18 e 19 ottobre 2003 - LA CASA DEI SOCIALISTI È LA CASA DEI RIFORMISTI - relazione di Enrico Boselli all’apertura del Comitato direttivo nazionale dello Sdi

18 ottobre 2003

La Casa dei socialisti è la Casa dei riformisti
Questa nostra sessione del Comitato Direttivo Nazionale dello SDI, riunita oggi e domani in forma seminariale e aperta al contributo di altri compagni, in primo luogo di quello assai autorevole di Giuliano Amato, è rivolta a sviluppare un approfondito confronto al nostro interno sul nostro ruolo e sulle prospettive generali. Ogni qual volta abbiamo ritenuto di essere di fronte ad un cambio di fase politica ci siamo ritrovati insieme per costruire un tracciato comune. Questa nostra volontà di approfondire i problemi è rivolta a raccogliere interrogativi, dubbi e suggestioni per definire una piattaforma unitaria. Come voi ben sapete, attribuisco un valore fondamentale all’unità dello SDI poiché sarebbe assai difficile per una formazione, com’è la nostra, affrontare i difficili tornanti della politica senza una forte coesione interna. La nostra unità, che abbiamo sempre mantenuto, non è un dato meccanico che discende solo dalla difficoltà delle circostanze nelle quali ci troviamo ad operare.
La nostra unità è il frutto di un largo coinvolgimento dei gruppi dirigenti e dei nostri iscritti che è sempre avvenuto nel momento in cui ci accingevamo a compiere scelte di grande rilevanza per il nostro destino politico. In questo contesto, ho sempre cercato di mettere insieme - ed è un’operazione che non è facile - la chiarezza della nostra impostazione politica con una buona dose di spirito di mediazione, cercando di tenere in debita considerazione dubbi ed interrogativi, via via sollevati e riuscendo a comporre un quadro di decisioni nelle quali tutti si potessero riconoscere.
Questo approccio di metodo corrisponde ad una mia profonda convinzione: lo SDI rappresentava ieri, e rappresenta ancor oggi, l’unica formazione autonoma ed organizzata del movimento socialista italiano, aderente e presente nel Partito del socialismo europeo e nell’Internazionale socialista.
Questa nostra caratteristica fa dello SDI un punto di riferimento essenziale per tutto il mondo socialista e un ancoraggio per tutti coloro che vogliono restare coerenti con i principi e i valori che sono stati alla base della fondazione del Partito dei lavoratori italiani. Dobbiamo sapere di fronte alle scelte che ci attendono come sia essenziale rafforzare il nostro partito, dare nuovo vigore alle nostre strutture organizzative, estendere il nostro tesseramento, apprestarci al meglio nei confronti dei prossimi appuntamenti elettorali.
Continuità ideale e politica
Con questo spirito che ci ha sempre animati saremo presenti al Congresso dell’Internazionale socialista che si svolgerà tra circa una settimana a San Paolo del Brasile. In quella circostanza speriamo di poter festeggiare l’elezione della nostra compagna Pia Locatelli a presidente dell’Internazionale socialista delle donne, cui è candidata da parte dell’intera delegazione italiana, composta - come si sa - dallo SDI e dai DS. Colgo l’occasione per rivolgere a Pia gli auguri più affettuosi, accompagnati dai nostri fraterni sentimenti di stima e di amicizia. Voglio insieme mettere in risalto come a livello internazionale si sia sviluppata, prima con la segreteria di Walter Veltroni ed adesso con quella di Piero Fassino, una proficua collaborazione. Già al Congresso del Pse, come SDI e come DS riuscimmo ad esprimere per la vice presidenza una candidatura unitaria di grande autorevolezza come quella di Giuliano Amato. In questo lavoro ci siamo potuti sempre avvalere della saggezza e dell’esperienza di un compagno, come Mario Didò, che desidero a nome di tutti voi e mio personale ringraziare. Questo nostro ruolo nel Partito socialista europeo e nell’Internazionale socialista è stato nel corso di questi anni qualche cosa di più di un riconoscimento ufficiale della continuità ideale e politica che lo SDI rappresenta rispetto al PSI: ha costituito il filo che tiene collegato il socialismo italiano alle grandi famiglie del socialismo europeo e di quello internazionale. Se quel filo non si è mai spezzato, lo si deve interamente alla nostra presenza. Anzi, con la scelta del PSDI di Gianfranco Schietroma di dare vita assieme al SI e al partito socialista di Ugo Intini, quel filo si è rafforzato ed è per noi un costante riferimento al quale non vogliamo certo rinunciare.
La politica d’oggi, come ormai si usa dire, è globale. Non è, infatti, possibile sviluppare politiche nazionali senza tenere conto che le decisioni più importanti si prendono a livelli sempre più elevati. Questa interazione, tuttavia, tende nello stesso tempo, secondo un principio di sussidiarietà verticale, a valorizzare le comunità locali: ciò significa che la istituzione più vicina ai cittadini non deve essere accentrata da una struttura più lontana e sovraordinata. Per questo motivo oggi si parla sempre più spesso di glocal volendo così intendere che l’arco della politica va dal locale e al globale. Questa è una scelta di civiltà perché si contrappone a coloro che vogliono intendere la globalizzazione come omologazione ad un modello standard di lingue, di culture, di stili di vita. Il globale infatti rischia di involvere nel globalistico, mentre il locale nel localistico. Sta al movimento socialista riuscire a dare un’impostazione che eviti entrambe queste degenerazioni. Il compito - come si comprende - è immenso. La socialdemocrazia europea, che finora è stato l’hard core del riformismo, deve sviluppare al suo interno una profonda revisione di cui già si vedono i segni. Il progetto deve avere la portata, lo spessore e la tensione ideale che il Welfare State ebbe nel Novecento. Con una differenza, che non è di poco conto rispetto allo scorso secolo: il nuovo progetto deve avere una caratura di carattere europeo ed internazionale. Ciò non è solo dovuto al fatto che i nostri problemi non possono essere risolti solo su scala nazionale e neppure solo su quella più ampia dell’Europa. è di fronte a noi tutti infatti una grande questione sociale che non riguarda più gli operai nella fabbrica e i braccianti nei campi, ma le sterminate regioni del Sud del mondo e le realtà in sviluppo del Quarto mondo, a cominciare dalla Cina che è appena entrata - come ha messo in risalto il New York Times - nel ristretto club dello spazio assieme agli Stati Uniti e alla Russia. L’idea che i paesi più sviluppati si possano rinserrare in un fortino di privilegiati, ben munito di torri e di cannoni, è solo insensata. Lasciamo Umberto Bossi a vagheggiare queste vere e proprie follie, ora che è stato lasciato solo e abbandonato - ed è stato un atto innovativo di saggezza - pure da Gianfranco Fini.
Non più solo socialismi
Il problema di un progetto per il mondo deve essere l’aspirazione di tutti coloro che in nome della libertà e della democrazia, del progresso e della tutela dell’ambiente, della giustizia sociale e dell’equità, della sicurezza e della pace operano nel nostro pianeta. Non sono solo ad essere in campo nel versante progressista i tradizionali partiti socialdemocratici europei e neppure solo i nuovi partiti socialisti nati dal fallimento del comunismo. Riformisti e riformismi sono scaturiti con proprie caratteristiche originali e specifiche da altri filoni che non sono “la serie B” rispetto alla “serie A” rappresentata dalla socialdemocrazia europea. Si tratta di partiti e di movimenti che hanno avuto impulso da convinzioni e fedi religiose, dalla valorizzazione di temi fondamentali per la qualità della vita com’è l’ambiente, da una grande tradizione come quella liberale che è stata a fondamento della costruzione delle nostre istituzioni democratiche. Questa gamma di riformisti arricchisce il riformismo, potendone fare una forza di cambiamento a livello europeo e mondiale. In Europa Verdi, liberaldemocratici e cristiani democratici di centro sinistra sono schierati, come i socialdemocratici - detto con un linguaggio antico - dalla stessa parte della barricata: per le riforme e contro la destra vecchia e nuova. I vecchi confini dell’ideologia si sono stemperati e tendono ad essere definitivamente superati. Non si tratta, quindi, come alcuni pure pensano, di governare un processo d’annessione di frange disperse alla vecchia e gloriosa casa socialista. Noi dobbiamo riconoscere che questo avvicinamento è avvenuto non solo per i cambiamenti realizzati dagli altri ma anche per le profonde revisioni che sono avvenute nella socialdemocrazia europea. La distinzione principale tra i socialdemocratici e i progressisti consisteva, innanzi tutto, nel diverso modello di società verso il quale si volevano orientare le riforme. I socialdemocratici per tutto il Novecento, a fronte della terribile sfida del comunismo totalitario, hanno sostenuto di voler perseguire la costruzione di una “società socialista”, basata su una sempre maggiore estensione della sfera pubblica nell’economia, che in sé conteneva una forte carica anticapitalistica. è pur vero che nella pratica le socialdemocrazie europee, una volta andate al governo, hanno difeso le economie di mercato, ma il mito delle nazionalizzazioni come estensione della democrazia è restato forte persino in formazioni, come il Labour Party, che non vengono da una tradizione marxista. Le socialdemocrazie europee, soprattutto dopo l’Ottantanove che ha rivelato in tutta la sua profondità il fallimento delle economie statalistiche, hanno profondamente rivisto questa impostazione, arrivando a cancellare dai propri statuti, ove c’erano, riferimenti a progetti del tutto ideologici. Oggi, come ha recentemente detto Jacques Delors, tutti i socialisti riconoscono il valore dell’economia di mercato. Così la stessa definizione “socialista” o “socialdemocratica” non si riferisce più a un progetto di palingenesi sociale ma ad una fondamentale tradizione di lotte sociali e per la libertà. Questa chiarificazione comporta il superamento delle barriere ideologiche che hanno sempre separato i socialdemocratici dagli altri riformisti. Del resto, come hanno ricordato nelle loro tesi, davvero interessanti, i nostri giovani socialisti, guidati ieri da Claudio Accogli ed oggi dal nuovo segretario Gianluca Quadrana, il riformismo socialista è stato alimentato nel Novecento da idee di grandi liberali come Keynes e Beveridge, fondamentali per la costruzione del Welfare State. Socialismo e liberalismo sono stati i cardini del progetto della Conferenza Programmatica di Rimini, che si fondò essenzialmente su fondamenti ricavati dal grande filosofo liberale americano Rawls. Ugo Intini parlò - ancor prima di Rimini - di Lib-Lab. Come ha riconosciuto in un articolo sul “Corriere della Sera” Michele Salvati, il socialismo italiano seppe adeguarsi alla sfida liberale, mentre il resto della sinistra rimaneva ancorata a vecchi schemi ideologici. Questa nuova frontiera del socialismo liberale, che da tempo perseguiamo, ci porta naturalmente a incontrare altri riformismi ed altri riformisti. Non meno è avvenuto sul tema della tutela della natura, dove lo stesso concetto di “sviluppo sostenibile” è stato introdotto dall’ex premier norvegese Bruthland in preparazione della prima Conferenza dell’ONU sull’ambiente. Forti sono stati gli impulsi che sono venuti dal mondo cristiano verso la definizione di un nuovo riformismo, dentro e fuori la socialdemocrazia. Del resto, l’attuale presidente dell’Internazionale socialista Guterres è un cattolico praticante, a dimostrazione di come sia superato nelle file della socialdemocrazia il vecchio anticlericalismo. Non ignoriamo che nello stesso mondo islamico vi sono élites riformiste che avanzando un processo di secolarizzazione sono destinate ad avere un ruolo di primo piano. Il problema più rilevante per l’Internazionale socialista è costituito dai rapporti con il partito democratico americano.
Mancano i Democratici Usa
Da tempo l’Internazionale socialista non è più un’organizzazione socialista che raccoglie solo i socialisti e i socialdemocratici. Già prima dell’Ottantanove, sotto l’impulso dell’allora suo presidente, Willy Brandt, l’Internazionale si è aperta a partiti e movimenti progressisti che non sono, e non si definiscono, socialisti. Dopo l’Ottantanove sono entrati nell’Internazionali numerosi partiti ex comunisti e altrettanto numerosi movimenti di liberazione nazionale. La vera e grave assenza in una organizzazione che tende a raccogliere tutti i progressisti su scala mondiale, è costituita dal Partito Democratico degli Stati Uniti. In questa direzione si sono moltiplicati i rapporti tra le socialdemocrazie e i new democrats, soprattutto sotto l’impulso del presidente Clinton. Era stata avanzata anche l’ipotesi di costruire una sede permanente di confronto, affiancata all’Internazionale.
Come si sa, una delle principali obiezioni avanzate dai democratici americani al loro ingresso nell’Internazionale è costituita proprio dalla definizione “socialista”. Negli Stati Uniti a livello comune - e nonostante la presenza di un partito socialista americano che ha una storia gloriosa - il termine “socialista” è assimilato a quello di comunista: del resto anche in Italia si è fatto uso della definizione “socialismo reale” per indicare i regimi comunisti e gli stessi comunisti al potere parlavano di “socialismo”. Chi è di sinistra in America si definisce radical o liberal, a secondo di quanto è estremo o riformista il suo credo politico. Fu Bettino Craxi ad avanzare, con grande coraggio politico, l’idea che l’Internazionale data la sua ampia composizione si chiamasse semplicemente “democratica”, rimuovendo così l’ostacolo principale all’ingresso dei democratici americani. Io penso che oggi, a distanza di molto tempo, lo SDI debba riprendere quella proposta, sollecitando un cambiamento del nome da “Internazionale socialista” a “Internazionale democratica”. I tempi d’oggi per un cambiamento sono più maturi di quelli di ieri.
Del resto, i rapporti tra la socialdemocrazia europea e i democratici americani sono essenziali se si vuole portare avanti una più efficace politica per la sicurezza e per la pace a livello mondiale. Le divergenze che sono avvenute sull’intervento americano in Iraq debbono essere ricomposte. La recente risoluzione votata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite costituisce un primo importante passo per internazionalizzare la gestione della transizione dell’Iraq verso la democrazia. Sappiamo bene che problemi di grande rilevanza restano insoluti, ma si è aperto un nuovo terreno di dialogo che va ulteriormente sviluppato. Del resto, il nostro doppio voto favorevole in Parlamento all’invio e al finanziamento della missione militare di pace dell’Italia presupponeva che si riuscisse ad avere un “cappello” dell’Onu sulla situazione irachena. Siamo consapevoli che non esiste ancora un livello d’intesa tale da assicurare una piena compartecipazione internazionale, ma le condizioni di oggi per una permanenza delle nostre forze armate in Iraq sono migliori di quelle di ieri. Noi speriamo che si possa arrivare ad una piena intesa tra Europa e Stati Uniti, dopo la decisione del Consiglio di sicurezza. Allorquando si porrà il problema di prolungare la missione italiana valuteremo con spirito aperto le condizioni che si saranno create.
Una politica estera bipartisan
Chi puntava a soffiare sul fuoco delle divisioni tra Europa e Stati Uniti è rimasto deluso. L’antiamericanismo - cosa ben diversa dal dissenso con le scelte dell’attuale amministrazione americana - è una mala pianta che alligna in Italia e in Europa. I riformisti non possono e non devono essere antiamericani. La stessa esigenza di costruire un’Europa più forte e più grande, dotata di moneta e di spada, deve essere portata avanti in un rapporto di alleanza con gli Stati Uniti. Il varo della Costituzione europea, a cui Giuliano Amato ha dato un contributo politico ed intellettuale di grande rilievo, deve e può avvenire entro l’anno sotto la presidenza italiana. Non ci fa velo, a questo proposito, il fatto che l’inquilino attuale di Palazzo Chigi sia Silvio Berlusconi. Riteniamo che tutti debbano operare, nonostante Berlusconi, perché l’Italia possa avere una politica estera bipartisan come accade nelle grandi democrazie occidentali. Ci preoccupa un livello di scontro politico che sembra essere animato da uno spirito di guerra civile. So bene che è stato ed è soprattutto il presidente del Consiglio a radicalizzare lo scontro, ad investire con insulti i leader e le forze dell’opposizione, a ispirare la sua maggioranza a rendere ancora più aspro il confronto. Il caso dell’inchiesta su Telekom Serbia è emblematico di come si voglia più che ricercare la verità, colpire l’opposizione e il suo leader Romano Prodi. All’eccessiva politicizzazione di settori della magistratura, che pure c’è e continua ad esserci, il governo ha risposto con interferenze nei processi in corso che sono di una gravità inaudita. Il Parlamento è stato inchiodato a sfornare leggi che dovevano servire solo a mutare il quadro giuridico nel quale si trovavano singoli imputati. Proprio noi dello SDI, che siamo stati sempre convinti della necessità di separare nettamente le carriere dei giudici terzi rispetto alla pubblica accusa, denunciamo i diversi tentativi che da parte del governo e della maggioranza sono stati fatti per violare l’autonomia della magistratura. Noi siamo stati sempre convinti che il centro sinistra non dovesse cavalcare una via giudiziaria ma la strada maestra del voto per sconfiggere Berlusconi. Per questo motivo, del resto, ci siamo astenuti sulla legge che maldestramente ha ripreso i contenuti del lodo Maccanico. La nostra critica a Di Pietro e al suo movimento nasce dalla nostra avversione verso chi confonde la lotta politica democratica con l’amministrazione della giustizia: i processi non si fanno in piazza, come ricordò in tempi lontani Aldo Moro, ma nelle aule giudiziarie. I magistrati non devono amministrare la giustizia ricercando il consenso dell’opinione pubblica. Il giustizialismo non è una corrente del riformismo, ma l’antitesi della democrazia liberale, fondata sul rigoroso rispetto delle garanzie dei cittadini. Con Di Pietro e con il suo movimento, l’Ulivo può allearsi allo scopo di sconfiggere Berlusconi poiché questa è la legge ferrea del maggioritario. Sarebbe invece del tutto inconcepibile che si considerasse il dipietrismo una componente del riformismo italiano. Noi possiamo dire queste cose con assoluta serenità. Da tempo abbia detto che il finanziamento irregolare ed illegale della politica aveva determinato degenerazioni gravissime negli apparati dello Stato e nel mondo dell’economia e della finanza, tali da portare dopo la fine della guerra fredda ad un vero e proprio corto circuito del sistema politico. Le nostre posizioni sui temi della corruzione pubblica, della lotta alle mafie e alla criminalità organizzata, sull’esigenza di una rigorosa politica dell’ordine pubblico sono ben note, ispirate a grande rigore. Noi socialisti abbiamo pagato i nostri errori con un costo altissimo: nessuno, quindi, ci può mettere più sul banco degli accusati. Il nostro ragionamento sull’estraneità di Di Pietro al riformismo italiano è quindi derivato da un’analisi politica sul suo movimento che difficilmente può essere contraddetta.
Le correnti del riformismo
Il nostro scopo è quello di riunificare le grandi correnti del riformismo italiano che per ragioni diverse sono state divise, da quella socialista e socialdemocratica, compresa quella che proviene dalla tradizione comunista, fino quella cristiana democratica e liberale di centro sinistra. Con la fine della Democrazia Cristiana e la confluenza dei popolari nella Margherita si è definitivamente chiusa l’epoca, iniziata con la nostra storia risorgimentale, del partito dei cattolici. Con l’Ottantanove e la conclusione dell’esperienza del PCI sono stati rimossi i più gravi ostacoli che dividevano una volta i comunisti dai socialdemocratici. Ci sono tutte le condizioni per riunificare i riformisti secondo antiche aspirazioni che furono di Turati, di Nenni e di Saragat. Noi dello SDI non abbiamo inventato nulla quando abbiamo sostenuto a Genova - accolti da un generale scetticismo - l’idea di creare una Casa dei riformisti, lanciata a suo tempo da Romano Prodi. Questione socialista, questione comunista e questione cattolica possono finalmente trovare una soluzione nella storia d’Italia con la creazione di un nuovo partito riformista. Questo è il nostro asse strategico sul quale abbiamo da tempo impostato la nostra rotta. è per questo motivo che abbiamo subito accolto la proposta di Prodi per una lista unitaria. Si tratta, com’è evidente a tutti, di un percorso assai difficile e non poco accidentato, ma è un itinerario che può far fare al centro sinistra un salto di qualità.
La lista riformista tra lo SDI, i DS e la Margherita deve suscitare partecipazione e consenso nei cittadini. Il compito è arduo. Se, infatti, sul piano dell’architettura politica si sono fatti notevoli passi in avanti, resta assai vago ed incerto il progetto, i programmi, le politiche dei riformisti. Insorge la tentazione di far conto più sulla protesta contro il malgoverno rispetto alla proposta di un nuovo governo: la pessima gestione della cosa pubblica da parte di Berlusconi dà l’impressione che l’opposizione non debba far altro che opporsi aspettando che la situazione maturi da sola. Per i riformisti, al contrario, la sfida deve essere condotta innanzi tutto in positivo: dobbiamo dire ai cittadini che cosa faremmo se fossimo come centro sinistra al governo su tutti i temi cruciali del Paese. Il centro sinistra, sin dai tempi del primo governo Amato, ha portato avanti una severa politica di risanamento economico e finanziario che oggi Tremonti sta rimettendo pericolosamente in discussione. Il condono fiscale ha sicuramente minato la credibilità della Pubblica Amministrazione. Oggi il condono edilizio, con l’ampiezza con la quale viene proposto, rischia di dare un colpo gravissimo alla tutela dell’ambiente. Finora il centro destra è andato avanti ricorrendo ad entrate straordinarie o - come si dice - una tantum, senza affrontare alcun nodo strutturale. Ha realizzato uno sgravio fiscale che è stato irrisorio per le fasce più basse di reddito imponibile mentre è stato assai pesante per le casse dello Stato, senza che vi fossero le risorse in una congiuntura interna e internazionale vicina al ristagno. Oggi con grande enfasi viene annunciata una nuova riforma delle pensioni. Tuttavia, nell’immediato questa riforma non esiste, ma esistono incentivi a restare al lavoro che nella forma in cui sono stati adottati, diversa da quella assunta dal centro sinistra, potrebbero rivelarsi controproducenti rispetto alle finalità che il governo si è proposto. La riforma, quella vera, è rimandata al 2008 con criteri che sono evidentemente iniqui, da un giorno all’altro si passa a quaranta anni di contributi o a 65 anni di età per poter andare in pensione. Il segretario della Cisl, Savino Pezzotta, ha invitato cortesemente i partiti riformisti a non occuparsi di questa questione sociali che spetta ai sindacati trattare. Osservo che questa riforma è comunque virtuale: se i sindacati non riusciranno a cambiarla e a raggiungere un’intesa con il governo, poiché tra l’oggi e il 2008 esiste la scadenza regolare delle elezioni politiche del 2006, l’ultima parola spetterà agli elettori. Questo è un buon motivo perché della questione si occupino i partiti riformisti, evitando di lasciare il campo - come ha osservato Ottaviano Del Turco - solo ai massimalisti e al governo. Noi comprendiamo bene la protesta dei sindacati, ma sosterremo per quanto ci sarà possibile lo sciopero generale del 24 ottobre e ci impegneremo in Parlamento per contrastare la riforma Tremonti-Maroni. Tuttavia, osserviamo che sarebbe stato più opportuno che si fosse iniziata la lotta attraverso una serie di scioperi articolati per saggiare il terreno, come spesso ammoniva Luciano Lama, invece di ricorrere subito allo sciopero generale che per i sindacati è quello che nella strategia militare d’oggi è l’arma atomica. Abbiamo l’impressione che nei sindacati non si abbia chiaro che in tutti i paesi europei, sia quelli governati dalla destra sia in quelli governati dalla sinistra, si ragiona non sul “se” ma sul “come” fare una riforma che è imposta dalla rivoluzione demografica in corso. E sul “come” e non sul “se” che i riformisti si devono misurare e scontrarsi con il governo Berlusconi. Noi abbiamo facilitato il cammino da una riforma già avvenuta, quella Dini, fatta in accordo con i sindacati, i cui tempi e le cui procedure graduali avrebbero potuto essere accelerate con la verifica del 2005. Non c’è infatti un urgenza di fare cassa, ma di affrontare un problema gravissimo che è dato in futuro da un forte squilibrio nella spesa sociale. Si tratta di ridisegnare tutta l’architettura del Welfare State tenendo conto che la spesa sanitaria è destinata inevitabilmente a crescere con l’aumento della popolazione anziana e che occorre una nuova rete di sicurezza sociale per i lavori intermittenti. Si è detto togliere ai padri per dare ai figli: sarebbe più corretto dire togliere ai padri per dare ai figli, ai nonni e ai bisnonni. I riformisti devono su questa materia elaborare un progetto complessivo da offrire ai cittadini in alternativa a quello di Berlusconi. In questo ambito vanno ricalibrati gli oneri che ricadono sulle imprese, investite da una sempre più forte competizione internazionale, nella quale l’Italia perde giorno dopo giorno punti, rispetto alla fiscalità generale. Ricerca, innovazione e scuola devono essere il perno di un nuovo disegno riformatore.
Questa è la sfida che attende i riformisti. Noi stiamo sempre più acquisendo la convinzione che la leadership di Berlusconi si stia indebolendo e che le mosse di Casini e di Fini siano rivolte a raccogliere l’eredità dell’attuale capo del Governo. Non sappiamo né possiamo prevedere che cosa deciderà la Corte Costituzionale sul Lodo Maccanico. è tuttavia facile prevedere che se la Corte ne dichiarerà l’incostituzionalità si potrebbe riaprire una grave crisi istituzionale dai contorni assai incerti, proprio quella crisi verticale che il Lodo voleva evitare. Il rischio che Berlusconi metta al vaglio del voto popolare una eventuale sua sentenza di condanna, con ripercussioni disastrose sul nostro sistema democratico, potrebbe essere evitato solo da un’aperta rivolta di settori della sua maggioranza. Lo stesso bipolarismo sarebbe messo a repentaglio da una nuova forza centripeta che si potrebbe esercitare su tutto il sistema politico. Noi dello Sdi che non abbiamo interessi di parte in gioco siamo davvero preoccupati dall’avvento di un nuovo collasso del sistema politico. Il primo ci ha regalato Berlusconi e Bossi; non si sa che cosa e chi ci attenderebbe in futuro. Spetta ai riformisti prendere in mano la questione della difesa e della tenuta delle istituzioni democratiche, sostenendo apertamente l’opera svolta dal Capo dello Stato.
La riorganizzazione del campo riformista non è quindi un’operazione di laboratorio, sganciata dai problemi concreti dei cittadini, separata dal quadro politico e di governo del Paese e da gestire al vertice. E non è neppure un’operazione lampo dalla quale da un giorno all’altro ci ritroveremo il partito dei riformisti. è una strategia che potrà risultare vincente solo se avrà quella grande forza di persuasione che nasce da una grande partecipazione, solo se s’incardinerà in un progetto attorno al quale si raccolgano le migliori energie del Paese, solo se attorno ad una grande forza riformista si raccoglierà una rete di alleanze assai estese, dai Verdi ai Comunisti Italiani, all’Udeur, a Rifondazione comunista e all’Italia dei valori, solo se gli elettori e le elettrici premieranno la lista riformista con un consenso superiore a quello raccolto dai DS, dalla Margherita e dallo SDI. Noi che ci siamo impegnati a fondo in questo progetto dobbiamo essere tra i primi a comprendere che il rafforzamento dello SDI è essenziale. Non siamo alla vigilia dello scioglimento del nostro partito. Al contrario dobbiamo sapere che accanto all’impegno per il successo della lista riformista, se riusciremo a realizzarla, lo SDI dovrà misurarsi con una consultazione amministrativa di amplissime proporzioni. Sarà il voto dato alle liste dello SDI a livello locale a definire i futuri rapporti politici. Dobbiamo dare in questa prossima consultazione, amministrativa ed europea, il meglio di noi stessi. Se la realizzazione della lista riformista suonasse come un “rompete le righe” i socialisti rischierebbero di non avere più voce in capitolo in un processo che ha bisogno di noi, delle nostre idee e della nostra grande tradizione. Non c’è alcun altro che può infatti sostituirci in un ruolo che è oggi essenziale per il riformismo italiano. Noi siamo ben consapevoli che lo SDI non esaurisce in sé la rappresentanza di tutta la diaspora socialista. Tuttavia, facciamo attenzione: al di fuori dello SDI non c’è alcuna struttura organizzata che possa rappresentare i socialisti in Italia, nel Partito del socialismo europeo e nell’Internazionale socialista. L’altro partito, che con troppa enfasi si è chiamato “Nuovo PSI”, per la sua collocazione nel centro destra non potrà mai rappresentare i socialisti, ma restare tutt’al più una strana anomalia, dovuta a un persistente e sempre meno giustificato risentimento. Noi non abbiamo comunque voluto sottrarci al dovere di fare tutti i tentativi per riunificare i socialisti, per ricucire il filo spezzato di un dialogo e di un confronto che è e deve restare permanente, per riportare tutti i socialisti nella loro naturale collocazione che è a sinistra dove sono nati e sono sempre stati. Siamo stati sempre noi a lanciare l’idea di un Forum che raccogliesse i socialisti, tanto più quando si è manifestata una disponibilità a ragionare su un percorso comune da parte del segretario di una importante centrale sindacale come la UIL. Non ci siamo neppure sottratti alle sollecitazioni, spesso inutilmente polemiche, dell’Associazione Socialismo è Libertà, che è composta da larga parte dei gruppi dirigenti del vecchio PSI e che per questa sua caratteristica è davvero originale nel panorama politico. Siamo stati i primi a dire che di fronte alla crisi del Psi ci siamo trovati più come singole individualità che come un vero gruppo dirigente, alla cui formazione occorrono anni, ad affrontare una situazione drammatica e gravissima. Tuttavia, oggi rivolgiamo con la nostra usuale moderazione ma con fermezza ai leader di un partito che purtroppo non c’è più, un invito semplice: mostrate più rispetto verso di noi, non vi comportate da giganti in un mondo di nani. Noi, comunque, abbiamo operato perché si creasse il Forum dei socialisti e siamo pronti al confronto, ma non siamo disponibili a fare pasticci come sarebbe una lista composta da chi come noi dello SDI sta a sinistra nella collocazione naturale dei socialisti e chi invece come il Nuovo PSI si trova a destra in una collocazione innaturale per i socialisti. Non ci imbarcheremo mai in un’avventura che non metta in chiaro principi e valori che sono stati sempre chiari ai socialisti.
Il progetto del Forum socialista
Quando abbiamo lanciato l’idea del Forum, abbiamo pensato ad una sede nella quale si possa avviare un chiarimento politico che probabilmente richiedere tempo. Non ci si venga a dire, però, che noi non siamo disponibili a fare una lista socialista perché ci stiamo impegnando per una lista riformista. Qualsiasi formazione socialista, che voglia essere e rimanere tale, deve porsi realisticamente l’interrogativo se sia possibile oggi ricostruire il PSI come era prima della sua crisi, con il suo vecchio gruppo dirigente, senza però Craxi e Amato; o se invece non sia più utile e produttivo impegnarsi per realizzare quella grande forza riformista che fu sempre in cima ai pensieri di Turati, di Saragat, di Nenni ma anche di Craxi. Noi abbiamo fatto al nostro Congresso di Genova una scelta chiara per la costruzione della Casa dei riformisti. Tuttavia, neppure questa volta vogliamo far cadere un’aspirazione all’unità che so molto sentita tra i socialisti e nello stesso SDI. Non ho esitazione a dire che se alla prossima riunione del Forum il Nuovo PSI di De Michelis passa all’opposizione del governo Berlusconi, rompendo con la destra di Fini e di Bossi, mi impegno immediatamente a riconvocare la direzione dello SDI per riflettere sulla nostra impostazione e cercare di ricavare un tracciato comune da una scelta che rappresenterebbe un indubbio fatto nuovo con il quale misurarci. Non ci faremo invece trascinare di rinvio in rinvio in una lunga attesa che il Nuovo PSI scelga poiché ci troveremo alla fine senza più un orizzonte strategico e con la crisi dello stesso SDI. Noi dobbiamo decidere rapidamente. I tempi in politica sono essenziali. Entro il prossimo mese di novembre dobbiamo sapere come ci presenteremo alle elezioni europee. Per ora sappiamo che ci presenteremo sicuramente alle amministrative con la lista dello SDI.
Il nostro percorso non è facile. La nostra strada è accidentata. Troppe volte ci accorgiamo, guardandoci intorno, che sono davvero in troppi a considerare scomoda la nostra presenza e il nostro ruolo. C’è chi spera che prima o poi finiremo in dissolvenza. Di fronte a queste attenzioni particolari noi abbiamo sempre saputo dare il segno della nostra presenza. Ma vi sono dubbi che vengono avanzati anche all’interno delle nostre fila. Voglio rassicurare tutti: lo SDI non si scioglie, le liste dello SDI saranno presenti in tutti i collegi provinciali, nella regione sarda, e in tutti i comuni dove si voterà. Ci attende un lavoro politico ed organizzativo che sarà ancora più impegnativo. Dovremo convocare una Convenzione nazionale dello SDI in sincronia con le Assemblee dei DS e della Margherita per votare un dispositivo comune con il quale si deciderà la presentazione di una lista comune dei riformisti alle europee. Per quella data dovremo sapere quali sono i nostri principali contraenti per stipulare il patto riformista. Seppure apprezzo il clima positivo che si è creato attorno a un tema da noi considerato essenziale, allora nel momento in cui decideremo, dovremo sapere che Di Pietro non aggancerà il suo vagone al treno in corsa perché in questo caso tutta la strategia riformista verrebbe compromessa e noi dello SDI saremmo costretti a dissociare la nostra partecipazione e a presentare la nostra lista anche alle europee. Dovremo nei prossimi mesi decidere se convocare prima della tornata elettorale del prossimo anno, il nostro Congresso per testimoniare nella forma più impegnativa la nostra presenza e il nostro ruolo. Dovremo preparare comunque le liste dello Sdi per le prove amministrative a partire da gennaio del prossimo anno per renderle forti e competitive.
Lo Sdi non si scioglie
Questa nostra riunione della Direzione deve servire a fare chiarezza soprattutto al nostro interno. Deve uscire dal nostro dibattito il rafforzamento dello SDI. Possiamo e dobbiamo avere un’impostazione politica che non si presti ad equivoci. Assieme a Roberto Villetti ci siamo impegnati in un lavoro di consultazioni e di discussioni che proseguirà nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. A livello parlamentare i nostri capigruppo Ottaviano Del Turco, Ugo Intini e Cesare Marini hanno assicurato una presenza politica assai visibile.
La preparazione delle liste e il rafforzamento della nostra organizzazione è affidato al nostro responsabile di organizzazione Rapisardo Antinucci e al nostro responsabile Enti Locali Gerardo Labellarte. Dobbiamo prevedere sul tema delle liste una riunione dell’esecutivo nazionale allargata ai segretari regionali e una con i nostri segretari di federazione. In conclusione ritorno, quindi, all’agenda che il nostro partito si deve dare per affrontare una fase altamente impegnativa. Tutto il partito deve avvertire che stiamo entrando in una fase che sarà molto difficile. Dobbiamo contrastare qualsiasi inerzia che potrebbe nascere dalla formazione di una lista riformista alle europee.
Dobbiamo mettere in rilievo il valore della consultazione amministrativa come un banco di prova decisivo e fondamentale. Qualsiasi sbandamento potrebbe crearci forti danni. Sarà mia cura che il partito avverta come sia essenziale il suo rafforzamento. Più alta è la sfida, più forte deve essere il nostro impegno.

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