7.02.03 - SDI - Conferenza per un programma riformista - note preparatorie di Sergio Fumagalli - Bozza

07 febbraio 2003

Premessa.

La fine della guerra fredda e della lunga stagione dei blocchi contrapposti, le trasformazioni dei processi produttivi e la rivoluzione tecnologica di internet, l’emergenza ambientale e le migrazioni: tutti questi cambiamenti sono esplosi, contemporaneamente, nell’ultimo decennio, travolgendo consuetudini, rapporti di forza, ideologie ed equilibri consolidati.
Il quadro che, in questi anni, ne è derivato è sotto gli occhi di tutti: l’attualità ha quotidianamente generato nuovi e diversi scenari per un futuro che pochi si azzardano a prevedere; aumenta l’incertezza e con essa le spinte alla chiusura della società intorno ad elementi antichi e, per questo, apparentemente rassicuranti: la razza, la religione, il territorio.
Allo stesso tempo, però, più aumenta l’incertezza e più diventa grande la domanda di ideali, il bisogno di qualcuno che sappia dare un indirizzo di lungo respiro, indicare la direzione di marcia e mantenerla nel tempo, al di là del contingente e delle crisi quotidiane.
Con un cambiamento netto rispetto ai decenni precedenti, fare politica torna a richiedere la capacità di lanciare uno sguardo in avanti, di assumersi la responsabilità di obiettivi ideali impegnativi. In assenza di ciò, è oggi difficile creare consenso sulle battaglie quotidiane e suscitare energie positive nella società: diventa difficile motivare, in modo credibile, la richiesta di un voto.

Serve una rottura delle consuetudini politiche insieme ad un profondo rimescolamento delle identità.

La nostra Conferenza Programmatica intende dichiarare questa necessità e la consapevolezza che ne abbiamo, assumendosi un compito che le nostre forze e la nostre dimensioni odierne forse fanno sembrare eccessivo e che solo il nostro passato giustifica appieno.

La Conferenza Programmatica è un tassello essenziale del progetto politico della Casa dei Riformisti che lo SDI ha adottato nel Congresso di Genova del 2002, cioè di una prospettiva di superamento dell’attuale assetto e del deludente profilo complessivo del centro sinistra, per ricomporre le diverse culture riformiste della sinistra e dell’Ulivo in un nuovo partito.

Dare vita ad una nuova identità politica è un processo profondo che richiede l’identificazione di alcuni elementi fondanti espliciti e condivisi: è dunque necessario avviare un dibattito aperto e profondo, sia nelle forme sia nei contenuti, che affronti il merito delle sfide che ci aspettano come italiani, come europei e come cittadini di questo pianeta.

Non può essere un piccolo partito a guidare un simile processo e non abbiamo certo l’ambizione, velleitaria se non ridicola, di dare una risposta a tutti i problemi del mondo.
La conferenza dello SDI sarà invece il nostro stimolo ed il nostro contributo al confronto che l’intero centro sinistra ed in particolare la sinistra riformista e socialista, devono avviare per costruire identità ideali adeguate al nuovo secolo ed una proposta politica che possa diventare un programma vincente di Governo.

Innanzitutto si tratta di individuare le direttrici fondamentali dello sviluppo, i grandi temi che marcheranno i prossimi anni ma che già oggi attraversano, spesso in modo sotterraneo, la coscienza degli italiani e degli europei, creando dubbi e speranze, paure, opportunità e nuove convinzioni.
Poi, essendo la politica cosa assai diversa dal dibattito culturale, è essenziale ancorare la prospettiva che si indica a battaglie concrete, capaci di ben rappresentare la nostra sensibilità ed i nostri ideali sul piano della vita quotidiana di milioni di persone, ponendo al servizio di queste battaglie la nostra rappresentanza nelle istituzioni.
Da ultimo bisogna trovare il modo di aprire il confronto sulle nostre tesi, coinvolgendo soggetti esterni al perimetro dello SDI: gli altri partiti del centro sinistra certo, ma anche una platea ben più ampia di interlocutori esterni al mondo della politica professionale, spesso privi di ogni possibilità di partecipare alla costruzione delle scelte comuni.
I partiti attuali non riescono più, infatti, a garantire adeguate forme di partecipazione reali proprio mentre l’attualità ci obbliga a registrare una domanda crescente di partecipazione attiva che rischia di essere disillusa e quindi sprecata.
Serve anche all’intero partito e a tutti i partiti, una mentalità nuova ed una grande disponibilità di cui occorre sviluppare la consapevolezza, ben sapendo quanto la situazione attuale spinga invece tutti a logiche di corto respiro e, spesso, di mera conservazione.


Verso il futuro.

Definire una piattaforma ideale che possa sorreggere e innervare la nuova identità politica socialista e riformista che vogliamo contribuire a costruire e, da quella, l’intero Ulivo, richiede, innanzitutto, la responsabilità di indicare le questioni di fondo che hanno segnato e condizionato l’evolversi degli eventi di questi anni e che marcheranno gli anni a venire.
Individuare una prospettiva utile a leggere e a decifrare il futuro è un fatto arbitrario, è l’esercizio della libertà di giudizio e di scelta e dell’autonomia politica che rivendichiamo, figlio più della nostra cultura che della nostra dottrina, più della nostra capacità di ascoltare e di capire che di parlare.
In esso è insita una presunzione positiva che è l’origine costitutiva della identità politica: noi siamo quelli che pensano così.
Da questo fatto arbitrario, dalla bontà della scelta, dipenderà la capacità di individuare i problemi e le risposte, le politiche e le iniziative concrete.
Il compito di questo documento è di dare l’avvio alla discussione e al confronto, ponendo alcune questioni di base ed individuando i criteri, le linee guida per affrontarli.
Nessuno può illudere se stesso o convincere altri di dominare il processo complesso di costruzione di un nuovo soggetto politico, nessuno conosce tutte le risposte e, dunque, né questo documento né la conferenza programmatica promossa dai Socialisti Democratici italiani nascono con questa ambizione: nessun progetto di legge risolutivo di questa o quella questione, dunque. Non siamo né ingenui, né superficiali, né venditori di illusioni.

Un processo complesso e ambizioso richiede il contributo di molti, non solo degli addetti ai lavori ed una capacità straordinaria di alcuni di aggregare, stimolare, coordinare.
Una base su cui chiedere il contributo di molti, questo lo scopo del documento; un’occasione di stimolo, di aggregazione, un ambito di coordinamento: questo lo scopo della Conferenza programmatica promossa dai Socialisti Democratici Italiani.

La globalità.
Sotto la spinta di un’evoluzione tecnologica senza precedenti, la nostra epoca ha acquisito una dimensione globale. Non c’è più questione che possa essere confinata nell’ambito nazionale: non l’economia, non la socialità, non la cultura né l’ambiente e neppure i sentimenti e le aspettative individuali.
La globalità è, inevitabilmente, la prima direttrice su cui avviare la nostra riflessione.
La globalità non coincide con la globalizzazione. La globalità è già qui, insita nei nuovi strumenti di comunicazione, di produzione e di mobilità: è la capacità diffusa dell’uomo di pensare l’intero pianeta come ambito della propria vita. In questo unisce il grande manager, sempre in volo verso nuovi affari, con l’emigrante clandestino.
La globalizzazione è il processo di adeguamento, spontaneo o governato, dei diversi fenomeni economici e sociali alla nuova realtà.
Un processo che è in corso e continuerà, che nessuno da solo riesce a controllare ma che può essere condizionato, modificato, orientato perché produca esiti diversi da quelli che produrrebbe se si sviluppasse senza condizionamenti, guidato solo dagli animal spirits del capitalismo liberista.
La globalità genera molte cose, apparentemente lontane fra loro. Sono figli della globalità i flussi migratori ma anche le emergenze climatiche ed ambientali, il terrorismo islamico, le Twin Towers così come la nascita di una nuova Europa.

Non c’è politica che possa prescindere dalla globalità della nostra epoca.

Per noi europei, la responsabilità primaria in questo ambito, quella che è solo nostra, è la costruzione di un soggetto politico europeo, in grado di trasformare l’unicità storica e culturale del vecchio continente in una presenza attiva ed autorevole.
Sottovalutare l’importanza di questa responsabilità comporterà conseguenze rilevanti sia sul livello di benessere e di libertà dei cittadini europei sia sulla qualità del processo di globalizzazione per l’intero pianeta.
Sottovalutarne la complessità ci condannerà all’inefficacia dei luoghi comuni. Sottovalutarne l’urgenza può rendere vano ogni sforzo.

L’identità politica europea richiede un processo federativo che porti al progressivo conferimento da parte degli Stati nazionali ad un nuovo livello istituzionale democratico, cioè basato direttamente su libere elezioni, dei poteri fondamentali in materia di politica estera e difesa, sicurezza, economia e giustizia.

Non può essere la Convenzione a produrre questo risultato nei tempi necessari: essa ha l’obiettivo di tracciare le basi per la convivenza e l’integrazione dei 25 paesi, così diversi fra loro, che costituiranno la nuova Europa. La Convenzione ha dunque il compito di definire il livello minimo di integrazione fra tutti i popoli europei.

Serve uno sforzo aggiuntivo, più grande e più concreto, che attui il livello massimo di integrazione: un grande progetto di cooperazione rafforzata che, come è stato per l’Euro, individui, senza escludere nessuno, un gruppo di paesi che liberamente avviino la costruzione del nucleo centrale della nuova Federazione Europea, con un unico esercito, un’unica responsabilità per la politica estera ed un unico seggio nel consiglio di sicurezza dell’ONU e negli organismi internazionali.

Il modello istituzionale è quello descritto dall’attuale ministro degli esteri tedesco, Fischer, in un importante discorso di due anni or sono, molto simile al modello federale tedesco: vogliamo, dunque, l’Europa che non vogliono Bossi e Tremonti.

Lo strumento della cooperazione rafforzata è previsto dagli accordi di Nizza.

Questo è l’unico progetto di federalismo e di revisione istituzionale e costituzionale di cui abbia senso parlare in questi anni.
Da esso dipende il futuro del continente, la prosperità di quanti vi abitano ma anche il più ampio ridisegno degli equilibri internazionali che si è avviato dopo la fine dell’URSS.
Senza questa assunzione di responsabilità poco varrà dolersi delle scelte compiute oltre atlantico e poco significato avranno le affermazioni di grandezza dei tanti piccoli leader europei.

La devolution ed anche il nascente dibattito sul presidenzialismo berlusconiano sono, dunque, questioni secondarie, falsi obiettivi che possono farci sprecare energie e tempo in modo sterile.
Serve una revisione dei nostri assetti interni che renda più efficace la nostra democrazia: si faccia nel modo migliore, cioè in modo bipartisan, avendone chiari limiti ed obiettivi e senza obbligare gli italiani ad un nuovo referendum confermativo.
Non è però questo il tema che deve e può accendere una nuova passione politica nei cuori degli italiani: Bossi, Tremonti, Fini, Berlusconi, che sono conservatori senza disegno strategico, indicano come strategiche prospettive di conservazione di corto respiro.

Costruire l’Europa federale, invece, significa portare a compimento un processo millenario di integrazione di popoli diversi che, ancora sessant’anni fa, chiedeva un tributo di sangue drammatico e, al contempo, indicare la strada del futuro.
Per questo il socialismo riformista europeo, che nasce per essere innovatore, deve raccogliere la sfida ed affrontarne con decisione gli impegnativi nodi cruciali.

Su questa prospettiva, insieme ad altre, può essere fondata l’identità di una forza politica del XXI secolo, capace di proporre politiche adeguate ai problemi posti dalla globalità della nostra epoca, di indicare a tutti una direzione di marcia ed un approdo ideale.

Non si tratta di costruire un’Europa anti-americana, quanto un mondo libero di scegliere modelli di sviluppo, alleanze politiche, riferimenti culturali ed etici diversi, cioè di mantenere le proprie diversità pur nella dimensione globale della nostra epoca, anche contro l’interesse immediato o senza il consenso della principale potenza economica e militare.

Nella demagogia anti-americana trovano facilmente sfogo molte frustrazioni europee e i molti limiti e le velleità dei nazionalismi continentali che hanno prodotto la decadenza europea del ventesimo secolo ma non c’è una strada di sviluppo.
Anche la retorica filo americana esprime una cultura cinica e miope. Accodarsi agli Usa consente di non operare scelte difficili, di sviluppare una politica opportunistica e furbesca che lascia ad altri le responsabilità e gli oneri e si accontenta, in cambio, di piccoli privilegi, di compartecipazioni minoritarie, di apparire nelle foto storiche.

La finestra temporale in cui l’uno e l’altro atteggiamento potevano, almeno nel breve periodo, pagare è drammaticamente finita quindici anni or sono. Rimangono solo gli scampoli di quelle opportunità e di quelle prebende. Il neo-unilateralismo USA è chiaramente insostenibile per la stessa potenza americana ma costruire un’alternativa accettabile da tutti richiede ben più di qualche slogan o di qualche furbizia.
Il nuovo contesto richiede all’Europa un’inedita capacità di assumersi responsabilità e, prima di ciò, di costruire le condizioni istituzionali perché ciò avvenga.

L’Europa è l’unico attore sulla scena internazionale a disporre, oggi e per un futuro non breve, delle capacità economiche, culturali e tecnologiche necessarie per porre sul tavolo in modo non velleitario e non ostile verso gli Usa, la questione di un assetto multilaterale delle relazioni internazionali e di una gestione equilibrata delle crisi regionali

E’, però, necessario prendere atto di un aspetto scomodo di questa prospettiva: non è possibile, infatti, aspirare a svolgere un ruolo globale, anzi, rivendicare un simile ruolo e non porsi contemporaneamente il problema degli strumenti necessari, della capacità di corrispondere effettivamente alle aspettative che si generano.

Rispetto a questo, la costruzione di un nucleo federale aperto, all’interno dell’Europa dei venticinque, è un passaggio non eludibile: i 25 paesi europei mantengono oltre 600 ambasciate solo per gestire i rapporti fra di loro, più di quante ne abbiano gli Usa per gestire le relazioni planetarie.
Questa non è una ricchezza ma una follia ed uno spreco. E non è l’unica: 25 ambasciatori in ogni paese, 25 capi di stato maggiore, 25 politiche della difesa, 25 Primi Ministri sono un lusso sempre più insostenibile ma anche sempre più inutile.
Ne deriva una incapacità di decidere che è comprensibile se si guarda alla nostra storia anche recente ma è incompatibile con il nostro livello di benessere, la nostra libertà, le nostre responsabilità verso gli altri paesi del mondo e le aspettative quella grande parte del globo che guarda a noi con speranza

Costruire l’Europa federale è l’unica reale opportunità per dare vita ad una nuova stagione di relazioni internazionali, quindi, innanzitutto, euroamericane, che assuma a fondamento uno schema di cooperazione-competizione - simile, non a caso, a quello spontaneamente sviluppato dalle grandi corporation transanazionali per regolare i rapporti di mercato nel nuovo contesto globale – che consenta lo svilupparsi effettivo di una gestione globale dei destini del pianeta e quindi, per questa sua natura rispettoso, delle diversità di storia, cultura ed interessi.

Un’ultima riflessione che discende dalla proposta sopra tratteggiata.

Il complesso processo di costruzione europea delineato, in parte già in atto, in parte da costruire, si sviluppa dunque parallelamente su più piani, con obiettivi e tempi diversi su ciascuno di essi.

Su un piano, prende forma l’integrazione progressiva di oltre trenta Stati in un livello istituzionale: un processo senza precedenti riferimenti storici (la convenzione guidata da Giscard D’Estaing - il livello minimo ma importantissimo dell’integrazione).
Su un altro, non contraddittorio né alternativo ma, anzi, contemporaneo, si pone la costruzione, all’interno dell’Unione dei 25, di una nuova entità statale federale aperta (la federazione: il nuovo fronte da aprire, il livello massimo).
Tra questi due estremi è possibile individuare livelli intermedi: chi fa parte dell’accordo di Schengen, chi ha adottato l’Euro, chi accetta una prospettiva federale e chi no. Tutti contraddistinti da una reale cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali.

All’esterno, si sta cercando di costruire, già oggi, una più ampia area di libero scambio, di cooperazione e di libera circolazione, rivolta agli stati della sponda meridionale del mediterraneo e ai paesi della CSI .

Guardando a tutto ciò con abbastanza distacco da cogliere l’insieme, ci si accorge che di fatto, già oggi, in Europa non è più chiaramente definito che cosa sia lo Stato: al posto del concetto tradizionale esistono invece diversi livelli di sovranità tra loro correlati ed in progressivo divenire.

Quello in corso è un processo complesso e non pienamente consapevole ma ambizioso e affascinante che costituisce, di fatto, il primo concreto tentativo di superare, in Europa, le idee ottocentesche di Stato e di relazioni fra Stati, attraverso l’introduzione di livelli istituzionali intermedi, transitori o permanenti, corrispondenti a livelli variabili di integrazione e a cessioni di sovranità liberamente negoziate.

Un tentativo importantissimo per i cittadini europei ma anche per il futuro del pianeta che è sempre più piccolo, sempre più affollato, sempre più interdipendente e disperatamente bisognoso di trovare nuovi modelli di gestione delle relazioni internazionali. Un modello di globalizzazione inedito: davvero l’Europa può fare la Storia.

Anche per questo noi chiediamo all’Ulivo di avere il coraggio di proporre all’Italia di impegnarsi a costruire l’Europa federale, con un nuovo governo, dal 2006.

Questa è la prima provocazione socialista, rivolta ai partiti riformisti, ai new global, ai girotondi, ai comunisti, all’intero Ulivo e a tutti gli italiani.

La società solidale.
La nostra epoca ha visto il progressivo sfilacciarsi delle forme e degli ambiti di appartenenza sociale, quelli che vengono da un passato lontano e quelli più recenti, nati dalla rivoluzione industriale e dalle lotte operaie e contadine del secolo scorso: il luogo dove si vive, il posto dove si lavora, la chiesa in cui si prega, il sindacato, il partito fino all’idea stessa di nazione.
L’espressione più concreta dell’appartenenza ad una comunità, ad un corpo sociale unito è stato, in Europa e nel novecento il concetto di stato sociale, l’insieme di protezioni collettive garantite dallo Stato, che hanno assicurato, con la serenità della vita, anche la possibilità dello sviluppo.
La pensione, la sanità, la scuola, il diritto del lavoro, le ferie ed il controllo sociale dell’orario di lavoro sono stati elementi di certezza e di stabilità ma anche espressione concreta della solidarietà collettiva per molti decenni, fino a costituire uno dei tratti originali della cultura e della democrazia europea.

Oggi, per molti, l’insieme di queste sicurezze non è più garantito dall’appartenenza ad un corpo collettivo ma dalla capacità individuale di accaparrarsi le risorse necessarie.
Chi si sente forte, a torto o a ragione, così come chi è obbligato, dal contesto in cui vive, a fare da sé, è dunque portato a sentire quasi ostile l’idea piena di solidarietà e a rifiutare o a malsopportare i costi che comporta - le tasse, i contributi sociali - a cui tende a non associare una notazione positiva.
L’idea stessa di solidarietà, così, risulta, spesso, sminuita, ridotta a quella forma di carità sostanzialmente ipocrita che spesso caratterizza l’atteggiamento del ricco verso il povero, dell’uomo di successo verso chi non ce l’ha fatta e che si riassume nella formula del capitalismo compassionevole enunciata da Bush.

La solidarietà è, invece, un sentimento che lega uomini e donne che si sentono pari fra loro, responsabili della loro vita verso se stessi, verso la loro famiglia e verso la comunità a cui appartengono. La società solidale non è in contrasto né in competizione con le aspirazioni individuali, non cancella le differenze e le rivalità. E’ una rete più profonda che ci separa e ci preserva dall’abisso della solitudine, dell’isolamento e della disperazione.
E’ necessario contrastare il declino di quest’idea che è la radice stessa del socialismo umanitario e liberale, ben sapendo che, preservare un ideale, comporta la disponibilità a modificarne l’attuazione per mantenerlo intrecciato alla realtà quotidiana della vita, impone di non essere conservatori neppure nei confronti delle conquiste storiche del socialismo del novecento.

La scuola è più di ogni altra cosa il simbolo di quest’idea di solidarietà. In essa sono racchiusi due aspetti essenziali del nostro bagaglio culturale e di passione politica.

Il concetto di pari opportunità, innanzitutto.

Fino alla maggiore età, a tutti deve essere consentito di costruire la propria personalità, di porre le basi per la propria affermazione nella vita adulta, senza distinzioni o separazioni di ceto o di censo, di religione o privilegi connessi alla provenienza o all’ubicazione territoriale.
Strettamente legato a questo c’è l’idea che ciascuno può e deve costruire il proprio futuro, cambiando e anche ribaltando la meta a cui sembrava destinato, per seguire le proprie inclinazioni; e che l’istruzione e la cultura sono gli strumenti che rendono questo possibile.

Lo Stato solo può garantire l’universalità di questo diritto.

Al di là delle affermazioni di facciata, non si tratta di concetti di moda.

L’aumento degli abbandoni, nella scuola superiore nel nord ricco del paese, testimonia l’affermarsi di valori nuovi ma poveri, che dai genitori e dal contesto sociale passano ai ragazzi e ne condizionano drammaticamente le scelte.
La scuola privata, più che per spinte religiose, è scelta come elemento di distinzione, di separazione delle elites dalla massa. Il Governo Berlusconi, proponendo di anticipare la scelta tra istruzione e formazione professionale a quattordici anni, riporta nella scuola una divisione classista antica.

C’è, dunque, un’azione pedagogica da riprendere per rilanciare non solo la scuola ma l’idea stessa della scuola ed il suo valore come strumento di giustizia sociale, opportunità individuale e sviluppo della società.

La strada per farlo passa attraverso il coraggio di individuare nella scuola la priorità assoluta nella ridefinizione della spesa sociale, per adeguarla ai nuovi tempi.

Nessuna riforma potrà essere infatti realizzata senza risorse adeguate.

Sulla scuola si sono scaricate, in questi anni molte contraddizioni senza che venisse attivata un’adeguata politica di contrasto: la crisi della famiglia, l’immigrazione, l’handicap, l’emarginazione. Fenomeni sotto gli occhi di tutti che spesso hanno come unica risposta della collettività l’impegno o il disinteresse di un insegnante, isolato e senza strumenti adeguati.
Ne è derivato un declino qualitativo che privilegia nei fatti la scuola privata, che garantisce altri benefici: distinzione sociale, assenza degli elementi di disturbo che derivano a quella pubblica dall’obbligo di universalità, talvolta maggiore certezza di conseguire il diploma.

D’altra parte, anche i rapidi cambiamenti del lavoro e dell’economia impongono all’intero paese di investire in modo massiccio nell’istruzione e nella formazione di base delle future generazioni, oltre che nella formazione permanente rivolta a cittadini di tutte le età, pena la perdita di competitività del nostro paese e lo spreco di tante intelligenze.

E’, dunque, ora di assegnare alla riforma della scuola le risorse necessarie non solo perché possa essere efficace ma anche perché ritorni ad essere percepita come tale.

Si tratta di risorse ingenti che, se non si intende cadere in una demagogia di bassa lega e assai poco convincente, rendono incompatibile il mantenimento di altre prestazioni sociali nelle forme attuali e impongono un ripensamento generale della spesa sociale e di sostegno all’economia.
La loro entità impone anche di riaprire il dibattito sulle tasse, separandolo da quello relativo all’efficienza della amministrazione pubblica, e riportando l’imposizione fiscale ai suoi termini originari di strumento di ridistribuzione della ricchezza e quindi di moderazione delle diversità sociali nonchè strumento indispensabile di garanzia della universalità dei diritti affermati dalla Costituzione.

Affrontare questi aspetti, per così dire, preliminari e porli al centro della nostra proposta è una scelta nella scelta. Il diritto universale all’istruzione come paradigma dell’equità sociale. La scuola pubblica di qualità come attuazione di un diritto universale: concreta, insostituibile e prioritaria. La politica fiscale e di bilancio come strumento politico non demagogico finalizzato all’attuazione delle priorità dichiarate: politico perché sa scegliere, non demagogico perché non elude la criticità dei saldi ed i vincoli connessi al patto di stabilità e, quindi, sa dire dei si e dei no.

Bisogna anche discutere dei cardini della riforma che vorremo realizzare ma senza risorse sarebbe una discussione inutile ed ipocrita. L’obiettivo è comunque una scuola pubblica che vinca la sfida della qualità e ritorni ad essere ambito elemento di distinzione nel curriculum professionale di ciascuno. Serve, a questo proposito, una riflessione collettiva profonda, che affianchi alla dottrina degli esperti la dura esperienza di vita di migliaia di docenti, studenti, genitori a cui, con questa iniziativa chiediamo un contributo diretto.

Prima di ogni dibattito, prima di dividerci su questa o quella proposta, però, la parola d’ordine comune deve essere un’altra: 10 anni di istruzione obbligatoria il più possibile individualizzata, 10 mesi di formazione nel corso della vita lavorativa. 10 miliardi di € in più per rispondere al disagio sociale, alla crisi della famiglia, all’integrazione delle culture diverse e alle nuove esigenze di alfabetizzazione poste dalla tecnologia: una scuola che meriti 10 in qualità.

Il welfare.
La scuola pone un rilevante problema legato alle risorse disponibili per le politiche sociali e al loro utilizzo.
Una società solidale deve saper esprimere in concreto la propria natura nei confronti di tutti i cittadini senza demagogia: il rispetto dei saldi di bilancio e degli impegni internazionali non è un tema diverso, non è slegato perché ogni politica di spesa per essere equa deve innanzitutto essere sostenibile nel lungo periodo ed essere basata su fonti trasparenti e condivise.

Non è obiettivo di questo documento cimentarsi nella definizione analitica di specifici progetti di riforma del welfare e della spesa sociale in generale se non, come già detto, per affermare la centralità della scuola e della formazione. Il nostro contributo si limiterà dunque a porre alcune considerazioni ed alcune domande.

La struttura del welfare italiano e del diritto del lavoro vede nell’impresa il luogo fisico dove i diritti e le risorse si incontrano: l’impresa garantisce il posto di lavoro (vedi questioni sull’art. 18), l’impresa trattiene i contributi sociali che sostengono la spesa sociale. Questo aveva un senso negli anni della grande impresa nazionale ma non regge, in generale, negli anni della globalizzazione ed, in particolare, di fronte alla dispersione e alla frammentazione dei processi produttivi e dei servizi nel nostro paese.
L’impresa italiana non è più in grado di reggere questo ruolo, esposta alla competizione internazionale e a dinamiche che non rispondono alla medesima autorità - la legge italiana - da cui discendono i vincoli a cui è sottoposta: né quella grande, né, tanto meno, quella piccola o piccolissima.
Anche la stagione della esternalizzazione dei processi critici verso il piccolo è arrivata a fine corsa, sia perché sempre più si pone un problema di qualità dei processi produttivi, sia perché anche la flessibilità del piccolo è arrivata al suo massimo e non può più garantire una via di fuga sotterranea dalle contraddizioni.

Serve una nuova architettura del welfare, un processo profondo di riforma che non si accontenti di ritocchi o espedienti: se l’impresa non riesce più a sostenere il peso del welfare la soluzione non è eliminare il welfare, come vuole fare la destra, ma cambiarlo.

Alcune prestazioni del welfare (pensione sociale, servizio sanitario, istruzione obbligatoria) costituiscono ormai un diritto di cittadinanza che deve essere posto in capo alla fiscalità generale e garantito a prescindere dalla storia individuale (welfare di cittadinanza).

Ogni cittadino deve essere stimolato anche con forza a svolgere il proprio ruolo, contribuendo al benessere collettivo attraverso politiche attive: non c’è più spazio per le argomentazioni ed i comportamenti demagogici di una vecchia cultura operaista.

Il lavoro deve garantire un livello di benessere incrementale, basato su forme contributive specifiche e prestazioni correlate (welfare del lavoro).

Il trasferimento ingente del peso contributivo dal lavoro alla fiscalità generale contribuirà ad assicurare competitività al sistema delle imprese, liberandole da oneri impropri.
Il licenziamento, regolamentato, potrà cessare di essere un dramma assoluto e forse sarà possibile un unico corpo di diritti per tutti i lavoratori sia della piccola sia della grande impresa ed anche di quel grande mondo di lavoratori autonomi che non possono dimenticati o discriminati.

Un esempio solo per chiarire il contenuto del nostro contributo.

La pensione sociale esprime la garanzia che nessuno, comunque vada la sua vita, da vecchio sarà indigente. Si tratta di un valore che prescinde da considerazioni relative alla vita attiva degli individui e costituisce un elemento di civiltà fondamentale ed irrinunciabile.
Ne consegue che la pensione sociale deve essere finanziata dalla fiscalità generale, anno su anno, a partire dall’età in cui un cittadino italiano residente in Italia è riconosciuto anziano, senza altre condizioni.
La pensione maturata con la contribuzione da lavoro si somma a quella sociale, è finanziata dai contributi versati e dipende da questi per entità e per decorrenza. E’ gestita dallo Stato perché sia sottratta alle oscillazioni e alle incertezze del mercato.
In questo modo il tema dell’età pensionabile si divide in due: da un lato è l’età che segna la fine della vita attiva, può cambiare nel tempo (oggi a 65 anni?) perchè è slegata da diritti acquisiti durante la vita lavorativa – la pensione di cittadinanza; dall’altro è legata alla storia contributiva individuale e a scelte di vita personali che possono portare a scegliere di anticipare o posticipare la fine dell’attività produttiva – la pensione da lavoro.


La laicità.
Nel secolo scorso i socialisti, insieme ad altri, hanno guidato molte battaglie di civiltà che hanno sottratto alla morale pubblica, sancita dalle leggi, comportamenti e drammi individuali che è meglio che rimangano nell’autonoma determinazione degli individui, regolando invece per legge i diritti ed i doveri che scaturiscono dall’esercizio di queste nuove libertà.
In questo modo la politica è stata in grado di governare l’evoluzione del costume e della morale, secondo criteri di libertà individuale e di tutela dei più deboli.

Si tratta di una questione ancora aperta ma spesso dimenticata, dalla destra per conservatorismo culturale e dal centro sinistra perché si tratta di un tema scomodo che sembra porre un cuneo fra l’anima cattolica, quella laica e socialista e quella ambientalista della coalizione.

Oggi la scienza e l’evoluzione del costume pongono alla coscienza collettiva ed alle coscienze individuali nuove questioni sempre più difficili da risolvere.

Le possibilità di cura hanno reso discrezionale ed incerto il confine fra la vita e la morte.
Da quando a Franco e a Breznev fu impedito di morire per consentire la gestione politica della successione, la scienza ha galoppato ed oggi questioni simili si pongono quotidianamente alla gente comune: la vita di un congiunto affetto da malattia allo stadio terminale può interrompersi o protrarsi anche per lungo tempo, in funzione di una nostra scelta consapevole.

La ricerca è osteggiata in molti campi perché si avvicina all’origine della vita, perché si addentra sempre più in misteri ancestrali che tali si vorrebbe rimanessero.
Bisogna avere chiaro che porre limiti alla scienza in nome di principi morali, ci riporta ad un dibattito che si considerava chiuso da quando Galileo fu costretto all’abiura. La ricerca scientifica è la punta più avanzata del desiderio dell’uomo di conoscere il mondo in cui vive. Limitarla per ragioni etiche avrebbe implicazioni gravissime e porterebbe inevitabilmente a distorsioni ed abusi molto peggiori dei mali temuti a causa di un approccio liberale.

D’altra parte è innegabile che le coscienze di coloro che si trovano a dover affrontare questioni così delicate o che ne sono testimoni sono attraversate da dubbi ed incertezze profonde.

Dai tempi di Galileo molte cose sono cambiate.

In particolare, la velocità con cui le nuove conquiste si succedono è divenuta tale da costituire, in sé, una parte rilevante del problema, insieme alla facilità con cui si passa dalla scoperta scientifica all’innovazione tecnologica disponibile nella vita quotidiana.
L’evoluzione dei costumi, delle leggi e della morale è, infatti, indubbiamente più lenta e questa divaricazione fra innovazione e capacità culturale di assorbirla mentre rende velocemente obsoleti i modelli di comportamento tradizionali, scarica sul singolo la responsabilità di scelte a cui, spesso, non è pronto e per le quali non esistono riferimenti a cui ispirarsi.

Di tutto ciò la politica non si può disinteressare. Essa non può sottrarsi al dovere di confrontarsi con tutti i nuovi dilemmi angosciosi che l’evoluzione scientifica e dei costumi pongono a ciascuno di noi.

Una nuova identità politica, a maggior ragione, deve individuare alcuni criteri comuni per affrontare queste questioni.

E’ un tema delicato perché ogniqualvolta l’ideologia si è impossessata della morale per farne un proprio strumento si sono prodotti dei mostri.

Ognuno può derivare le proprie scelte da principi morali o religiosi a cui decide liberamente di rifarsi, nei limiti posti dai diritti di terzi e dalle leggi che regolano la vita collettiva.

E’, però, proprio il rapporto fra la potestà legislativa che viene affidata agli organismi istituzionali, la libertà delle scelte individuali ed i principi etici condivisi che queste possono violare ad essere oggi posto continuamente in crisi.

Nessuno contesta la libertà di religione, ma, se una religione impedisce ai propri adepti la trasfusione di sangue, possono i genitori precluderla al proprio figlio e decretarne la morte? Certo che no, come non può essere ammessa l’infibulazione o l’amministrazione di giustizie parallele, direttamente derivate da principi religiosi ed amministrate dalle relative autorità confessionali.
Questo però è semplice. Quando però ci si avvicina alla sfera più intima dei comportamenti individuali la questione diventa più complessa.

Il principio che sorregge la legislazione sull’aborto è davvero figlio della determinazione di un momento preciso in cui la vita inizia e deve quindi essere tutelata, con il complesso corollario di dispute teoriche fra scienziati di opposte posizioni ideali ?
O non si riconduce, invece, all’impossibilità della legge di normare situazioni che rientrano in una sfera individuale, non conoscibile dalla legge ed inviolabile, nella quale la scelta è comunque individuale, sanzionabile sotto il profilo etico ma al di fuori della portata della legge ?
Nessuno può sapere se una donna è incinta di un mese tranne la donna stessa. Nessuno vivrà il travaglio della scelta di accettare o meno la gravidanza se non la donna stessa. Nessuno porterà nel cuore le conseguenze della scelta di abortire se non, ancora, la donna stessa.
La legge non ha strumenti per intervenire in questo dilemma e quindi non ha legittimità. Imporre una scelta non significherebbe inibire il fenomeno, quanto spingerlo nella clandestinità, scaricando tutto il peso di una morale pubblica, spesso ipocrita e corresponsabile, sul soggetto più debole ed aprendo lo spazio ad una economia clandestina intollerabile.

D’altra parte però esiste un limite temporale oltre il quale il feto può sopravvivere senza la madre, può cioè nascere. Questo limite che cambia nel tempo e dipende dalla tecnologia disponibile, individua il confine estremo ed invalicabile del diritto di autodeterminazione.

La legge che non può sostituirsi all’etica individuale, può e deve, dunque, imporre limiti alla libertà individuale secondo una logica di equilibrio, di moderazione e di rispetto al fine di trovare un compromesso non ipocrita, fra morale collettiva, libertà individuale e diritti deboli, e incentivare comportamenti positivi: la legge ha la possibilità di intervenire sulle condizioni al contorno, rendendo meno drammatiche le conseguenze di una scelta favorevole alla vita del nascituro.

Non c’è altra strada che operare affinché le scelte individuali, negli ambiti sottratti alla potestà della legge, siano prese in assenza di costrizioni materiali o psicologiche condizionanti, avendo fiducia nell’emergere, a quel punto, della spinta positiva della vita e della speranza.

Altri casi, sempre di più, presentano alla legge il medesimo profilo della legislazione sull’aborto. Alcuni meritano di essere analizzati nel merito.

Uno è quello legato alla libertà della ricerca scientifica e dello sfruttamento economico delle scoperte scientifiche e dell’innovazione tecnologica, che spesso porta a risultati che pongono in crisi principi morali consolidati.

Che rapporto ci deve essere fra l’evoluzione delle capacità di cura, la necessità di sperimentare nuove terapie e l’inizio e la fine della vita. Quando la cura diventa accanimento terapeutico? Chi lo può stabilire? Chi ha la responsabilità di spostare questo sottile confine, col progredire della scienza? E’ veramente tutela della vita, consentire che corpi devastati dalla malattia rimangano nominalmente vivi, grazie solo a macchinari e a terapie sempre più evoluti capaci sì di garantire che il filo non si spezzi ma non di far ritornare la vita?

Interrogativi angosciosi che possono indurre nella tentazione di impedire la ricerca scientifica: nessuna ricerca, nessuna scoperta, nessuna nuova possibilità, nessuna angoscia.

Da qui nascono i tabù.

E’ il caso, anche, del rapporto fra la legge ed i comportamenti individuali verso sostanze che alterano i comportamenti o che nuocciono alla salute.
Quali sono i limiti della libertà individuale di bere alcol o fumare tabacco ma anche, se si vuole essere coerenti, di assumere sostanze stupefacenti?
Ci sono molte contraddizioni nei sentimenti collettivi, non solo nelle leggi, quando si affrontano questi temi. L’auto, ad esempio, è una delle principali cause di morte ma nessuno penserebbe di vietarne l’uso per questa ragione. Se ne regolamenta l’utilizzo: impedendo di guidare ai minori di diciotto anni, ponendo dei limiti di velocità, vietando la guida in stato di ebbrezza e così via.
Nessuno pensa neppure di vietare la commercializzazione di auto che superino i limiti di velocità ammessi!

Il commercio di sostanze che creano dipendenza genera un uso che riduce la libertà di scelta ed origina un vantaggio commerciale inaccettabile di chi vende verso chi compra. Tutto ciò genera giusta indignazione.
Si è, poi, scoperto che le multinazionali del tabacco hanno progettato e messo in commercio sigarette particolari in grado di generare dipendenza nel consumatore, traendone vantaggi enormi ai danni di persone artatamente rese incapaci di assumere decisioni consapevoli in merito alle conseguenze del fumo per la loro salute. Nessuno si è scandalizzato.

E’ ora di avviare una riflessione seria sul ruolo della legge, sul rapporto fra libertà e responsabilità individuale, tra interessi economici e dignità dell’uomo, fra singolo e rispetto della collettività.
Non è infatti impedendo per legge di guardare, di provare e di sperare che l’umanità smetterà di farlo.

Il compito della politica non è di dire se sia giusto o meno fumare, quando sia lecito staccare le macchine che tengono in vita artificialmente un paziente o se debbano esistere tabù inviolabili per la ricerca scientifica, quanto di accompagnare il processo di evoluzione dei costumi, di sviluppo della scienza e di convivenza di modelli etici diversi, individuando i rischi che comportano, i soggetti deboli o indifesi che ne potrebbero essere vittime, le tutele ed i compromessi necessari per mantenere l’unità della società e garantire un livello accettabile di equità, di sicurezza e di dignità.

Proponiamo di lanciare tre battaglie simboliche che obblighino il paese a riflettere ed interrogarsi:

riconoscimento del valore legale del testamento biologico, cioè del diritto di ciascuno di porre a priori dei limiti all’eventuale accanimento terapeutico su di sé;

equiparazione delle droghe leggere all’alcool e al tabacco e divieto di vendita di tutti ai minori;

libertà di ricerca sulle cellule staminali, controllo pubblico delle modalità di attivazione della ricerca e rigida regolazione dello sfruttamento commerciale dei risultati.

Tre battaglie simboliche finalizzate a mettere in discussione una legislazione ormai inadeguata a fornire un riferimento efficace alle scelte che sempre più spesso si presentano nella vita quotidiana di molte persone.


Per una politica partecipata.

La legittimità dei partiti non sta nell’intelligenza dei leader o nell’acutezza delle analisi quanto nella capacità di rappresentare istanze ideali, interessi materiali e sentimenti di una parte della popolazione.
Chiunque può legittimamente parlare di globalità, di solidarietà e di laicità, essendo valutato per la qualità delle posizioni espresse. Per un partito questo non può bastare: è essenziale che le idee e le proposte concrete siano effettivamente rappresentative di un sentire presente nella società e che, di questa capacità di rappresentanza vi sia una traccia concreta nell’operato, nelle regole e negli assetti interni del partito.

I partiti sono riconosciuti dalla Costituzione come una componente centrale della vita democratica del paese ed è opportuno oggi, dopo un decennio di sostanziale delegittimazione, riaffermarne l’importanza decisiva, all’interno di un democrazia rappresentativa.

Affermare un principio richiede però anche la volontà di definirne in concreto i criteri attuativi.

Per molti anni dalla nascita della Repubblica, che cosa fosse un partito non è mai stato in discussione: tutti i partiti di allora condividevano sia l’idea di democrazia interna sia un radicamento forte sul territorio che garantiva un contatto costante con la gli aderenti che erano una parte significativa e riconosciuta della popolazione.

Progressivamente questo assetto si è indebolito sia per la progressiva chiusura dei partiti sia per le trasformazioni sociali che modificavano radicalmente i rapporti sociali sul territorio.

La crisi del ’92 ha definitivamente spazzato il modello di organizzazione della politica preesistente senza però tracciare in modo consapevole un quadro nuovo. I partiti superstiti e quelli nuovi hanno quindi affrontato la successiva delicata fase politica senza una chiara definizione della loro rappresentatività e quindi della loro legittimità sostanziale.

L’assenza di una legge che definisca, in attuazione della Costituzione, i compiti e le caratteristiche delle associazioni partitiche, poco rilevante quando era chiaro cosa fosse un partito, è oggi sempre più fonte di distorsioni ed abusi che inquinano il regolare svolgimento della vita democratica.

Questo pone due questioni, l’una di carattere formale ed una sostanziale.

La prima porta alla necessità di definire per legge che cosa sia un partito, sottraendo alla arbitrarietà degli statuti o delle scelte di ciascun soggetto alcuni elementi fondamentali, a tutela dell’interesse collettivo.

Si tratta di definire con chiarezza che i Partiti sono gli unici soggetti abilitati alla presentazione di liste alle elezioni politiche, sia in ambito nazionale che regionale.
Tale unicità deriva da alcuni vincoli posti all’organizzazione della vita interna dei partiti stessi. Essi possono essere ricondotti ai seguenti:
Democrazia interna: il Partito appartiene agli iscritti; la linea e la composizione degli organismi direttivi sono decisi attraverso consultazioni democratiche degli stessi, con frequenza non superiore a quella degli organismi istituzionali; le minoranze sono tutelate sia nelle liste elettorali che nell’utilizzo delle risorse disponibili;
Trasparenza: le liste elettorali per le elezioni politiche, sia regionali che nazionali ed europee, sono approvate a scrutinio segreto, almeno sei mesi prima della prima data utile prevista per le elezioni a cui si riferiscono; i bilanci sono certificati da un organismo indipendente ed approvati a maggioranza;
Garanzia: lo statuto definisce le regole della vita interna del partito e definisce i valori fondanti su cui si basa la vita associativa; è approvato e modificato con maggioranza dei 2/3; la sua violazione è impugnabile di fronte alla magistratura.

Se la questione sembra irrilevante, si pensi che molti dei partiti di oggi sono nient’altro che associazioni di proprietà dei fondatori e quindi senza alcuna democrazia interna. Ad essi spetta la determinazione di candidature importanti per la vita dell’intera nazione e che avvengono, quindi, solo per criteri di amicizia o di affidabilità soggettiva.

La questione sostanziale riguarda la capacità dei partiti di attivare forme reali di partecipazione, di svolgere, cioè quella funzione di raccordo fra il paese e le istituzioni, di selezione e formazione delle classi dirigenti e di rappresentanza di interessi reali legittimi che ne giustifica l’esistenza e l’importanza Costituzionale.

Storicamente la struttura organizzativa dei Partiti era centrata sul concetto di territorio e da questo derivava per sintesi successive: la sezione, la federazione provinciale o regionale e la direzione nazionale.
Oggi questa organizzazione, di per sé, non è più un canale in grado di assolvere i compiti che le sono demandati. Le sezioni sono vuote, frequentate solo da una ristretta cerchia di attivisti. L’informazione politica arriva ai cittadini sostanzialmente dai media, mentre manca totalmente o si va estinguendo il verso opposto della comunicazione: non c’è più alcuna reale occasione di partecipazione.
Sono i sondaggi a restituire alla politica l’orientamento della pubblica opinione, risolvendo, però, solo una parte del problema: un conto è, infatti, rilevare asetticamente un’opinione e ben altra cosa è discutere, aprire un confronto con le persone.

Non c’è coinvolgimento diretto delle intelligenze e delle energie disponibili ma non c’è neppure possibilità di far cambiare opinione, di fare apprezzare punti di vista diversi; manca uno strumento importante di individuazione, formazione e promozione di nuovi quadri dirigenti; manca soprattutto un contesto a cui i dirigenti dei partiti debbano rendere conto delle scelte che compiono e delle posizioni che assumono.
L’unico momento di verifica è quello elettorale, ogni cinque anni, in cui si assommano molti fattori diversi che rendono molto poco diretto il feedback sulla classe politica dirigente.

Il potere rimane così tutto nelle mani del vertice politico, non solo nazionale ma anche, per le specifiche responsabilità, periferico.

Prevalgono inevitabilmente le tendenze blandire l’opinione pubblica per come si esprime nei sondaggi ed a sfuggire sistematicamente ogni confronto puntuale, rischioso e tutto sommato inutile. D’altra parte, ogni obiezione individuale o di piccoli gruppi di cittadini, ben poco può rispetto all’opinione generale rilevata da un sondaggio.

Tutto il mondo dei media tenta, ormai da anni, di coinvolgere sempre più strettamente il pubblico e di associarlo nella realizzazione e nella conduzione degli eventi (basti pensare all’uso del telefono abbinato ai programmi televisivi), sia per legare maggiormente il pubblico al programma, migliorando l’ascolto, sia per arricchire i contenuti con personaggi nuovi, storie originali e coreografie più varie.
Nella politica, viceversa, non esistano casi reali di tentativi innovativi di stimolare la partecipazione dei cittadini. E’ come se si fosse rinunciato a riconoscere che la massa informe ed anonima che si esprime nei sondaggi è composta da individui singoli, dotati di capacità intellettive e professionali e di iniziativa.

Va bene così, con un mondo politico chiuso che si evolve per cooptazioni e vive con ostilità ogni reale spinta alla partecipazione attiva dei cittadini.

Anche da questo nascono i girotondi, i movimenti e le associazioni varie, risposte speculari all’isolamento della politica.
Essi tendono a cortocircuitare la dinamica della partecipazione, contrapponendo al potere istituzionale in alcuni casi le piazze,in altri centri di influenza privati ma sempre senza mediazioni democratiche. Sono destinati a generare una ulteriore disillusione ed un nuovo distacco dalla politica, per l’incapacità di produrre risultati o per la facilità con cui vengono strumentalizzati; o, peggio, a instaurare una consuetudine plebiscitaria che, nata a sinistra, diventerà facilmente strumento di involuzione e di conservazione.

La risposta alle difficoltà della democrazia rappresentativa non passa attraverso la scorciatoia illusoria di forme di democrazia diretta o plebiscitaria. D’altra parte, la democrazia indiretta viene stritolata dal circuito media-sondaggi e da una certa pigrizia interessata del ceto politico professionale.

Non c’è alternativa alla ricostruzione di partiti, di destra, centro, sinistra. Partiti adeguati ai tempi e capaci di raccogliere i contributi dei cittadini e di aprire un confronto individuale con essi.

Oggi sono disponibili ed ormai entrati nelle abitudini quotidiane di milioni di italiani, strumenti intrinsecamente dotati di una capacità interattiva di massa.
Internet consente già oggi ed in molti ambiti professionali, di creare comunità di utenti che discutono, collaborano e sono interrogati dalle imprese per indirizzare le politiche di sviluppo aziendale.

E’ evidente che questa è la strada e che quanto serve, sotto il profilo tecnologico, c’è già.

E’ altrettanto chiaro che internet ridurrà i costi della politica e il potere condizionante di chi governa l’accesso ai media. D’altra parte, la politica ha sempre sfruttato per prima e intensamente i mezzi di comunicazione più avanzati che ciascuna epoca ha reso disponibili: i giornali, la radio, la televisione.

Con internet non sta succedendo e solo in parte ciò dipende dall’incapacità di apprezzare lo strumento e di sfruttarlo nelle sue potenzialità. Non è, però, un problema di natura tecnica.

C’è una grandissima differenza fra sfruttare internet come strumento di comunicazione ed utilizzarlo come strumento di partecipazione democratica istituzionale.

Ciò che cambia sono i diritti di chi partecipa.

Usare internet come strumento di partecipazione politica significa riconoscere uno status e dei diritti connessi alla partecipazione. Come tradizionalmente avviene per gli iscritti, i rapporti su internet configurano una partecipazione al partito, la possibilità di iscriversi e di concorrere, in rete, al dibattito interno che porta alla scelta dei dirigenti ed alla formazione delle decisioni, fino alla espressione di un voto.
Internet può aprire una nuova fase in grado di cambiare profondamente il rapporto fra le elites ed i cittadini, ridando corpo e significato al dovere di spiegare, di convincere, di ascoltare, secondo forme codificate in uno statuto che sancisce diritti e doveri di tutti.

Come nel ’46, è di nuovo possibile ipotizzare partiti con diversi milioni di iscritti attivi e dunque dotati di una rappresentanza reale e verificabile. E’ possibile intravedere una strada che sottragga la democrazia a quel percorso intriso di leaderismo, populismo e demagogia che le regole e gli strumenti attuali sembrano spesso rendere inevitabile.

Per questo abbiamo deciso di porre queste tesi sommarie disponibili su internet, di definire le regole di partecipazione al dibattito e di assumerci, come partito il dovere di ascoltare, rispondere e tenere in conto i suggerimenti, le obiezioni e le critiche.

La grande rete non sostituirà mai le comunicazioni tradizionali: né quelle interpersonali né quelle mediatiche. Allo stesso modo, l’organizzazione tradizionale dei partiti, la sezione, gli organismi provinciali, regionali e nazionali, devono continuare a costituire parte essenziale dell’attività politica in rapporto diretto con le istituzioni di pari livello.
Internet non può costituire la via di fuga dalla democrazia rappresentativa verso il mondo immaginario di una nuova agorà telematica.
Può, invece, contribuire in modo rilevante a quella rottura di consuetudini, di idee e di relazioni che oggi si presenta come un passaggio obbligato per la sopravvivenza della democrazia che abbiamo conosciuto anche nel secolo appena iniziato.

La casa dei riformisti, il nuovo partito da costruire dovrà fare propria anche questa grande opportunità, accettando i rischi ad essa connessi, senza avere né paura né diffidenza nei confronti dei frutti dell’ingegno dell’uomo.

Come si addice ad un partito di progresso e non di conservazione.

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