industriale. Rosseau, che ne fu il principale epigono, ebbe un grande successo nei circoli intellettuali e nell'opinione pubblica dell'epoca. Non mancarono, inoltre, filosofi e filantropi che, in nome di una maggiore giustizia sociale, si opposero strenuamente alla grande trasformazione capitalista industriale, proprio quella - come comprese Marx - che avrebbe cambiato il volto del mondo. In effetti allora si determinarono rotture profonde di equilibri che peggiorarono il livello di vita della stragrande parte della popolazione. Solo ristrette cerchie di menti illuminate, come furono gli illuministi scozzesi, a cominciare da quello che è considerato il capostipite dell'economia politica, Adam Smith, ebbero un approccio al grande cambiamento che ai giorni nostri potremmo definire "riformista". Oggi, sta accadendo, sia pure in condizioni assai diverse, una situazione analoga: tutti sembrano temere, salvo qualche rara eccezione, che il progresso prepari un'epoca nella quale appariranno mostruose creature, generate dalle invenzioni di nuovi dottor Faust, che si vada incontro a una catastrofe ambientale, che si esauriscano le fonti di energia con il conseguente blocco della crescita. Di fronte alla globalizzazione, si mobilitano i "no global"; di fronte all'utilizzazione delle cellule staminali, tratte da embrioni, e in generale di fronte alla nuova ingegneria genetica, si ergono nuovi fondamentalisti; di fronte ai nuovi lavori e alle nuove regole che si impongono nel mercato, cresce la nostalgia per il vecchio operaio-massa, costretto però ad essere una pura e semplice appendice animale delle macchine. Gli stessi rivoluzionari che, dopo l'89 hanno perso qualsiasi riferimento a modelli alternativi di società rispetto a quello fondato sull'economia di mercato, si propongono come meta di tornare ai "gloriosi trent'anni" del dopoguerra, nei quali vi fu nella generalità dei paesi europei la costruzione dello Stato sociale e durante i quali si conobbe un formidabile sviluppo. Le ansie dei giovani, le paure degli anziani Generale è ormai la sfiducia verso il futuro che non appare garantito come una volta. Le nuove generazioni temono che il loro futuro sia peggiore di quello che avevano davanti le generazioni precedenti: lavoro precario e previdenza incerta o del tutto insufficiente sono i maggiori motivi di ansia. Lavorare in modo intermittente disincentiva non solo la costruzione di una nuova famiglia ma anche la definitiva separazione dai propri genitori. Neppure tra gli anziani, che dovrebbero essere confortati dall'allungamento delle attese di vita e che percepiscono una pensione certa, vi è una condizione di serenità: si teme l'isolamento, la solitudine e la non autosufficienza che non sia accompagnata neppure dai servizi essenziali per vivere o comunque per sopravvivere. Per tutti i cittadini il futuro si presenta denso di incognite. In queste condizioni, è forte per la sinistra riformista la tentazione di difendere lo status quo che appare il programma più popolare da propagandare e da perseguire. Libertà e sicurezza Libertà e sicurezza appaiono oggi come valori contrapposti. Non fu così in larga parte nello scorso secolo quando questa coppia era strettamente interdipendente. La libertà, alla fine del settecento, si contrappose alle monarchie assolute, all'autarchia economica e alle corporazioni chiuse con un forte contenuto di progresso. La libertà del nascente proletariato si contrappose ai primi dell'ottocento, quando si sviluppava la grande fabbrica, al capitalismo selvaggio. La libertà dei liberali e dei socialisti si contrappose ai vari e diversi totalitarismi. La sicurezza discendeva, quindi, da un assetto istituzionale di libertà. Erano i sistemi dispotici a mettere in discussione la libertà come la sicurezza, come un tutto unico di diritti. La stessa criminalità, che è sempre esistita, veniva interpretata principalmente come un derivato delle disuguaglianze sociali. Questa interdipendenza si è incrinata nell'ultimo quarto dello scorso secolo: la coppia libertà e sicurezza si è scissa definitivamente con l''89. Così, si è venuto a creare un rapporto inversamente proporzionale: se si vuole più sicurezza, bisogna ridurre la libertà. Se si vuole più libertà, bisogna ridurre la sicurezza. Questo schema si è trasferito dal livello dell'ordine pubblico a quello più generale dei rapporti sociali ed economici: più libertà si traduce in meno Stato, in meno burocrazia e, in generale, in meno tasse; più sicurezza in più Stato, in più burocrazia e, in generale, in più tasse. Si tratta di un micidiale combinato ideologico che ha rimesso in discussione lo Stato sociale. Il rilancio delle teorie neoliberiste si è fondato, quindi, su un assioma di cui non ci si è neppure curati di dare una qualsiasi dimostrazione tanto lo si è considerato evidente. L'11 settembre sembrava che avesse scandito l'apogeo di questo schema ideologico, ma invece ne ha segnato la crisi definitiva. Nella patria della libertà individuale, come sono gli Stati Uniti, si è avviato un pericoloso processo di involuzione che ha messo in discussione diritti fondamentali dei cittadini, da sempre considerati inviolabili. Dal prevalere delle esigenze di sicurezza è venuta nuovamente crescendo la necessità di più Stato. Il neoliberismo è entrato, così, in una crisi che solo qualche anno fa era imprevedibile. La destra non può più inalberare la bandiera della libertà assoluta, come simbolo di un nuovo mondo senza regole e senza costrizioni. Anzi, questa bandiera, agitata come un'arma contro i riformisti tardo statalisti, è spesso ammainata non solo in nome della sicurezza e in quello di un'etica pubblica fondamentalista, ma anche in nome dell'economia. La caduta delle dottrine neoliberiste non poteva essere più verticale. Far ripartire lo sviluppo L'impulso necessario per riavviare la crescita economica, al fine di superare la fase di ristagno, ha richiesto massicci investimenti pubblici. Di nuovo "burro e cannoni" sono gli ingredienti per riavviare lo sviluppo. È la resurrezione di Lord Keynes. La moneta non è più una componente da mantenere neutrale nei confronti dell'economia, ma un prezioso strumento per stimolare la crescita. La destra americana ha cavalcato sul piano economico ricette che possono apparire simili a quelle della vecchia sinistra. Rimane, tuttavia, una differenza che non è di poco conto: la destra va all'assalto dello Stato sociale per mantenere le sue promesse di riduzione delle tasse; la sinistra difende il livello della spesa sociale. Nel corso dell'ultimo quarto di secolo scorso, la sinistra riformista aveva dovuto accettare lo schema "meno tasse, meno Stato, più libertà", che ormai si era rivelato vincente nell'opinione pubblica. E in effetti, la pressione fiscale aveva raggiunto livelli talmente elevati da essere percepita come una vera e propria vessazione da parte della maggioranza dei cittadini, a fronte delle inefficienze e delle insufficienze mostrate dai servizi pubblici. Dovrebbe essere evidente che tanto più si diminuiscono le risorse per lo Stato sociale, tanto più i servizi pubblici funzionano peggio. In questo modo si entra in un circolo vizioso nel quale, pezzo dopo pezzo, si smonta lo Stato sociale. Certo, i disservizi pubblici, lamentati da tutti i cittadini, utenti, consumatori o clienti, non sono solo imputabili al livello delle risorse disponibili che sono impiegate nei diversi settori: in assenza di concorrenza e di mercato, nel pubblico vengono infatti inesorabilmente a prevalere le resistenze corporative, fonte primaria di ogni inefficienza. Lo Stato sociale sembra così stretto nella morsa costituita, da un lato, da risorse decrescenti e, dall'altro lato, dal prevalere degli interessi di chi è addetto ai servizi. Non sembrerebbe, quindi, esserci alcuna via d'uscita per portare avanti un programma riformista che non solo mantenga ma modifichi ed estenda - com'è necessario - in forme nuove la rete di sicurezza sociale esistente, richiamando ciascun cittadino alla propria responsabilità individuale ed evitando di costruire nuove bardature statalistiche e burocratiche. Alle prese con le tre rivoluzioni A peggiorare la situazione, invece che a migliorarla, sembrano contribuire le tre rivoluzioni che dominano il secolo appena aperto: quella demografica, quella sessuale e quella digitale. La rivoluzione demografica, infatti, tende sempre di più a spostare la maggior parte delle risorse, destinate allo Stato sociale, a favore della previdenza; la rivoluzione sessuale mette in campo una nuova forza lavoro femminile proprio nel momento in cui sembra che diminuisca l'offerta di lavori; la rivoluzione digitale porta con sé una ristrutturazione della divisione del lavoro a livello mondiale con una delocalizzazione fisica e virtuale delle imprese. Si apre così un conflitto tra generazioni, tra genders e tra popoli sviluppati e popoli in via di sviluppo. La sinistra riformista non sembra essere più in grado di tenere insieme élite intellettuali, giovani ed anziani, uomini e donne, ceti medi qualificati, proletariato residuale ed emarginate poiché non riesce ad offrire un progetto capace di rendere compatibili valori e interessi, sia quelli già consolidati sia quelli emergenti. La scelta dei riformisti, almeno finora, si è mossa in difesa: si è attestata sul mantenimento dell'assetto sociale esistente. A tutti i cittadini la sinistra spesso cerca di offrire il mondo di ieri dove tutti si sentivano più tranquilli invece che il mondo di domani nel quale vi sono troppe variabili imprevedibili. Da questo stato di cose sembra che da parte della sinistra si tutelino i potentati: da quelli delle grandi corporazioni a quelli dei poteri forti. Ciò è dovuto anche al fatto che ogni volta che si discute una riforma la sinistra ha come esclusivi interlocutori gli addetti ai servizi o comunque i gestori del comparto che si vuole modificare: per la sanità i medici e gli infermieri, per la scuola gli insegnanti e per l'università i professori, per la rete distributiva i commercianti, per la giustizia i magistrati e gli avvocati, per i trasporti gli autisti, i macchinisti e i piloti, per il risparmio i banchieri e così via. Restano invece tagliati fuori dal confronto e dalla contrattazione i cittadini come pazienti, clienti, utenti, consumatori, risparmiatori, studenti, imputati o vittime di reati etc. Questa situazione deriva non solo dal fatto che nella società pesano molto di più gli interessi organizzati, lobbies o corporazioni che siano, rispetto a quelli atomizzati; discende, almeno per la sinistra, anche da una trasposizione del vecchio schema del proletariato come "classe generale", nella cui concezione gli interessi di classe coincidono con quelli generali, a tutti i lavoratori comunque e ovunque siano collocati nella piramide sociale. Questa contiguità della sinistra nei confronti delle corporazioni provoca un effetto di lontananza dal "popolo". Questa immagine deformata ha consentito alla destra populista di presentarsi con una forza di cambiamento e, quindi, di valorizzazione tutti gli interessi, sia quelli emergenti sia quelli emarginati. Non solo in Italia ma anche in Europa la destra riesce a mietere consensi negli strati a più basso reddito e e a meno elevata istruzione. Sembra andare in frantumi l'antico paradigma che faceva muovere insieme un intero blocco sociale, relativamente omogeneo e composto innanzi tutto da classi deboli, verso orizzonti di sempre maggiore uguaglianza. La coppia libertà-uguaglianza non si traduce più automaticamente in quella libertà-sicurezza che era alla base dello Stato sociale. Solo un ripensamento critico di quanto è accaduto nell'ultimo quarto di secolo può permettere alla sinistra riformista di ricostruire un progetto. Tentativi in questa direzione sono stati fatti da correnti socialdemocratiche particolarmente innovative, com'è stata quella che ha propugnato la cosiddetta "terza via", elaborata e sviluppata dal sociologo inglese Anthony Giddens e da quello tedesco Ulrich Beck. I risultati pratici di questa impostazione - vedi l'esperienza del New Labour di Tony Blair e quella socialdemocratica del "nuovo centro" di Gerard Schroeder - non hanno però convinto la stragrande parte delle socialdemocrazie europee. In Gran Bretagna - a dire il vero - non manca il consenso , mentre in Germania la SPD dopo la vittoria insperata alle elezioni politiche sta andando incontro ad un insuccesso dopo l'altro. C'è qualche cosa che non funziona nella traduzione programmatica della "terza via": nonostante ciò appare resta uno schema innovativo di tipo analitico che appare tuttora valido di fronte alle grandi trasformazioni in corso. Riforme socialiste e riforme borghesi Il nuovo riformismo, portato avanti dalle socialdemocrazie, non è diverso da quello perseguito da altre formazioni progressiste. Una volta il riformismo socialista si differenziava nettamente da quello borghese: lo scopo dei socialisti riformisti, sin dal primo revisionismo di Eduard Bernstein, era quello di arrivare gradualmente a un superamento pacifico e democratico del sistema capitalista. L'uso della violenza, come ben mise in evidenza Filippo Turati nel suo discorso profetico al Congresso socialista di Livorno, era il principale discrimine tra riformisti e rivoluzionari. Da tempo le socialdemocrazie hanno accettato l'economia di mercato, escludendo esplicitamente di perseguire un modello radicalmente alternativo. Certo, persiste tra i socialdemocratici un rifiuto della società di mercato, come disse Lionel Jospin quando era ancora premier della Francia, nel senso che i socialdemocratici non devono accettare una completa mercificazione di tutti i rapporti sociali. Tuttavia questa affermazione, che ha innanzi tutto un forte contenuto etico, non è solo fatta propria da correnti della socialdemocrazia, ma anche da settori del cristianesimo sociale, dell'ambientalismo ed anche del liberalismo progressista. Anzi oggi i socialdemocratici, abbandonando l'equivalenza - a suo tempo sostenuta - tra intervento pubblico ed espansione della democrazia - si pongono nell'affrontare il tema delle riforme sullo stesso piano dei progressisti che non sono socialdemocratici. Resta invece valida la distinzione tra sinistra e destra: la prima tende a realizzare maggiore uguaglianza anche a detrimento di una maggiore crescita economica; la seconda tende a mantenere un ampia gamma di disuguaglianza poiché in tal modo si favorirebbe meglio la concorrenza e lo sviluppo. Da ciò si può dedurre che le riforme dei riformisti, socialisti o progressisti che siano, sono quelle che vogliono maggiore uguaglianza senza tuttavia ad arrivare a irrigidire la società in una totale uniformità e a un generale appiattimento. La debolezza storica dei riformisti In Italia i problemi della sinistra sono per ragioni storiche molto più complessi e difficili da affrontare e risolvere. Il riformismo ha avuto sempre una tradizionale debolezza. Manca tuttora oggi in Italia un grande partito socialdemocratico. Non ha più una forte consistenza elettorale il partito che trae origine dal movimento socialista italiano com'è lo Sdi, erede di quanto è rimasto di vivo e vitale del Psi e del PSdi. Lo Sdi è riuscito spesso a spingere verso l'innovazione il centro sinistra, ma non può certo pensare di essere in grado da solo d'imporre il rinnovamento che sarebbe necessario. I Ds, che nascono da una profonda trasformazione del Pci, e che appartengono da tempo all'Internazionale socialista e sono stati cofondatori del partito socialista europeo, non riescono ancora a esprimere tutto il loro potenziale riformista, ostacolato dalle forti resistenze esistenti nel loro mondo di riferimento, soprattutto quello intellettuale. Nella storia d'Italia, come a suo tempo osservò Norberto Bobbio, gli intellettuali siano restati spesso affascinati da avventure e da regimi di tipo autoritario. Comunque, è positivo che molti intellettuali italiani, che appartengono alla generazione del sessantotto, siano passati dalla contestazione del sistema a posizioni di strenua difesa dei principi liberali. Il riformismo ha avuto in Italia, comunque e sempre, una vita difficile. Minoranze particolarmente attive sul piano politico si presentano spesso, proprio per il antagonismo ai "politici di professione" e ai partiti, come autentici interpreti della cosiddetta società civile. Attraverso questa "maschera", che tra la gente comune assume l'aspetto puro e semplice del qualunquismo, portano avanti posizioni radicali, se non estreme, che non sono affatto condivise dalla "zona grigia", quella degli indecisi, che vorrebbero rappresentare. In questo modo la società civile apolitica o spoliticizzata viene rappresentata da élite iperpoliticizzate che hanno spesso militato negli stessi partiti tradizionali e che in taluni casi hanno assunto ruoli dirigenti e comunque di rilievo. In questo modo si determina una distorsione ottica nella quale i riformisti appaiono ancora più isolati di quanto in realtà lo siano nei confronti della società civile. Non ha, quindi, tutti torti Ernesto Galli della Loggia quando sul "Corriere della Sera" registra così questa situazione: "Ciò che colpisce non è tanto la solitudine politica del riformismo, quanto la solitudine sociale". Per comprendere queste difficoltà, basta riflettere sulla stessa storia della sinistra italiana.Nel nostro Paese, esistono ancora ben due partiti che si richiamano al comunismo: i Comunisti italiani di Cossutta e Diliberto, che rivendicano l'ortodossia più dogmatica del vecchio Pci, e Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti, che cerca di raccogliere le istanze libertarie dei movimenti di contestazione. A questa situazione, per complicare le cose, si aggiunge un partito attorno all'ex pm di "Mani pulite" che si è presentato alle ultime elezioni politiche in una posizione autonoma rispetto all'Ulivo e a Berlusconi e che oggi cavalca, con la partecipazione di Achille Occhetto, non solo i suoi tradizionali temi, giustizialismo e "legge e ordine", ma anche le istanze più estreme del movimento pacifista, soprattutto per fare concorrenza ai Ds. La novità della Margherita L'unica novità, che si è prodotta finora, è costituita dalla Margherita, formazione nata dalla confluenza del Ppi di Pierluigi Castagnetti e Franco Marini, dei Democratici di Romano Prodi, di Rinnovamento italiano dell'ex presidente del consiglio Lamberto Dini, di autorevoli esponenti repubblicani come Antonio Maccanico ed Enzo Bianco, nonché dell'Udeur di Clemente Mastella che però dopo le elezioni politiche ha abbandonato questa formazione. La Margherita ha svolto un ruolo positivo, nonostante risenta ancora dell'influenza del cattolicesimo post democristiano su temi assai delicati come il finanziamento delle scuole confessionali, l'inquadramento degli insegnanti di religione, dipendenti tuttora dalla Curia, e la fecondazione assistita. Tuttavia, bisogna riconoscere che la Margherita con la sua presenza politica ha permesso di realizzare all'interno dell'Ulivo una reale pluralismo che non consente oggi a nessuno di esercitare forme di egemonia. Se non ci fosse la Margherita, non si sarebbe neppure potuto mettere in cantiere la creazione di un nuovo soggetto politico che raccolga tutti i riformisti e tutti i riformatori. L'appello di Romano Prodi Con questa articolazione politica, il centrosinistra non avrebbe potuto darsi una forte guida che serve non solo di sconfiggere la coalizione al governo, ma anche a governare nel segno dell'innovazione e della stabilità. Per questo motivo, l'appello di Romano Prodi, rivolto a creare una lista dell'Ulivo per le prossime elezioni europee, ha raccolto un'esigenza di fondo che era molto sentita. I Il segretario dei Ds e il presidente della Margherita,, di fronte al rifiuto dei Comunisti italiani, dei Verdi e dell'Udeur a raccogliere l'invito di Prodi, hanno compiuto una scelta innovativa sostenendo comunque che bisognava presentare una lista unitaria alle prossime elezioni europee assieme allo Sdi. Dal congresso di Genova, lo Sdi aveva indicato come prospettiva strategica da perseguire la costruzione della Casa dei riformisti. Allora questa nostra indicazione, che traeva origine da una suggestione espressa da Romano Prodi, fu considerata una sorta di fuga in avanti. I fatti, come diceva Pietro Nenni, si sono incaricati di darci ragione. Ciò che appariva una vaga utopia è oggi una prospettiva concretamente realizzabile: con la lista Prodi, formata dai Ds, dalla Margherita, dallo Sdi e dai Repubblicani europei, e con il concorso di numerose associazioni appartenenti alla società civile, si è aperta una strada nuova. Nel prossimo congresso di Fiuggi, lo Sdi confermerà e approfondirà la scelta strategica compiuta a Genova. Siamo per primi consapevoli che la lista Prodi è solo una prima tappa che realizza una "cooperazione rafforzata" tra riformisti e riformatori. Lo sviluppo di questa strategia, che fa perno sull'Ulivo, è tuttavia, come è giusto che sia, nelle mani delle elettrici e degli elettori che voteranno nella prossima consultazione elettorale europea del prossimo giugno. Diventa essenziale, come ha ripetutamente sottolineato Michele Salvati, che la lista Prodi si presenti con un forte respiro ideale e strategico, condizione essenziale per essere promossa dal voto dei cittadini. Da parte nostra, puntiamo alla costruzione di un vero e proprio nuovo soggetto politico. Se l'operazione avrà successo elettorale, si vedranno quali dovranno essere le forme che dovrà assumere: una federazione di partiti, ciascuno dei quali deleghi una quota della propria sovranità ad una leadership comune; oppure un vero e proprio partito che si dia una struttura completamente innovativa rispetto a quelle tradizionali, conosciute finora nel nostro Paese. Tutta questa costruzione strategica si fonda sull'Ulivo che è diventato il simbolo dell'innovazione, dell'unità e delle riforme. Si tratta di una prospettiva che da tempo Romano Prodi porta avanti con coerenza e determinazione e nella quale lo Sdi si ritrova. Questo disegno politico si fonda innanzi tutto sul riconoscimento dei cittadini e degli eletti dell'Ulivo come soggetti fondamentali del processo unitario che si vuole sviluppare e sull'accettazione di regole che consentano l'assunzione di decisioni a maggioranza tra tutte coloro che ne fanno parte. Questa prospettiva può realmente cambiare la geografia politica del centrosinistra dando più forza politica, più credibilità e più vigore di governo all'alternativa alla destra. Lo Sdi, una volta superato lo schema di una volta, "la Quercia più i cespugli", si è impegnato a fondo per portare avanti e rafforzare l'Ulivo. Noi non abbiamo posto alcun veto, come pure si è pure detto e scritto nei confronti di alcuna forza politica. Lo Sdi non ha mai frapposto ostacoli neppure all'Italia dei valori. Sin da quando Di Pietro ha manifestato la sua volontà di far parte dello schieramento di centro-sinistra, lo Sdi è stato favorevole alla realizzazione di uno schieramento più ampio di centro sinistra. Sappiamo bene, infatti, che nel sistema maggioritario è necessario costruire le alleanze più estese al fine di sconfiggere l'avversario. Lo Sdi ha avanzato, però, un problema eminentemente politico: la necessità di dare alla lista unitaria, una volta accertata la defezione dei comunisti italiani, dei Verdi e dell'Udeur, una precisa fisionomia che per noi non poteva che essere quella riformista e riformatrice. È solo in questo ambito che abbiamo considerato l'Italia dei valori come una formazione estranea al progetto che stava prendendo corpo. Non avremmo sollevato alcun problema politico se si fosse formata una lista che avesse raccolto tutto per le formazioni aderenti all'Ulivo, nella quale, quindi, poteva trovare posto anche l'Italia dei valori. Noi siamo comunque convinti che il campo d'applicazione fondamentale dell'Ulivo sia oggi rappresentato dall'unità dei riformisti e dei riformatori per dare un timone alla coalizione, in modo tale da assicurare uniformità, continuità e stabilità a Romano Prodi come premier e al suo governo, una volta vinte le elezioni politiche, cosa oggi probabile ma che mai deve essere data per scontata. Consideriamo la formazione della lista Prodi, così come è strutturata, non solo una nostra vittoria politica, ma un successo di tutti i riformisti e i riformatori del centrosinistra e dell'Ulivo. A questo esito si è giunti per la scelta coraggiosa che è stata fatta dal segretario dei Ds, Piero Fassino, un leader di cui abbiamo sempre apprezzato l'identità chiaramente socialdemocratica. Non sottovalutiamo, certo, l'apporto che alla conclusione raggiunta è stato dato dal presidente della Margherita, Francesco Rutelli, e dal vicepresidente Arturo Parisi. In questa direzione, del resto, si sono mossi positivamente anche i "Repubblicani europei" di Luciana Sbarbati che rappresentano una importante tradizione della storia d'Italia, con la quale i socialisti hanno avuto intensi legami sin dalle origine del movimenti operaio. La lista Prodi offre alle elettrici e agli elettori un terreno assai impegnativo, com'è quello della costruzione dell'Unione Europea: si tratta di un progetto che è stato definito dal presidente della commissione europea nel suo manifesto "L'Europa, un sogno, le scelte". Questo progetto sarà tradotto in un programma da Giuliano Amato attraverso un gruppo di lavoro cui daremo il nostro contributo di idee e di proposte. Questa iniziativa, che rivolta innanzitutto ai cittadini, si colloca in un momento in cui appare sempre più evidente il declino dell'esperienza del governo Berlusconi. La difficile situazione dell'Italia Il quadro generale del nostro Paese è tutt'altro che rassicurante: dopo il collasso del vecchio sistema politico, è iniziata una transizione che appare davvero infinita. Le istituzioni, le regole, le forze politiche sono inadeguate alla nuova situazione del Paese. I tentativi in atto da parte dei partiti al governo, per arrivare ad una riforma della nostra costituzione a colpi di maggioranza, non possono che aggravare la situazione, determinando ulteriori tensioni politiche. Occorrerebbe, invece, un'intesa tra maggioranza e opposizione per riscrivere insieme le regole del gioco. Noi ci troviamo in una situazione che non è certo quella di un paese che ha solide istituzioni e regole certe.. Dal cambio di sistema politico, avvenuto con una vera e propria rottura rispetto al passato e con un impatto piuttosto violento, si è sicuramente sprigionata una spinta alla modernizzazione e alla moralizzazione della vita pubblica, ma anche un gravissimo discredito della democrazia, dei partiti e, in generale, della politica che ha arato il terreno nel quale ha germogliato ed è cresciuto il populismo berlusconiano. Non era affatto inevitabile che la sanzione di comportamenti illegali e irregolari dovesse provocare la distruzione dei partiti democratici, come purtroppo è avvenuto. Il modo in cui si è affrontato in Germania un caso simile, anche se non equivalente ed esteso come quello italiano, dimostra che la politica poteva giocare un ruolo eminentemente positivo per evitare una negativa destabilizzazione del sistema-paese. Oggi avremmo potuto avere una democrazia bipolare fondata, sul centro sinistra, su un grande partito socialdemocratico, formato dall'unione del Psi, del Psdi e del Pci e, sul centro destra, su una Democrazia Cristiana profondamente rinnovata. La geografia italiana sarebbe diventata simile a quella europea, senza che insorgesse il fenomeno Berlusconi e senza i drammi che abbiamo purtroppo vissuto. Le insufficienze del governo Queste riflessioni devono servire oggi affinché vi sia una assunzione di responsabilità da parte della politica, nel momento in cui si profila sul terreno economico e finanziario un vero e proprio terremoto che non risparmia più nessuno, neppure la Banca d'Italia che, assieme al Capo dello Stato e all'Arma dei Carabinieri, è stata sempre considerata dai cittadini un'istituzione altamente affidabile. L'insegnamento che si deve trarre da tangentopoli è ben chiaro: sanzionare i singoli comportamenti evitando di travolgere le istituzioni. Ciò significa che dopo il crack della Parmalat si deve evitare di colpire la credibilità complessiva del nostro sistema finanziario, rappresentato innanzitutto dalla Banca d'Italia e, in generale, dalle banche. Da una destabilizzazione del nostro sistema finanziario non può che derivare una crisi del Paese, forse ancora più profonda e devastante di quella provocata dal discredito gettato sulla democrazia, sui partiti e sulla politica. Occorre, al più presto adeguare il sistema di controlli per ridare fiducia ai risparmiatori: più poteri alla nuova Consob in materia di trasparenza per le società per azioni quotate in borsa; compiti di controllo sulla concorrenza, compresi quelli relativi alle banche, affidati all'Autorità antitrust; conferma del ruolo della Banca di Italia nella tutela della stabilità del nostro sistema finanziario. L'Italia ha già troppi problemi per permettersi una prolungata fase di diffidenza, se non di sfiducia, tra banche, imprese e risparmiatori. L'Italia, purtroppo, non può essere considerata in nessun campo una moderna ed avanzata democrazia liberale come lo sono la Francia, la Gran Bretagna e la Germania. L'Italia non è un paese normale: è invece un'anomalia tra i paesi democratici e liberali. Infatti, non può essere considerata normale una situazione nella quale il presidente del Consiglio in carica controlla, in quanto proprietario, tre reti televisive di Mediaset e, in quanto leader della maggioranza, tre reti della Rai. Questo stato di cose costituisce un gravissimo attentato al pluralismo che è alla base della democrazia liberale. Non è assolutamente valida la giustificazione secondo la quale l'assetto dell'informazione televisiva in Italia sarebbe stato avallato dal voto dei cittadini italiani che hanno dato la maggioranza in Parlamento alla coalizione guidata da Berlusconi. Il pluralismo nel mondo dell'informazione, infatti, non può essere ridotto o annullato neppure da un voto di maggioranza. È sempre bene ricordare che a maggioranza non possono essere soppressi fondamentali diritti di libertà. L'ostinazione del presidente del consiglio a non voler risolvere il suo conflitto di interessi, particolarmente grave nel campo dell'informazione televisiva, rende fragile la nostra democrazia bipolare e ostacola la realizzazione di qualsiasi accordo bipartisan. Eppure, le nostre istituzioni avrebbero bisogno di una profonda riforma, realizzata con un larghissimo consenso politico e parlamentare. Vivere nel sistema maggioritario L'avvento della democrazia dell'alternanza non deriva in Italia dal tipo di sistema elettorale.. La stragrande parte dei paesi europei, nei quali vi è una democrazia bipolare, è retta da sistemi proporzionali. Se mai, si può affermare che il maggioritario uninominale a un turno tenda a trasformare la democrazia bipolare da multipartitica a bipartitica. In questo quadro si comprende la forza che ha avuto il disegno prodiano dell'Ulivo, nonostante le fortissime resistenze che si sono manifestate all'interno dello stesso centro sinistra. Lo Sdi, che è stato sempre per un sistema proporzionale con premio di maggioranza, si è adeguato a questa nuova situazione cercando di coglierne gli aspetti positivi. Lo Sdi ha fatto proprio in questa materia il motto enunciato recentemente da Joshka Fischer: "È bello stare dalla parte giusta della storia, ma se la storia va dalla parte sbagliata, allora sono guai". Il maggioritario richiede comunque riforme. È evidente che va riformata la nostra stessa Costituzione poiché essa è stata ideata e realizzata avendo in mente un sistema retto da una legge elettorale proporzionale. Diverse e più forti dovrebbero essere le garanzie riservate alle minoranze in un sistema nel quale si può conquistare la maggioranza dei seggi parlamentari senza avere la maggioranza assoluta dei consensi elettorali. L'Ulivo, il centrosinistra e la sinistra - sotto l'impulso di Giuliano Amato - si sono ritrovati in una proposta di mediazione, accettata anche dallo Sdi, che tenendo innanzitutto conto del nuovo quadro maggioritario individua proprio nuove garanzie da introdurre nel nostro sistema politico. Il governo e la maggioranza non sembrano affatto disponibili ad aprire un vero dialogo: al contrario appaiono tanto più arroccati in se stessi tanto più si accorgono di perdere l consenso tra i cittadini. Il presidente del consiglio descrive un'Italia che si arricchisce, ma gli italiani sono però consapevoli che le proprie tasche si sono alleggerite con il carovita indotto da sfrenate speculazioni che il ministro dell'economia Tremonti si sta apprestando ad arginare con colpevole ritardo, dopo aver accollato irresponsabilmente la responsabilità di quanto stava accadendo alla nuova moneta europea. Un programma per l'Italia L'Italia vive in un clima di incertezza e di inquietudine che in molti settori sociali e, soprattutto, tra i giovani diventa vera e propria ansia per i futuro. Berlusconi ha deluso profondamente, appare ormai un uomo incerto e indeciso su ciò che deve fare, è preoccupato soprattutto della difesa dei suoi interessi: un giorno attacca l'euro e l'Europa; un giorno gioca la carte della difesa del vecchio sistema politico; un giorno invece punta sull'antipolitica attaccando tutti, dentro e fuori della sua maggioranza. Ormai, appare una sorta di "re travicello". Di fronte a questo stato di cose occorre una coalizione di centro sinistra che sappia trovare la strada dell'unità. Non è un impegno facile poiché è del tutto evidente che l'Ulivo, il centro sinistra e la sinistra sono un mondo dalle mille voci, dalle mille idee, dai mille campanili, dalle mille anime. Trovare un terreno comune, politico e programmatico è la sfida che ci attende. Per sfidare al meglio Berlusconi, dobbiamo innanzitutto sfidare noi stessi nella prova più difficile che abbiamo di fronte: essere uniti. Sul progetto, sul programma, sulle cose da fare dobbiamo ritrovare una convergenza di fondo: evitare di esasperare i toni, di accentuare le divisioni, di approfondire i solchi. Di fronte alle differenze bisogna cercare le convergenze. Sui temi più specificatamente programmatici dobbiamo fare una scelta preliminare che è di principio e di metodo: le soluzioni che si offrono ai cittadini, quali che esse siano, per essere credibili e non assomigliare a alle illusorie e irrealizzabili promesse elettorali fatte da Berlusconi a "Porta a porta", come il drastico taglio delle tasse, devono essere sempre accompagnate dall'individuazione delle risorse che occorrono per realizzarle. Questo è il nucleo essenziale del riformismo: concretezza, gradualità e innovazione. Si tratta di conciliare principi che in sé sono validi: sicurezza ambientale, sicurezza sociale, sicurezza interna e internazionale con libertà, crescita e pace. Questo è il terreno sul quale dobbiamo ricercare una sintesi programmatica. Lo Sdi considera come obiettivo prioritario la valorizzazione e lo sviluppo della scuola pubblica e laica, che deve essere aperta a tutti senza distinzioni di reddito, di status sociale, di appartenenza religiosa, di etnia o di sesso. La scuola deve essere, assieme all'innovazione e alla ricerca, il cardine portante del nuovo programma di governo dell'Ulivo, del centrosinistra e della sinistra. In netta alternativa alle modifiche portate avanti dall'attuale ministro della pubblica istruzione Moratti, si deve cercare - in sintonia con la grande riforma realizzata con la scuola media unica - di allungare a complessivi dieci anni, a partire dai cinque anni di età, il periodo nel quale tutti i ragazzi e ragazze possano frequentare un medesimo corso di studi, rinviando a un momento di maggiore consapevolezza le scelte per l'ultimo triennio di istruzione superiore. Questo è il modo migliore per contrastare le discriminazioni dovute al reddito o allo status culturale delle famiglie cui appartengono ragazze e ragazzi. In questo modo, si ripristinerebbe il tradizionale assetto di studi, formulato allora solo per le classi privilegiate, dalla fondamentale legge Casati all'inizio dell'unità d'Italia. Per quanto riguarda l'università, ci sembra giusto che il costo complessivo degli studi ricada su chi la frequenta. È infatti evidente che l'acquisizione di una laurea rappresenta tuttora una chance in più per acquisire un maggiore reddito e un migliore stato sociale. Tuttavia, non devono essere creati sbarramenti di tipo economico all'ingresso nell'università. I più meritevoli saranno comunque esenti da oneri. Il pagamento delle spese sostenute dallo Stato per la formazione potrebbe essere diluito in rate mensili da versare nel corso di venti anni con un vero e proprio mutuo a tasso zero posto a carico dei futuri laureati. Quanto si ricavererebbe in questo modo dal contributo degli studenti, una volta inseriti nel mondo del lavoro e delle professioni, andrebbe reinvestito nel sistema di istruzione e nella ricerca. La scuola è la vera chiave per assicurare pari opportunità, per quanto è possibile, a tutti. È questo un principio che è stato sostenute da liberali progressisti e che deve essere portato avanti dai socialisti riformisti e da tutto il centrosinistra. La riforma dello Stato sociale è attesa da tutti cittadini: da chi teme che vengano meno le tradizionali sicurezze e da chi, invece, spera che se ne creino di nuove. Il primo dato fondamentale, dal quale partire, è costituito dal mantenimento del livello della spesa sociale rispetto al prodotto interno lordo. Va nettamente contrastato qualsiasi tentativo di ridurre le risorse che sono attualmente destinate allo Stato sociale. Il punto più controverso è costituito dalla necessità di un ulteriore aggiustamento del nostro sistema pensionistico, tanto più importante in presenza di una continua crescita della spesa sanitaria. Il governo aveva presentato una proposta che appariva tanto iniqua quando inefficaci, incentivando con una politica di annunci la rincorsa al pensionamento anticipato e rinviando al futuro una riforma del tutto improvvisata e sicuramente iniqua. Successivamente, è stato corretto il tiro. Innanzitutto, si è accantonata l'ipotesi di una decontribuzione che avrebbe minato alla fonte il sistema previdenziale. Si è accettato che il versamento della liquidazione ai fondi pensione avvenga attraverso un meccanismo di silenzio-assenso. È rimasta, invece, la scelta di far scattare tutti insieme nel 2008 gli effetti di una nuova riforma che appare assai meno draconiana. Noi siamo stati sempre convinti che il primo atto da compiere, per riformare ulteriormente il sistema previdenziale, sia l'abolizione delle pensioni di giovinezza, quelle al di sotto del compimento del sessantesimo anno di età. A questo principio, che ci appare accettabile, devono essere poste deroghe che siano pienamente giustificate. Si può andare in pensione quando sono stati acquisiti quarant'anni di contributi; quando vi sia una situazione di cronica disoccupazione (qualche cosa di diverso dai cosiddetti prepensionamenti a carico dell'Inps poiché bisogna accettare che il disoccupato non rifiuti in un consistente periodo di tempo i lavori che gli vengano eventualmente offerti); infine, quando si svolgano lavori manuali disagiati che vanno definiti con una migliore e più ampia definizione di quelli già considerati usuranti. L'età di pensionamento e il numero di contributi non possono essere gli stessi per chi fa lavori profondamente diversi. Vi sono infatti professioni che possono essere svolte ben oltre i 70 anni di età; vi sono invece mestieri che è difficile, se non impossibile, esercitare ancor prima del compimento dei sessanta anni.. Introdurre differenziazioni a secondo dei lavori che sono stati svolti può essere la chiave di volta di una riforma equa e giusta, verso la quale anche il mondo sindacale potrebbe assumere un atteggiamento di maggiore apertura. A questo ulteriore aggiustamento si può aggiungere la generalizzazione del "contributivo" pro rata e l'innalzamento dell'età pensionabile commisurata al tipo di lavoro che si svolge, cosa che già oggi in parte avviene. Questa riforma, tuttavia, richiede un serio ed efficace confronto con i sindacati su tutto l'impianto dello stato sociale per creare nuove e più efficaci tutele per la disoccupazione e l'emarginazione. Solo nell'ambito di una riforma dello Stato sociale è possibile affrontare l'aggiustamento ulteriore del sistema previdenziale con un raggiungimento di un accordo con i sindacati. Occorre attivare il secondo pilastro costituito dalla previdenza integrativa realizzata attraverso i fondi pensione; creare nuovi ammortizzatori sociali finalizzati innanzi tutto a coprire i ricorrenti periodi di disoccupazione e di mancanza di stipendio che ci sono nei lavori intermittenti; integrare i contributi del tutto insufficienti degli ex Co.co.co (i cosiddetti "collaboratori"); fornire nuovi servizi per gli anziani non autosufficienti. Fuori da questo contesto, qualsiasi tipo di intervento è inaccettabile perché è rivolto solo a ridurre la spesa sociale e - come si dice - a fare cassa. Lo scopo complessivo deve essere quello di tenere insieme la crescita economica e la sicurezza sociale. L'Italia sta affrontando un periodo irto di difficoltà.La nostra economia risente fortemente della fase di ristagno che ha caratterizzato la congiuntura internazionale e da cui gli Stati Uniti stanno uscendo con una nuova forte spinta allo sviluppo. Non c'è bisogno di addossare al governo la mancata crescita per formulare un giudizio complessivamente negativo sulle politiche che sono finora state adottate. Il ministro dell'economia Tremonti è andato avanti con una politica caratterizzata da condoni a ripetizione, tra i quali quello fiscale sembra destinato a far perdere di credibilità dell'amministrazione dello Stato e quello ambientale a intaccare gravemente la tutela del nostro patrimonio ambientale, artistico e naturale. Manca al Governo qualsiasi visione complessiva che non sia quella di tappare i buchi che si vengono via via creando nei conti pubblici. Nulla, o quasi nulla, ha fatto il governo nel campo decisivo della scuola, dell'università, della ricerca e dell'innovazione. Di fronte a questa situazione, poca cosa appare il grandioso disegno di realizzare un istituto di alti studi tecnologici e scientifici a Genova sulla base di modelli americani. Nella coalizione che ci governa prevale la compassione, ma è assente una reale politica verso i ceti e le aree deboli del nostro Paese. Il governo, prigioniero di Umberto Bossi, ha completamente dimenticato di incentivare lo sviluppo nelle aree depresse del centro sud, nelle quali i precedenti governi di centrosinistra avevano iniziato una positiva opera di promozione. La questione meridionale è stata cancellata dall'agenda programmatica del governo. Neppure nel campo della sicurezza e dell'ordine pubblico sono stati conseguiti risultati significativi. La presenza del "poliziotto di quartiere", che è stata tanto propagandata, non si avverte in nessun luogo. È cambiato solo l'atteggiamento dei telegiornali che non danno più molta evidenza alla cronaca nera. La lotta alla micro e alla macro criminalità è proseguita, ma con una minore efficacia rispetto al passato, nonostante il ministro degli interni Pisanu - cosa che noi riconosciamo - si sia impegnato su questo fronte. La crisi della giustizia La crisi più grave sta avvenendo nel mondo della giustizia. I socialisti hanno sempre criticato l'eccessiva politicizzazione che si è sviluppata in alcuni settori della magistratura. Oggi, con non minore intensità, lo Sdi denuncia le continue interferenze che l'esecutivo porta avanti nei confronti dell'autonomia e dell'indipendenza della giustizia. Proprio su questo delicato terreno più che su altri si avverte che a Palazzo Chigi, come tra i deputati e i senatori, esiste un comitato - spesso formato da eccellenti professionisti - che cura gli interessi economici, giudiziari e personali del presidente del consiglio. Noi contestiamo, assieme a tutte le opposizioni, i comportamenti gravissimi messi in atto dal Governo. Queste nostre critiche - ed è bene ricordarlo - provengono da una formazione, lo Sdi, che in più occasioni ha dimostrato di - non cavalcare, ed anzi ha ostacolato apertamente, la tentazione di sconfiggere Berlusconi attraverso una via giudiziaria, invece che con il voto come è giusto e corretto che avvenga in una democrazia liberale. Lo Sdi è comunque allarmato di fronte a iniziative che suonano come vere e proprie intimidazioni nei confronti della magistratura. Questo atteggiamento del governo ha provocato un'esasperazione degli animi. Solo in questo contesto si può comprendere come sia stato possibile che nell'associazione dei magistrati si sia arrivati a considerare lo sciopero come una possibile arma di "resistenza" nei confronti del governo. Lo Sdi ritiene per i magistrati, come altre categorie nevralgiche dello Stato, non sia corretto usare tutti i tipi di agitazione sindacale al pari di altri lavoratori. Non è in discussione il diritto di sciopero, ma la sua opportunità. Per quanto riguarda la riforma della giustizia, lo Sdi ritiene che l'Italia si debba adeguare ad un modello europeo, con la netta esclusione del caso francese dove la Pubblica accusa è ancora alle dipendenze del ministro della giustizia: ciò significa separazione delle carriere, come avviene in quasi tutte le democrazie liberali, comprese quelle rette dal common law. Tuttavia, nel caso della giustizia come su altri temi fondamentali, lo Sdi si atterrà nel voto alle Camere alle decisioni che saranno assunte in comune nella lista Prodi.. La guerra in Iraq Quanto sia difficile trovare la via dell'unità nell'Ulivo, nel centrosinistra e nella sinistra è evidente a tutti. Non si possono certo ignorare le divisioni che si sono create soprattutto sul caso Iraq. Tuttavia, anche su questo terreno i fattori di unità sono maggiori di quelli di divisione. L'aspirazione alla pace costituisce, infatti, un dato di fondo del movimento socialista, socialdemocratico e laburista che è largamente in comune con il mondo cattolico e con le associazioni dei "non violenti". Le divisioni drammatiche e traumatiche, che nel corso della storia sono avvenute nel movimento operaio sul tema fondamentale della pace e della guerra, hanno riguardato soprattutto il rapporto tra nazionalità e internazionalismo. Tutti ricordano la drammatica crisi dell'Internazionale socialista alla vigilia della I guerra mondiale. Oggi la questione si pone in termini molto diversi: le divisioni avvengono sul rapporto che vuole stabilire tra pace e sicurezza, il che implica di conseguenza ammettere o non ammettere che vi possano essere "guerre giuste". Vi sono settori nel mondo pacifista che rifiutano in linea di principio l'uso della forza, ovunque e dovunque. Vi sono, però, settori del mondo pacifista che contestano la violenza solo se è usata dagli Stati Uniti o dai suoi alleati,i ma non quando è rivolta contro il cosiddetto l'imperialismo americano. Pesa, infatti, ancora troppo nella sinistra e nel pacifismo un forte sentimento antiamericano e una persistente e generico terzomondismo. Un grande movimento per la pace si è sviluppato contro l'intervento militare in Iraq, nel quale si sono raccolti cittadini, associazioni e partiti con convincimenti assai diversi: ci sono stati quelli che erano contrari, sia che l'intervento avesse e sia che non avesse l'avallo dell'Onu (cioè senza "se" e senza "ma"); sia coloro che lo avrebbero accettato se fosse stato compiuto sotto l'egida dell'Onu. Questo movimento, comunque, ha avuto una tale ampiezza che se ne è parlato come la "seconda potenza mondiale". È, comunque, positivo che l'opinione pubblica mondiale sia ispirata a sentimenti di pace piuttosto che a velleità di guerra. Per tutti i governanti è sicuramente meglio essere condizionati da movimenti pacifisti piuttosto che da movimenti bellicisti. Sull'Iraq tutto il centro sinistra e la sinistra si sono ritrovati in un "no" assai netto e forte all'intervanto unilaterale degli Stati Uniti. Tutti si sono espressi contro il regime sanguinario di Saddam Hussein. Tutti sono contro una sorta di protettorato politico, economico e militare degli Stati Uniti in Iraq. Tutti sono per arrivare al più presto ad affidare il destino dell'Iraq allo stesso popolo iracheno. Tutti sono per internazionalizzare la gestione della transizione sotto l'egida dell'ONU. Queste posizioni comuni dimostrano chiaramente che sono maggiori i punti di unità rispetto a quelli che ci trovano divisi. Non vi è neppure divisione sul giudizio da dare sul mandato che hanno ricevuto di fatto dal Governo le nostre forze armate: siamo, infatti, passati da una missione che aveva solo compiti di pace e di assistenza civile a una missione che assolve anche a ruoli strettamente militari. Ciò che è stato in discussione e ha creato dissensi e polemiche è la richiesta da fare o no di un ritiro immediato delle forze armate italiane dall'Iraq. Su questo aspetto, come in generale, il centro-sinistra si deve comportare come forza di governo. E' evidente che, se è stato un gravissimo errore l'intervento unilaterale degli Stati Uniti, oggi un ritiro di tutte le forze armate - come ha ricordato Felipe Gonzalez al recente Consiglio dell'Internazionale socialista a Madrid - farebbe piombare l'Iraq nel caos e potrebbe rimettere in discussione la stessa unità del Paese. La presenza delle forze armate italiane deve essere, quindi, collegata ad una iniziativa da parte del Governo per arrivare ad una gestione della transizione con l'avallo delle Nazioni Unite. Se da parte degli Stati Uniti non ci sarà una volontà di aprire alle NU, allora si potrà chiedere il ritiro delle forze armate italiane senza cadere in atteggiamenti privi della necessaria responsabilità. Oggi, comunque, l'astensione verso il rifinanziamento di tutte le missioni militari all'estero ha soprattutto il significato di una solidarietà, la più larga possibile, delle Camere verso le nostre forze armate. La politica estera dell'Ulivo Sulla politica estera, sull'Europa, sul Medio Oriente e in generale sui rapporti tra Nord e Sud del mondo c'è una larghissima convergenza nell'Ulivo, nel centrosinistra e nella sinistra. Soprattutto nella crisi mediorientale si è riusciti ad assumere posizioni comuni e condivise come la condanna di tutti gli atti terroristici da parte degli estremisti palestinesi e di tutte le violenze commesse dalle forze armate israeliane dirette dal governo Sharon. Come Sdi abbiamo sempre detto che in Israele e in Palestina si confrontano due popoli che hanno entrambi ragione e che entrambi aspirano alla sicurezza e alla pace. Abbiamo criticato il governo italiano che ci è sembrato incerto nel condannare ogni tipo di violenza in quel territorio martoriato, deviando così da una linea tradizionale della politica estera italiana. I socialisti sono ovunque per la difesa della pace, dei diritti di libertà dei cittadini e di indipendenza dei popoli. Questo nostro atteggiamento vale per la Cecenia, come per Cuba o per la Cina, per Guantanamo come per l'Iran. Noi siamo contro ogni forma di dispotismo e di totalitarismo, contro ogni sopraffazionee intolleranza, contro ogni mancanza di rispetto verso la persona. Siamo per una società multietnica nella quale tutti, per appartenendo a nazionalità, a religioni e a concezioni di vita diverse, possano convivere pacificamente. Per tradizione abbiamo sempre sostenuto le battaglie per la libertà portate avanti da Amnesty International. Siamo socialisti riformisti, liberali e libertari. Libertà e diritti civili Siamo stati sempre - e continuiamo ad esserlo - per il rispetto scrupoloso delle differenze: quelle di sesso, di religione, di visione filosofica, di etnia. Sposiamo interamente le lotte condotte dal movimento femminile e femminista, di cui vogliamo sempre più farci portavoce e ci impegniamo in Italia affinché sia affermato un nuovo ruolo delle donne nella politica, a cominciare da una più ampia rappresentanza nelle assemblee elettive. In questo contesto lo Sdi sostiene pienamente la "democrazia paritaria" nella quale si afferma il principio che nessuno dei generi, maschile o femminile, possa avere una presenza dominante, ad esempio superiore ai 2/3 dei posti nelle liste elettorali. Questa nostra posizione corrisponde a una più ampia concezione che riconosce il valore delle differenze sessuali. Siamo, perciò, per il rispetto degli omosessuali e a favore del riconoscimento delle "unioni di fatto". Siamo contrari ad una campagna che voglia ridurre il danno derivato dalle droghe, facendo intendere falsamente che quelle leggere siano equivalenti a quelle pesanti. Abbiamo combattuto, con Loris Fortuna ed assieme a Marco Pannella, per introdurre il divorzio e una legge civile sull'aborto in Italia. Con la stessa coerenza ci siamo impegnati affinché fosse affidata alla scelta individuale delle donne se utilizzare o meno fecondazione assistita, omologa o eterologa che sia. La nostra difesa della laicità parte dalla c

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