3-5 febbraio 2006, Fiuggi - Tesi per il IV Congresso nazionale dei Socialisti democratici italiani (bozza non corretta)

03 febbraio 2006

La Rosa nel Pugno è la forza politica nella quale lo Sdi è impegnato sin dalla decisione assunta a larghissima maggioranza dal Consiglio Nazionale del 6 novembre scorso. Questa scelta, che il Congresso Nazionale dello Sdi è chiamato a ratificare e ad arricchire di contenuti politici e programmatici, non è rivolta solo alla presentazione di una lista alle prossime elezioni politiche, ma a sviluppare un percorso federativo rivolto alla creazione di una nuova formazione laica, socialista, liberale e radicale.
La Rosa nel Pugno trova il suo fondamento “Progetto per le libertà”, così come è stato definito nella convenzione di Fiuggi, alla quale hanno partecipato come soggetti promotori lo Sdi, la Federazione dei giovani socialisti, i Radicali italiani e l’Associazione Luca Coscioni. Si tratta di un disegno strategico che ha come esplicito riferimento Loris Fortuna, Tony Blair e Luis Zapatero, tre leader socialisti che esprimono nella sinistra una forte carica d’innovazione.
La Rosa nel Pugno non vuole essere una pura e semplice sommatoria di socialisti e radicali, ma un soggetto che rappresenta una grande novità nella scena politica italiana. Questa nuova forza politica si colloca strategicamente nel centro sinistra, di cui vuole essere un’importante risorsa per contribuire a sconfiggere le destre e a rinnovare il nostro Paese.
Sono i temi della difesa della laicità dello Stato quelli che con maggiore incisività e con maggiore influenza hanno caratterizzato i primi importanti passi de la Rosa nel Pugno. La laicità non deve essere intesa come una questione settoriale, separata dal contesto della nostra vita politica nazionale. Non è, infatti, concepibile una società che possa essere avanzata nel campo dell’economia, nel quale hanno sempre più peso la ricerca scientifica, l’innovazione tecnologica e la formazione professionale, se persistono profonde arretratezze nella cultura, nel costume, negli stili di vita e nella morale. L’aumento incessante dei flussi migratori e il conseguente multiculturalismo, la rivoluzione demografica con i cambiamenti derivanti nell’organizzazione sociale e il nuovo ruolo delle donne sono fenomeni che non si aggiungono alla realtà esistente ma modificano i modelli di vita, provocano trasformazioni nelle quali si manifesta uno stretto rapporto tra cultura ed economia. Progresso economico e progresso civile nell’epoca della globalizzazione, ancor più di quanto è avvenuto nella rivoluzione industriale e in altre fasi evolutive della storia dell’umanità, sono strettamente collegati.
Il fondamentalismo, che è cosa ben diversa dalla religione, è oggi il più grande e temibile avversario della convivenza civile su scala planetaria e nei singoli stati, e rappresenta un grave e potente ostacolo allo sviluppo economico e civile. Questo fenomeno ha assunto aspetti assai preoccupanti e gravi nel mondo islamico poiché è dall’humus culturale del fondamentalismo, che è sorto il terrorismo di marca religiosa, tragico protagonista dell’attentato alle Torri gemelle a New York e di quelli che hanno colpito Madrid, Londra e Beslan. Non tutti i fondamentalismi presentano gli stessi aspetti, né possono essere accomunati sotto lo stesso segno. Alla base di qualsiasi fondamentalismo c’è però un comune attacco alla modernizzazione, alla secolarizzazione della vita pubblica e civile, ai principi della democrazia liberale. Il fondamentalismo rifiuta di porre sullo stesso piano e con gli stessi diritti, tutte le concezioni filosofiche o religiose, e contesta la libertà di ricerca scientifica e la centralità della scuola laica e pubblica, finanziata dallo Stato. Il fondamentalismo contesta che la propria verità sia trattata come un convincimento o una fede alla stregua di tutte le altre, chiede che si facciano coincidere peccati e reati nelle legislazioni degli Stati, pretende che i propri simboli siano esposti, a differenza di tutti gli altri, negli edifici pubblici e nelle scuole. Il fondamentalismo implica, quindi, che la religione prevalente in una società sia trattata, di fatto e di diritto, come una religione di Stato, alla quale vanno concessi primati e privilegi (non da ultimi, quelli di carattere economico e fiscale). Liberalismo e fondamentalismo, quindi, sono antitetici ed inconciliabili.
L’ondata fondamentalista ha investito, quali più, quali meno, tutte le confessioni religiose: dai mussulmani alle sette protestanti, sino alla Chiesa cattolica. Sono davvero poche le confessioni religiose che ne sono restate completamente immuni. È del tutto evidente che condurre una vita ispirata all’adesione integrale ad un credo religioso, finché è praticata liberamente a livello individuale e in singole comunità, (l’esempio più rilevante è quello dei monaci e delle suore nella clausura) non contrasta con i principi della democrazia liberale. Diventa, invece, un potente fattore di autoritarismo e financo totalitarismo se le autorità religiose vogliono imporre codici di condotta nella vita pubblica e nella sfera privata di ciascun cittadino.

Il fondamentalismo è la premessa dei conflitti religiosi su scala mondiale e in ciascuno stato: quando il confronto avviene tra diverse verità, invece che tra differenti opinioni, si possono determinare tensioni di gravissima portata. In questo contesto si rivelano evidenti contraddizioni: laddove una religione è prevalente, s’invocano primati e privilegi; laddove, invece, è minoritaria si chiede la parità dei diritti. Da questa constatazione si evince che i principi della democrazia liberale sono gli unici che possono assicurare a livello universale la libertà religiosa, senza alcuna odiosa discriminazione. Del resto, gli stessi strumenti concordatari possono essere utili, o addirittura indispensabili, per assicurare un minimo grado di libertà religiosa nei paesi che hanno regimi totalitari o, comunque, autoritari; dovrebbero essere, invece, superflui nei paesi che sono democratici e liberali.

Affermare la libertà di tutti i cittadini, contro qualsiasi primato o privilegio, è la forma più elevata per rispettare qualsiasi indirizzo filosofico e religioso. La laicità dello Stato non è una religione civile che si contrappone ad altre religioni. Lo Stato etico contraddice i principi del pluralismo, alla base della democrazia liberale. I valori condivisi sono quelli contenuti nelle Costituzioni democratiche. La libertà delle cittadine e dei cittadini è il baluardo contro ogni pretesa del fondamentalismo.
In questo quadro, falso è l’antagonismo tra laici e cattolici. Tra i laici, infatti, si devono annoverare credenti e non credenti, compresi i cattolici liberali contrapposti ai cattolici integralisti. La vera antitesi è tra laici e clericali, tra laici e fondamentalisti. Del resto nei partiti laici, in Europa e nel mondo, militano anche con responsabilità di rilievo uomini e donne che praticano differenti culti religiosi.

In Italia, anche quando esisteva la Dc, non tutti i cattolici vi aderivano. Nel movimento socialista, ieri come oggi, vi era e continua ad esserci una forte presenza di cattolici. Descrivere la Rosa nel Pugno come una forza che contrasta il sentimento e la fede religiosa è una caricatura del tutto falsa. Noi, come Sdi, ci siamo impegnati fortemente, con il nostro sostegno al progetto dell’Ulivo, per superare gli storici steccati che hanno diviso i laici dai cattolici sin dal 1870 con la presa di Porta Pia. Noi avevamo ritenuto che con il collasso del vecchio sistema politico e la fine dell’unità politica dei cattolici democratici, provocata dalla dissoluzione della Democrazia Cristiana, si potesse finalmente voltare pagina rispetto alla complessa e travagliata storia dei rapporti tra Stato e Chiesa. Così si poteva ipotizzare che si fossero poste le premesse per la completa libertà dei cattolici nel campo delle scelte politiche. Questa era la premessa fondamentale per poter avviare la costruzione di un nuovo partito riformista e democratico.
Del resto, lo Sdi, subito dopo il collasso del vecchio sistema politico, si era impegnato nella ricerca di nuove aggregazioni, aperte al contributo dei cattolici democratici. Non ci siamo mai, infatti, mossi per una pura e semplice ricostruzione del vecchio Psi o del vecchio Psdi. In questo orizzonte i socialisti hanno dato vita a intese ed alleanze che si sono sempre mosse verso l’unità dei liberali riformatori, dei cattolici democratici e degli ambientalisti non fondamentalisti.
Questi percorsi, dimostrano come i socialisti si siano sempre stati alla ricerca di un più ampio soggetto politico, senza mai porre discriminanti ideologiche.
Nei confronti dello Sdi è stata mossa la critica di avere avuto nella propria storia recente posizioni oscillanti, aperte a qualsiasi aggregazione pur di riuscire a superare lo sbarramento del 4%. A parte il fatto che impegnarsi per avere un’adeguata rappresentanza parlamentare non può essere considerata una cosa da sottovalutare, resta comunque un filo ideale comune nelle scelte che lo Sdi ha compiuto.
Infatti, mettendo insieme le diverse aggregazioni che i socialisti hanno via via contribuito a realizzare, si sarebbe potuto immaginare un processo che avrebbe potuto portare alla formazione di una nuova forza politica con la partecipazione dei Democratici di Prodi, Ad, Rinnovamento Italiano, i Verdi e lo Sdi. Non era questo un disegno astratto e velleitario, tanto è vero che sono stati i popolari, dopo la sconfitta subita alle elezioni europee del 1999, a riuscire a creare con i Democratici di Prodi, la lista Dini, gli ambientalisti di Ermete Realacci, la Margherita. Certo questo obiettivo non sarebbe stato raggiunto se non vi fosse stato l’impulso di Romano Prodi e di Arturo Parisi e il traino esercitato dalla candidatura a premier di Francesco Rutelli.
Nella nostra impostazione non vi sono stati, solo scopi elettorali, ma vi è stata sempre la disponibilità a costruire una grande formazione di progresso che fosse in Italia l’equivalente delle grandi socialdemocrazie europee.
Per questo motivo, ci siamo impegnati in ben due congressi a lavorare per la costruzione di un moderno partito riformista. Avevamo colto nel progetto dell’Ulivo, portato avanti da Romano Prodi, un’idea di fondo che abbiamo condiviso e sostenuto: creare una grande forza che rappresentasse il timone riformista di una più ampia e coesa alleanza di centro sinistra, nella quale potessero convivere componenti diverse e collocate all’estrema sinistra. Non siamo stati certo noi a interrompere il processo, rivolto a creare questa grande forza riformista, che si era avviato con la presentazione della lista “Uniti nell’Ulivo” alle scorse elezioni europee e successivamente nella maggiore parte delle regioni italiane. È stata la Margherita (con un largo consumo interno ma con il voto contrario della corrente che fa capo ad Arturo Parisi) ad avere segnato la fine dell’Ulivo come progetto per l’immediato futuro. Non si è trattato però, di una scelta tattica, di una pausa imposta dalle circostanze, di un impulso a rallentare un processo che era avvertito come troppo rapido e veloce. Lo stop alla presentazione della lista “Uniti nell’Ulivo” nella parte proporzionale della Camera dei Deputati, come era previsto nella legge maggioritaria, è avvenuto in coincidenza con la netta presa di posizione di Francesco Rutelli a favore dell’astensione nel referendum sulla fecondazione assistita, in sintonia con le posizioni più arretrate della Chiesa espresse dal presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Camillo Ruini. L’arresto del processo di costruzione dell’Ulivo e l’assunzione di una posizione integralista sono state le due facce di una stessa medaglia.

Così la Margherita, sotto l’impulso di Francesco Rutelli e contro il disegno di Prodi, ha avuto una mutazione genetica, trasformandosi da prototipo dell’Ulivo, a partito a prevalente connotazione confessionale. Questo cambiamento non poteva non colpire al cuore il progetto prodiano poiché è inconcepibile solo poter ipotizzare la costruzione di un nuovo partito democratico e riformista al cui interno vi sia una componente fondamentale che si richiami disciplinatamente alle indicazioni di voto e alle prescrizioni morali dettate dalle gerarchie ecclesiastiche.

La crisi del progetto dell’Ulivo non è avvenuta solo per ragioni di concorrenzialità della Margherita nei confronti della Quercia, che pure ci sono state e continuano ad esserci, ma si è dispiegata in tutta la sua portata sul tema fondamentale della laicità dello Stato. Noi, come Sdi, siamo stati tra i primi ad accorgerci che era tornato con prepotenza nell’agenda politica il tema dei rapporti tra Stato e Chiesa, come hanno dimostrato le continue e ripetute prese di posizione della Cei praticamente su tutte le questioni della vita politica italiana. Era, quindi, del tutto conseguente per i socialisti, che della laicità dello Stato hanno sempre fatto un principio fondamentale, attestarsi con coraggio e determinazione su questo nuovo ed insieme antico fronte che si è aperto. Ed era del tutto naturale che su questa strada ci incontrassimo con i radicali, insieme ai quali abbiamo combattuto tante importanti battaglie, a cominciare da quella sul divorzio e sull’aborto.
La storia delle relazioni tra socialisti e radicali non è stata sempre lineare: ha conosciuto anche fasi di tensioni e di polemica. I radicali hanno sempre perseguito politiche fondate più su singoli temi, sulla base di un consenso ad hoc raccolto in modo trasversale tra gli stessi cittadini prima che tra le forze politiche. Questo speciale approccio politico, che ha contraddistinto le iniziative dei radicali, si è rivelato spesso di grande efficacia nell’influenzare positivamente l’opinione pubblica, assicurando in alcune fasi una notevole visibilità. Procedere, però, sui singoli temi, rende assai difficile capitalizzare il consenso elettorale, che necessita invece di una continuità politico-istituzionale. È stato proprio l’avvento del bipolarismo, per il quale i radicali si sono sempre battuti con un esplicito riferimento alla democrazia americana, a richiedere un salto di qualità nella strategia e nella tattica dei radicali, a cominciare da una netta e chiara scelta di schieramento. La mancata presenza dei radicali nel Parlamento italiano ha fortemente indebolito le battaglie per la laicità. Infatti, se nella cosiddetta prima Repubblica esisteva un Parlamento con una maggioranza laica che spostava continuamente avanti la frontiera dei diritti civili, per cui il fronte cattolico integralista doveva ricorrere al referendum per contrastare decisioni che avversava, dopo il collasso del vecchio sistema politico la situazione si è completamente rovesciata: da tempo in Parlamento esiste infatti una maggioranza trasversale che sostiene le posizioni più arretrate delle gerarchie ecclesiastiche, contro le quali sono i laici a dover ricorrere al referendum, arma oramai spuntata poiché è dal 1995 che non si raggiunge il quorum. Questa situazione sposta la prima e principale battaglia sulla laicità, dal voto nei referendum al voto nel Parlamento.
Questo nuovo scenario, dalla crisi dell’Ulivo alla necessità di una nuova presenza laica in Parlamento, ha creato le condizioni di un incontro strategico tra i socialisti e i radicali. A tutto ciò si deve aggiungere – e non è cosa di poco conto – che Berlusconi, con la sua attività di governo, ha deluso tutte le aspettative per una sorta di rivoluzione liberale che nascesse dalla vittoria elettorale del 2001. Così è avvenuto che settori radicali ma anche socialisti, sono stati sospinti a guardare con sempre maggiore interesse al centro sinistra.
Del resto per i socialisti la collocazione naturale non poteva e non può essere che nel centro sinistra. I radicali non sono stati mai organici alla maggioranza o al governo di centro destra: la vocazione storica di Marco Pannella è stata sempre quella di un liberale riformatore che si è battuto contro le destre clericali. Questo stato di cose ha configurato un’occasione di notevole portata per i radicali e per i socialisti: unirsi alla scopo di mettere in campo un’assoluta novità politica che è rappresentata dalla Rosa nel Pugno. Si tratta, quindi, di un progetto che non è effimero, né contingente. In questo quadro la stessa unità dei socialisti non può essere concepita come un processo che deve essere promosso ed attivato in modo separato dalla costruzione della “Rosa nel Pugno”. Non c’è, quindi, contraddizione tra unità socialista e unità liberalsocialista. I socialisti, se vogliono essere coerenti con la propria storia, la propria memoria e la propria tradizione, non possono rinchiudersi in una dimensione nostalgica per cercare di rinverdire i fasti del passato o coltivare rimorsi o vendette, ma devono guardare con coraggio – come si diceva una volta agli albori del movimento operaio – all’avvenire.
La Rosa nel Pugno è una aggregazione libersocialista, dove confluisce la tradizione socialista e quella liberale nella quale si è collocata sin dal suo inizio, l’esperienza dei radicali di Pannella. Il liberalsocialismo ha profonde radici. Un lungo filo di storia comune (dimenticato soltanto nei periodi di egemonia comunista) esiste, infatti, tra socialisti e liberali: dal meridionalismo di Salvemini al revisionismo dei fratelli Rosselli, da Giustizia e Libertà al Partito d’Azione, sino all’europeismo lungimirante di Colorni ed Ernesto Rossi. Tutto questo patrimonio è stato già riscoperto e valorizzato dal nuovo corso socialista nella seconda metà degli anni ’70.
Il liberalsocialismo ha profonde radici in Europa, perché lo stesso Stato Sociale nacque in Gran Bretagna, dalla collaborazione tra socialisti (Atlee) e liberali (Beveridge), oltre che dalla tradizione della scuola fabiana, perché ai suoi principi si sono ispirati tutte le politiche economiche recenti dei socialdemocratici europei (da Blair a Zapatero a Schroeder). La stessa “Terza via” tra liberismo selvaggio e statalismo burocratico, contenuta nel manifesto a suo tempo lanciato da Tony Blair e da Gerard Schroeder, può essere ricondotta in Italia al filone storico e culturale del liberalsocialismo. Il liberalsocialismo è, quindi, il punto di snodo di tutti i socialisti che si collochino modernamente nel centro sinistra. La Rosa nel Pugno è il luogo di riunificazione dei socialisti, per i quali è terminata la stagione nostalgica delle recriminazioni riguardanti il passato e si è aperta la stagione delle innovazioni riguardanti il futuro.
I socialisti comunque, traggono alimento dalla propria storia, attraverso una lettura critica dei suoi differenti periodi. Questa fonte di ispirazione ideale non può, tuttavia, consistere in riproposizioni meccaniche di fasi politiche del passato nel mondo di oggi e in quello di domani poiché, a prescindere dal valore e dei limiti di ciascuna esperienza, grandi sono stati e continueranno ad essere le trasformazioni sociali, economiche e culturali su scala nazionale, europea e internazionale.
La Rosa nel Pugno è già oggi una componente fondamentale del centro sinistra e una risorsa indispensabile per sconfiggere le destre. Questa caratteristica rafforza l’impegno nostro per la difesa della laicità dello Stato perché noi siamo convinti che dalle destre non si potranno mai ottenere passi in avanti significativi nella direzione di una più larga estensione dei diritti civili. È pur vero che Gianfranco Fini ha mantenuto un profilo laico, di cui gli va dato atto, ma queste posizioni non hanno riscontro positivo neppure in An, dove il ministro della Salute Storace si è fatto interprete e condottiero delle battaglie portate avanti dai settori più oscurantisti del mondo cattolico contro la legge sull’aborto. Sconfiggere le destre è, quindi, anche dal punto di vista della laicità dello Stato, il principale imperativo. Nel corso di questa legislatura, su questo terreno si sono registrati gravi arretramenti, a cominciare in Parlamento da quello della difesa della centralità della scuola pubblica statale. Il centro destra, sotto l’impulso del ministro Moratti, ha favorito in modo diretto o indiretto la scuola privata a detrimento di quella pubblica.
Noi socialisti abbiamo sempre considerato la scuola fondamentale per elevare i livelli di civilizzazione del nostro Paese.
Nell’epoca nuova che si è aperta con la globalizzazione, la qualità e la qualificazione sono diventate, ancora più di ieri, fattori essenziali di uno sviluppo sostenibile, rispettoso dell’ambiente e orientato a valorizzare al massimo le risorse umane. Tanto più importante è la scuola per affrontare la questione del Sud d’Italia. Con una maggiore qualificazione, con l’insediamento di nuovi centri avanzati di ricerca, con una valorizzazione delle università, si può creare un nuovo ambiente che sia refrattario ed antagonista verso le mafie come organizzazioni criminali e illegali di lavoro alternativo. Tutto ciò può creare quell’impulso necessario per far compiere al Sud quel salto di qualità nel campo delle infrastrutture, dei servizi, della sicurezza nel territorio che è sempre più urgente.

Il centro destra, condizionato fortemente dalla Lega, non è riuscito a fare alcuna politica per il Sud. Anzi, sono stati compiuti dei veri e propri passi indietro. Ora, Berlusconi con evidenti intenti propagandistici prospetta la costruzione del Ponte di Messina come uno strumento miracoloso che potrebbe rappresentare una potente leva per lo sviluppo di tutto il Mezzogiorno. Invece, se fosse realizzato senza lo sviluppo di una rete di comunicazione diffusa ed efficiente, il Ponte di Messina rischierebbe di diventare, come si diceva una volta per singole imprese collocate nel Mezzogiorno, una cattedrale nel deserto.
La laicità, quindi, non è solo un tema di principio, non comporta solo l’estensione dei diritti civili, ma attraverso la formazione e la libertà di ricerca riguarda il destino complessivo dell’economia del nostro Paese nel nuovo mondo che avanza.
Scuola e lavoro sono, nella società dell’era della globalizzazione, un binomio inscindibile. La sfida del lavoro si vince soprattutto sul terreno della formazione, dell’istruzione e della ricerca. Si potrebbe persino pensare di integrare strettamente il ministero del lavoro e quello dell’istruzione e della ricerca, tanto le due questioni appaiono interdipendenti. Per sintetizzare un programma per l’Italia, prendendo spunto da Tony Blair, si può dire: “Al primo posto, la scuola pubblica; al secondo, la scuola pubblica; al terzo, la scuola pubblica”.
Su questi temi, il centro sinistra appare talvolta debole e incerto, condizionato da troppi conservatorismi che vengono da settori integralisti del mondo cattolico come dall’estrema sinistra. Basterebbe questa constatazione per verificare come non sia affatto nata quella nuova forza democratica e riformatrice che corrispondeva al progetto di Prodi, capace di imprimere una forte innovazione. L’improvvisa conversione della Margherita, che ha accettato di presentare alla Camera – e comunque non al Senato – una lista assieme ai Ds, non è nata da una profonda riflessione, ma appare solo un atteggiamento tattico per fronteggiare le conseguenze del successo che Romano Prodi ha avuto alle primarie. È più una scorciatoia elettorale che la ripresa di un più ampio disegno strategico. Noi siamo, infatti, convinti che un nuovo partito democratico non possa nascere ed affermarsi senza una chiara riaffermazione della laicità dello Stato al riparo dall’influenza delle gerarchie ecclesiastiche.
La Rosa nel Pugno si propone di essere uno stimolo positivo nei confronti del centro sinistra sui temi dei diritti civili.
Nei confronti dell’Unione, la Rosa nel Pugno esprime alcuni punti programmatici che sono fondamentali e che speriamo vengano accolti da tutto il centro sinistra. Noi abbiamo chiamato questa piattaforma: minimo sindacale. Si tratta di un impegno da parte di tutto il centro sinistra affinché non sia rimessa in discussione la legge sull’aborto, sia introdotto il testamento biologico nel quale ciascun cittadino esprima le sue volontà nel caso in cui si trovi in una condizione di perdita di consapevolezza; sia difesa la centralità della scuola pubblica statale in modo tale che non sia penalizzata da uno spostamento di risorse alle scuole paritarie e private, contrario a precisi dettami della nostra Costituzione. Noi comunque, come Rosa nel Pugno, ci proponiamo di continuare a condurre in Parlamento e nella società italiana grandi battaglie per l’estensione dei diritti civili, per la modernizzazione del costume e degli stili di vita.
Consideriamo fondamentale contrastare il proibizionismo in materia di droghe leggere e avviare una sperimentazione di distribuzione controllata di eroina (come avviene in Svizzera e Olanda) con la consapevolezza che la droga alimenta oggi la grande criminalità internazionale; il riconoscimento dell’eutanasia come un diritto che deve essere riconosciuto a tutti i cittadini in insostenibili condizioni di sofferenza e di dolore. È tutto questo un orizzonte sul quale noi vogliamo impegnarci sapendo di interpretare esigenze e sentimenti diffusi nella società italiana.
Tanto più nella società italiana si tende a ricorrere alla giustizia come meccanismo risolutore di conflitti e di tensioni, come strumento per far rientrare ex post nella legalità cittadini comuni e classi dirigenti, come apparato operativo per la lotta alla criminalità minuta e su grande scala, tanto più si ingolfa una struttura che non può assumere compiti di governo della società, a meno di non entrare inevitabilmente nel gioco politico, come pure è accaduto. Da arbitro, la magistratura diventa così protagonista in tutti i campi: dalla lotta politica alla competizione nell’economia e nella finanza. Basta guardare a come il meccanismo giudiziario non riesca ad esaudire tutte le richieste che le vengono formulate, per arrivare alla necessità di una profonda riforma. In questo contesto, oggi, si pone in modo immediato l’esigenza di decongestionare i meccanismi giudiziari da milioni di piccoli processi che ormai pendono da anni e anni. Su questa base la richiesta della amnistia è diventata di fatto una necessità per riavviare in modo diverso i meccanismi giurisdizionali. L’iniziativa assunta da Marco Pannella, ha quindi, non solo un valore civile e morale; corrisponde alla necessità di ristabilire un nuovo punto di inizio nel funzionamento dei meccanismi giudiziari. Nel decongestionare le carceri, ormai affollate di poveri, immigrati e tossicodipendenti. La riforma della giustizia deve fondarsi su nuove basi e su nuovi principi: non si può più rincorrere il mito dell’obbligatorietà dell’azione penale; è necessario separare le carriere fra giudice terzo e pubblico ministero. Tutto ciò può servire a rendere più efficace la giustizia ed elevare le garanzie nei confronti dei cittadini. Tuttavia, qualsiasi riforma rischia di non generare gli effetti positivi che si vogliono perseguire se non si attiva nella società italiana un diverso ed efficiente funzionamento di tutte le istituzioni pubbliche. Il rispetto delle regole, come codice di condotta sociale, presuppone un’etica pubblica nella quale si riconoscano tutti i cittadini. È necessario che nella società vi siano istituzioni capaci di disincentivare comportamenti illegali e devianti. È questo il compito di una vera e propria riforma che investa lo Stato, le istituzioni pubbliche e i servizi sociali. Questo processo coincide con una forte modernizzazione della società italiana dove l’etica della responsabilità sia avvertita da tutti e sia insita nel sistema.
È sul piano dell’economia che si pone il principale banco di prova per valutare i risultati del Governo Berlusconi a conclusione della legislatura. L’Italia si trova in una situazione di crisi che è del tutto evidente. Il nostro Paese perde continuamente in competitività non solo nei confronti dei nuovi paesi emergenti ma anche nei confronti di quelli europei. Nel 2005 l’economia reale si è fermata e, anzi, sia pure per una breve fase, è andata in recessione. I conti pubblici sono nettamente peggiorati. Le istituzioni hanno perso credibilità. Persino la Banca d’Italia, sempre considerata un riferimento autorevole, è stata investita da un ciclone che ha coinvolto il Governatore Fazio ed ha perso rapidamente di prestigio. Dopo la Cirio e la Parmalat, il governo non è riuscito a varare tempestivamente le misure che erano necessarie e che erano da tutti attese.

Solo sotto la spinta di ulteriori crisi si è approvata la legge sul risparmio nella fase finale della legislatura. Gli scandali scoppiati nel settore del credito e della finanza hanno ulteriormente creato un clima di instabilità e di insicurezza. Questo nuovo scossone sismico al sistema ha riproposto il tema della netta separazione tra politica riproponendo di risolvere il conflitto d’interessi nel quale si trova Berlusconi. I partiti e le leadership politiche non devono scendere nell’agone del mercato per sostenere cordate e singoli gruppi economici e finanziari, ma operare perché istituzioni, autorità indipendenti e regole efficaci presidino ad un corretto funzionamento del mercato. Di nuovo è stata la magistratura, di fronte all’inerzia delle istituzioni e al vuoto della politica, a ricominciare a svolgere un ruolo di supplenza. Non è né una forzatura né un pretesto propagandistico affermare che l’Italia è oggi un Paese in declino. Dopo il collasso del vecchio sistema politico, non si sono create nuove condizioni di tipo istituzionale capaci di ridare fiducia e sicurezza al Paese.
La crisi, prima di essere del Paese, è delle classi dirigenti che non sono riuscite sinora (nel campo della politica come in quello dell’economia) ad offrire una visione convincente per il futuro, capace di stimolare nuove energie. La società italiana appare rinchiusa in se stessa, arroccata in privilegi di tipo corporativo e di tipo monopolistico, non in grado di aprirsi alle nuove generazioni, e tra queste, a un nuovo ruolo delle giovani donne. Il tradizionale spirito imprenditoriale italiano, fantasioso e creativo, appare oggi in molti settori appannato. Non si tratta, quindi, di momentanee difficoltà ma di qualche cosa di più profondo che ha radici nella struttura dell’economia italiana. Il nanismo industriale e commerciale, che è stato un punto di forza del nostro Paese, sta diventando nell’epoca della globalizzazione un vero e proprio handicap. Le piccole imprese, che hanno rappresentato una risorsa fondamentale nel miracolo economico italiano, sono in affanno rispetto alla necessità, richiesta dal mercato, di forti concentrazioni finanziarie, di un altrettanto forte investimento nella ricerca scientifica e tecnologica e nelle innovazioni di prodotto. Non si tratta solo di aggiustare il tiro delle politiche economiche, ma di riuscire a sviluppare una strategia capace di trasformare la realtà del nostro Paese. Dobbiamo riconoscere che più volte Romano Prodi ha dimostrato di avere consapevolezza della sfida che attende il centro sinistra se le elettrici e gli elettori ci daranno il mandato di governare. Non si può, infatti, affrontare separatamente il problema del risanamento della finanza pubblica rispetto a quello del rilancio dello sviluppo.
Entra così in gioco non solo la quantità degli interventi che devono essere fatti sul terreno della spesa pubblica e del fisco, ma soprattutto la qualità. Dislocare nuove risorse sul fronte dell’innovazione, della ricerca e della formazione, secondo le indicazioni dell’agenda europea di Lisbona, diviene un imperativo al quale nessuna politica di risanamento può rinunciare se non si vuole chiudere le porte al futuro.
Nessun progetto di rinnovamento, di innovazione, di modernizzazione, è stato portato avanti dal governo Berlusconi, che pure si era presentato come un protagonista del cambiamento. Il maggiore fallimento, registrato dal centro destra, è infatti avvenuto proprio sul terreno della politica economica. Gli sgravi fiscali sull’imposta personale sul reddito, che non solo hanno rappresentato un tema di propaganda ma sono stati il cuore della politica berlusconiana, non sono riusciti a dare dal lato dei consumi un impulso alla crescita, ma hanno solo appesantito i nostri conti pubblici, senza neppure concedere un consistente beneficio alle classi di reddito medio-basse, anzi favorendo quelle a reddito più alto. Il presidente del Consiglio si è ripetutamente difeso, affermando che il mancato sviluppo dell’Italia sarebbe stato dovuto al cattivo andamento della congiuntura in Europa al passaggio malvestito della Lira all’Euro. Gli argomenti avanzati, sono piuttosto fragili. L’Italia è oggi infatti il fanalino di coda dell’Europa. Sicuramente l’entrata nella moneta unica europea ha creato più vantaggi che svantaggi. L’Italia infatti, avendo un elevatissimo debito pubblico, con la Lira al posto dell’Euro, sarebbe andata probabilmente incontro a turbolenze monetarie nei mercati internazionali e ad un innalzamento dei tassi di interesse, che avrebbe costituito un laccio al collo per lo sviluppo.
L’Italia non può certo più contare sulle svalutazioni competitive, deve adeguare al più presto le sue infrastrutture e i suoi servizi allo standard dei paesi più avanzati, avere un sistema di istruzione di ottimo livello, un sistema di ricerca con punte di eccellenza, risolvere in positivo i suoi squilibri territoriali, a cominciare da quello tra il Nord e il Sud, utilizzare la sua grande risorsa, costituita dal patrimonio artistico e naturale, con un rilancio della sua presenza culturale nel mondo e con lo sviluppo di un turismo di qualità e a costi e a prezzi più contenuti, modernizzare la sua agricoltura soprattutto con prodotti tipici di carattere regionale.
È questo un impegno che richiede nuove politiche pubbliche, accompagnate da una grande efficienza del sistema attraverso una concorrenza retta da regole semplici e severe. Fondamentale è avere una Pubblica Amministrazione, dove pure non mancano risorse umane di alta qualità, che non sia un freno alle capacità e alle potenzialità del nostro Paese.

La questione sociale è diversa dal passato ma continua ad esistere. Noi, come socialisti, impegnati ne la “Rosa nel Pugno”, non abbiamo certo reciso né dimenticato le nostre antiche radici che sono nel mondo del lavoro. Il nostro rapporto con i sindacati, anche quando li critichiamo, e spesso accade, nasce da una storia comune che ha visto la progressiva emancipazione della classe operaia e bracciantile. Le grandi lotte per l’uguaglianza, per i diritti, per una condizione migliore di vita e di lavoro sono il grande patrimonio storico dell’antico movimento operaio.
Nell’Italia di oggi si sono notevolmente accresciute le disuguaglianze di reddito. Il carovita, contro il quale il governo Berlusconi non ha saputo mettere in campo alcuna misura (controlli fiscali, liberalizzazione nel commercio, trasparenza dei prezzi), ha ridotto notevolmente la capacità d’acquisto di stipendi e salari. Sono aumentate le vecchie e nuove povertà, il lavoro nero e sottopagato, l’esclusione sociale. L’aumento degli affitti, sia pure in un paese che ha notevolmente peggiorato la situazione di strati sociali privi della proprietà della casa. La carenza di servizi sociali ha rappresentato un ulteriore penalizzazione per i ceti più deboli, a cominciare dagli anziani non autosufficienti. Il centro sinistra, se riceverà il mandato da elettrici ed elettori, dovrà affrontare una situazione che negli ultimi anni si è molto deteriorata.
I principi della cooperazione sociale che nascono dalle tradizioni socialiste si devono sposare con quelli della concorrenza che sono fondamentali per lo sviluppo. Cooperazione e concorrenza sono del resto i valori comuni del socialismo riformatore, sui quali si basa la Rosa nel Pugno.
Le politiche delle libertà, della cooperazione e della concorrenza, non hanno solo un valore su scala nazionale, ma si impongono con una crescente attualità su scala internazionale. Nel mondo progressista si è ormai avviata una riflessione sul rapporto che deve esistere non solo tra pace e sicurezza, ma anche tra pace, sicurezza, libertà e democrazia nell’impegno politico su scala internazionale. Non è infatti concepibile che la sinistra e i liberali riformatori possano lasciare ai neo conservatori la bandiera della diffusione della libertà e della democrazia nel mondo, rinserrandosi in una pura e semplice difesa del realismo politico come unica via per poter assicurare la pace e la sicurezza. Noi come Sdi siamo stati contro l’intervento unilaterale degli Stati Uniti in Iraq. Continuiamo a pensare che si sia trattato di un grave errore. Nello stesso tempo abbiamo apprezzato l’avvio di un processo democratico in corso in Iraq. Noi non siamo del parere che la diffusione della democrazia e della libertà debba essere portata sulla canna del fucile. Vi sono però tutto un complesso di strumenti, al netto di quelli militari, che possono fortemente influire sull’evoluzione democratica degli stati totalitari ed autoritari. Le battaglie contro la fame nel mondo e per lo sviluppo dei paesi del Sud non possono essere disgiunte da un forte impegno per il cambiamento delle classi dirigenti attraverso l’attivazione di meccanismi realmente democratici. Le campagne a favore dell’Africa, diventata una sorta di simbolo delle disuguaglianza su scala mondiale, non può prescindere da una grande lotta per la libertà. Questa nuova sensibilità è una risorsa per la politica estera del nostro Paese, che troppo spesso si è fermata alla pura mediazione diplomatica. L’Italia ha sicuramente un ruolo in Europa, può svolgere una funzione importante nel dialogo col mondo arabo, può dare un suo apporto alla risoluzione del problema israeliano palestinese. Quindi, esiste una linea di continuità da perseguire tra ciò che l’Italia ha fatto e ciò che può fare in futuro. Tuttavia, va immesso un forte elemento di novità nel riuscire, con l’azione della politica estera, a sollecitare tutte le possibilità che esistono per una diffusione dei principi di democrazia e di libertà.

L’Europa resta il progetto fondamentale nel quale l’Italia deve impegnarsi. Solo a livello europeo può svilupparsi una politica estera e della difesa che riesca ad influire a livello internazionale. Gli Stati Uniti d’Europa, come furono individuati nel Manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e Eugenio Colorni, quando tutti pensavano solo e soltanto alla guerra, restano il grande obiettivo da perseguire. Mentre in Italia i leghisti vogliono un federalismo che divida l’Italia, noi pensiamo ad un federalismo che unisca l’Europa in uno spirito di pace e di sicurezza, di libertà e di democrazia. Questi sono i principi che sono comuni a tutte le forze progressiste, dopo il superamento dei vecchi dogmi ideologici.
Allo stato attuale, le differenze tra liberali riformatori e socialdemocratici si sono venute attenuando sino ad annullarsi. La socialdemocrazia da tempo ha accettato il mercato e i principi della democrazia liberale. Alla fine del secolo, i socialdemocratici non hanno più considerato l’estensione della sfera pubblica nell’economia come un meccanico di sviluppo ed un ampliamento della democrazia. I tradizionali concetti di collettività e di classe si sono profondamente modificati. In sintonia con il pensiero liberale, la socialdemocrazia non ha più considerato le classificazioni sociali come entità che siano qualche cosa di diverso e di più della somma dei singoli individui. Questo nuovo approccio ha comportato una vera e propria rivoluzione teorica e pratica nel comportamento delle socialdemocrazie europee che non hanno più seguito politiche ispirate a ricette precostituite. Alla base della socialdemocrazia, sono certo rimasti i principi di giustizia sociale e di libertà, ma accompagnati da una riconsiderazione della responsabilità individuale che gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo delle nuove politiche pubbliche. Questo avvicinamento sul piano dei principi ha determinato una consonanza di vedute tra la socialdemocrazia europea e i democratici americani che si è espressa più volte in sedi di confronto comune. Noi confermiamo la necessità che l’Internazionale socialista, anche attraverso una modifica del suo nome, possa diventare una organizzazione capace di accogliere tutte le forze progressiste e democratiche del mondo, compresi i democratici americani. Questa nostra visione ha reso possibile allo Sdi di trovare convergenze strategiche con componenti e partiti che si rifanno al liberalismo riformatore, come accade oggi con i radicali.
Il Congresso dello Sdi di Fiuggi è quindi, chiamato a compiere una scelta di grande portata nella quale si possano ritrovare tutti i socialisti: la costruzione di una nuova forza laica, socialista, liberale e radicale. Noi pensiamo che questa nuova forza non solo potrà contribuire al rinnovamento del centro sinistra, ma potrà essere un fattore per realizzare in Italia una più ampia formazione di progresso e di riforma. Radicali e socialisti con la Rosa nel Pugno vogliono sviluppare questo disegno a partire dai contenuti, sui quali si potrà effettivamente far crescere un nuovo soggetto politico, come potrebbe essere un grande partito democratico.
Questo nostro progetto non contraddice la nostra presenza nel partito socialista europeo e nell’Internazionale socialista, che noi vogliamo confermare come fattore importante di riferimento per la nostra azione in Italia.
Dal Congresso dello Sdi deve emergere un impegno che corrisponda alla nostra tradizione, alla nostra storia e alla nostra memoria, ma guardi al futuro. Noi stiamo vivendo in Italia un periodo di grandi cambiamenti che devono essere affrontati con un grande spirito di innovazione. Noi non auspichiamo che si vada incontro ad una nuova crisi di sistema che coinvolga di nuovo i partiti e che si estenda al mondo dell’economia e della finanza. In ogni caso rimaniamo convinti che in Italia si debba perseguire il rispetto della legalità e si debba avere come riferimento una forte etica pubblica, ma senza il ricorso a processi fatti sull’onda dell’emotività. Noi restiamo fermi nella difesa del garantismo. Il giustizialismo non è un modo rafforzato di fare giustizia, ma una degenerazione della giustizia. Noi come Sdi e oggi come Rosa nel Pugno siamo contro il giustizialismo perché amiamo la giustizia, quella che si svolge nelle aule giudiziarie e con rispetto rigoroso delle regole da parte di una magistratura che sia autonoma, a riparo delle interferenze del potere esecutivo e lontana dai giochi della politica. Noi abbiamo appreso da quanto è accaduto con il collasso del vecchio sistema politico che la legalità va rispettata scrupolosamente, che le classi dirigenti si devono comportare secondo ineccepibili codici di condotta, che non si attaccano alleati o avversari con metodi sleali, che al perseguimento dei reati deve accompagnarsi un ruolo delle istituzioni che gestiscano con un senso profondo dello Stato i passaggi difficili della nostra Repubblica. Noi siano stati e rimaniamo vicini e solidali con color che vivono nelle condizioni più disagiate, con chi soffre, è portatore di handicap, è gravemente malato, per cercare di migliorare situazioni di gravi difficoltà. Siamo per mettere in condizione chi ha dote e talento, di poter sviluppare a pieno le proprie capacità. I nostri antichi valori non sono cambiati: sono ancora attuali. È con questo spirito che affrontiamo la crisi attuale della società italiana, con la consapevolezza che al progetto de la Rosa nel Pugno possiamo portare interamente le nostre idee, i nostri valori e i nostri principi. Speriamo che elettrici ed elettori, e soprattutto le nuove generazioni, facciano de la Rosa nel Pugno una forza decisiva per la democrazia italiana.

Enrico Boselli, Roberto Villetti, Ugo Intini, Cesare Marini, Pia Locatelli, Ottaviano Del Turco, Gianluca Quadrana, Claudio Signorile, Gianluigi Bonino, Franco Bozzi, Emidio Casula, Pieraldo Ciucchi, Fausto Corace, Alessandro Dario, Sergio Fumagalli, Raffaele Gentile, Onofrio Introna, Nicola Marango, Ercole Nucera, Corrado Oppedisano, Moreno Pieroni, Lamberto Quarta, Giancarlo Tomasselli, Nicola Valluzzi, Sergio Vazzoler, Paolo Zanca, Nicola Zoller.

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