17 novembre 2003. Intervento di Massimo D’alema al convegno di Italiani Europei : "Riformismo socialista e Italia repubblicana. Storia e politica".

17 novembre 2003

Ascoltando questo nostro dibattito così appassionato mi è venuta in mente una bellissima risposta che dette una volta Ciun en Lai quando gli chiesero un giudizio sulla rivoluzione francese e lui disse: “Forse è presto, gli animi sono ancora troppo accesi”.





I cinesi hanno un modo di giudicare millenario rispetto al quale quei centosessanta anni erano poco, ma noi siamo stati coraggiosi a voler portare nella sede di una riflessione politica e culturale una materia che tocca ancora così profondamente gli animi, le memorie, i sentimenti e la coscienza di tanti tra noi. Però io credo sia stato utile. Immagino che anche questo ritornare a discutere su passaggi così significativi della nostra storia recente ecciterà la stampa negli aneddoti, nel dipingere le persone, ci si espone ecco, ma insomma lo sapevamo. Ma al di là di quello che sarà — io spero venga colto - il senso di una discussione vera e appassionata in fondo, non era mai successo che ci si rivedessimo tutti quanti così, ed era inevitabile che questa fosse anche l’occasione per molti, anche per levarsi cose che qualcuno si era tenuto sullo stomaco magari per tanto tempo; era inevitabile che fosse così, tornare a discutere, riflettere sulla storia del socialismo italiano.


Noi non abbiamo voluto fare un convegno su Craxi e sul craxismo ma abbiamo ovviamente collocato la riflessione sulla fase conclusiva, sul lungo periodo quasi un ventennio di storia socialista nel dopoguerra, l’abbiamo voluta collocare nel quadro di una riflessione sul ruolo che i socialisti hanno avuto nella storia dell’Italia repubblicana e le relazioni di questa mattina hanno dato un contributo illuminante a collocare anche l’esperienza del PSI sotto la guida di Craxi in un rapporto insieme di continuità per certi aspetti, per altri aspetti di rottura, di innovazione, con tutta la tradizione socialista.


Tornare a discutere di questi temi in una sede storico— politica io credo sia il modo migliore di rispondere nei fatti. Se noi considerassimo il partito socialista dagli anni ‘70 fino al ‘92 come una banda criminale non organizzeremmo dei convegni storici, non staremmo a discutere del ruolo che ha avuto il partito socialista nella storia del Paese, del lascito del riformismo socialista. Non sarebbe materia di una discussione storico-politica come quella che noi abbiamo avuto.


C’è un bellissimo racconto di Borges, breve come sono certi suoi racconti, che narra del conflitto e dell’odio fra due teologi che si uccidono a vicenda sostanzialmente; uno fa uccidere l’altro alla fine di un processo per eresia e gli allievi poi uccidono il sopravvissuto. Si uccide in una tragica guerra di religione e dopo la morte essi scoprono che in un bizzarro cosmo duale nel quale ogni uno è due, essi sono semplicemente le due facce della stessa medaglia cioè la stessa persona. E’ una storia drammatica ma a mio giudizio significativa forse come chiave di lettura della storia della sinistra italiana.


Ancora poco è stata usata questa chiave di lettura cioè riconoscere il carattere unitario della storia della sinistra italiana come storia di un movimento che nel suo complesso le diverse parti sono complementari tra di loro. A cominciare dalla singolare complementarietà di due grandi partiti della sinistra dei quali il partito comunista si è tuttavia venuto organizzando nella società italiana per rappresentanza sociale, rapporti con i sindacati, con le cooperative, con le amministrazioni locali eccetera, e diventando largamente erede di un riformismo di fatto che si era organizzato nell’800, nella prima parte del ‘900 nel movimento socialista. Pure questo nell’involucro del rapporto con l’unione sovietica e della scelta comunista e cioè in rapporto drammaticamente contraddittorio tra la sua natura reale, i suoi legami con la società, l’Emilia rossa, il ceto medio, le cooperative, il suo riformismo reale e la sua caratterizzazione ideologica. E il partito socialista che è stata una forza riformista con caratteri peculiarmente innovativi in una determinata fase storica nel quadro del riformismo europeo tuttavia è stato l’unico partito riformista del socialismo europeo che non è mai riuscito a darsi un forte radicamento sociale e una vera rappresentanza del mondo del lavoro. Insomma un riformismo senza rappresentanza nel mondo del lavoro, un mondo del lavoro che si è rappresentato contraddittoriamente in una forza ideologicamente comunista.


C’è proprio una specularità di questi due singolari partiti e non è un caso che questa storia così intrecciata al di là dei diversi movimenti politici. E’ stato ricordato stamane almeno fino alla vigilia del 1956 l’Italia è anche il Paese in cui è più forte il legame complessivo della sinistra con l’esperienza sovietica, questione che non ha riguardato esclusivamente il partito comunista. E non c’è dubbio che questa storia intrecciata si conclude con il paradosso di una duplice sconfitta. Badate, se davvero la storia della sinistra italiana fosse stata la storia di una guerra civile alla fine questa guerra civile avrebbe avuto un vincitore e invece non c’è un vincitore, all’inizio degli anni ‘90 c’è una duplice sconfitta, le elezioni le vince Berlusconi.


Io insisto su questo perché nella memoria socialista invece si è radicata una convinzione dell’essere stato vittima di un complotto da parte dei residui comunisti. Il nostro partito non vinse le elezioni. Io capisco, questa ricostruzione leggendaria è frutto di un trauma e spesso il trauma produce una verità psicologica che non è la verità vera. All’inizio degli anni ‘90 la storia della sinistra italiana si conclude con una duplice sconfitta e non col prevalere di una parte sull’altra.


La sconfitta del PCI che subisce una scissione drammatica che cambia il nome e che non è soltanto l’effetto della caduta del comunismo sovietico ma è l’effetto della sconfitta di quella specifica visione che fu propria del comunismo italiano cioè della illusione di una riforma democratica del comunismo. Nella sua ultima versione è la sconfitta dell’illusione gorbacioviana che fino all’ultimo fu alimentata nel PCI come residuo legame, con l’idea di un comunismo democratico che poteva uscire dalle rovine del sistema sovietico con una grande novità planetaria. Ma così non fu. Da qui il travaglio del cambiamento, della scissione; è stato ricordato, il PDS esce dalle elezioni politiche all’indomani della scissione un partito che ha il 16% dei voti. Dov’è la vittoria nella guerra civile? E’ una forza che approda in condizioni di estrema debolezza all’appuntamento della crisi del sistema dei partiti. Noi vincemmo dopo diversi anni e dopo aver compiuto una profonda svolta politica, quando noi ci presentammo alle elezioni come il centro sinistra attraverso una operazione che piaccia o non piaccia fu di recupero degli aspetti positivi delle tradizioni democratiche del Paese. Noi vincemmo con l’ulivo ma l’ulivo si presentava come una forza che chiamava a raccolta esplicitamente forze democristiane e socialiste in una visione che era quello del recupero dei valori positivi. Non vincemmo sul terreno dell’antipolitica e di tangentopoli. Su quell’onda vinse chi naturalmente era per ragioni persino strutturali più capace di noi di raccogliere una rivolta contro i partiti.


Nel momento in cui entra in crisi la forza comunista il grande paradosso di questo Paese è che il partito socialista non appare in grado di porsi alla testa della sinistra nella prospettiva di una alternativa di governo alla democrazia cristiana, e non perché qualche complotto glielo abbia impedito ma perché si erano venute esaurendo. Ugo Intini ha detto “si era esaurita la nostra spinta propulsiva. Un discorso onesto. Si erano venute esaurendo le sue ambizioni storiche sui due fronti: l’ambizione a contendere alla democrazia cristiana la guida del Paese e l’ambizione a contendere al partito comunista la guida della sinistra. Si era venuto esaurendo nel corso di una lunga guerra di guerriglia.


La questione morale. Non soltanto è giusto riconoscere che i fenomeni di corruzione, al di là del problema del finanziamento dei partiti, esistevano. E mentre sarebbe sbagliato ricondurre questi fenomeni alla demonizzazione di un partito perché andavano certamente al di là di quel partito e coinvolgevano settori ampi di un ceto politico, bisogna pur dire che il blocco della democrazia italiana, la mancanza di un ricambio delle classi dirigenti, l’aver trasferito la competizione politica dal terreno naturale di competizione per il governo al terreno di una lotta per il potere, di una competizione/collaborazione. Voi capite quanto è anomalo che la competizione politica avvenga sul terreno della collaborazione e come questo in definitiva sposta il conflitto politico dalla lotta per la conquista del governo, alla lotta per la conquista di posizioni di potere inesorabilmente aprendo la strada anche a fenomeni di tipo degenerativo. Questo è il problema politico. Pensare che il sistema dei partiti sia stato rovesciato dai magistrati è sbagliato. Certo, ci fu quell’offensiva giudiziaria. All’epoca io ero in una posizione in cui era difficile dire ciò che dissi e che non fu di avallo anzi, fu di preoccupazione per il rischio che la magistratura potesse apparire come la punta di diamante della rivoluzione italiana e di rivendicazione dei doveri e dei compiti della politica. Ma non c’è il minimo dubbio che l’offensiva giudiziaria si scontrò con un sistema i cui architravi erano ormai marciti. I partiti persero perché i cittadini si misero dalla parte dei magistrati e non dei partiti. La politica è il rapporto dì forza. Fu l’opinione pubblica, fu il Paese che fu contro i partiti. I magistrati hanno attaccato anche Chirac, ma Chirac è presidente della Francia. La magistratura tedesca ha inquisito Koll ma questo non ha travolto la CDU. La caduta è stata perché quel sistema era fradicio nei suoi architravi, nelle sue strutture portanti e non ebbe il consenso del Paese. Questa è la verità.


In definitiva la questione è politica. Noi ci dobbiamo domandare come mai quella carica innovativa che oggi nessuno potrebbe negare alla elaborazione socialista della seconda metà degli anni ‘70 e che noi stessi non qui per la prima volta, a qualcuno di noi è capitato di dirlo in convegni e così via, perché si era esaurita quella carica innovativa. Certamente in questo c’è stata anche una responsabilità del partito comunista e cioè di avere fatto prevalere un istinto di sopravvivenza del PCI, un ritardo drammatico nel cambiamento del Paese. L’incapacità a cogliere l’opportunità che l’iniziativa socialista poteva aprire per tutta la sinistra. Ma questo avrebbe messo in discussione la natura comunista di quel partito, il limite contro il quale si scontra. E Berlinguer che a mio giudizio, e questo non lo si deve sottovalutare, è l’uomo politico che capisce prima degli altri che stanno venendo meno le basi di consenso nel Paese alla democrazia dei partiti, e capisce che si apre un rischio per la democrazia se non si rimette radici in un Paese che cambia. Ma interpreta questa rottura nei termini dell’aprirsi di una questione morale mentre invece quello che si apriva era il drammatico problema di rinnovamento delle istituzioni, della politica e di ricambio delle classi dirigenti. E risponde alla questione morale nei termini della rivendicazione di una diversità comunista che era una risposta autoconservativa, un tentativo di tirarsi fuori e non era una risposta invece capace di indicare una prospettiva per il Paese.


Quando io dico l’esaurirsi della spinta innovativa del craxismo certamente è anche il frutto di responsabilità dell’altro grande partito della sinistra ma quella ci fu. Quando Veltroni ed io andammo subito dopo il congresso di Bologna e prima del successivo congresso di Rimini perché il cambiamento ebbe questo percorso lungo, sofferto, accidentato, andammo a parlare con Craxi e con Giuliano Amato senza dubbio è vero che noi chiedemmo a Craxi di non precipitare il Paese verso le elezioni anticipate e che Craxi prese impegno con noi a non farlo.


Ho già dato atto in altre circostanze di un comportamento leale verso il nostro partito nel momento di una drammatica trasformazione. E’ anche vero, però, che io che non avevo una particolare conoscenza diretta rimasi colpito dall’incontro con un uomo che appariva piuttosto scettico sul futuro del Paese, abbastanza sfiduciato circa le possibilità della sinistra, aspramente critico verso il suo partito in termini che allora si sarebbero detti di un antisocialismo quasi viscerale nel senso di considerarlo uno strumento scarsamente servibile ad un processo di rinnovamento profondo del Paese. E rimasi colpito dalla sensazione di un uomo che quasi ti dice “io ci ho provato”.


E’ una testimonianza pro veritate, non c’è nessuna ragione polemica, è passato tanto tempo.


Tutto questo nel momento in cui paradossalmente si apriva per lui la possibilità di dire... ha torto Tognoli, è chiaro che non era colpa della democrazia cristiana se era crollato il muro di Berlino tuttavia quell’evento determinava una novità enorme per il nostro Paese perché la fine del PCI che noi sciogliemmo poneva fine allo stato di necessità entro il quale la politica della governabilità si realizzava nell’incontro tra socialisti e democristiani e creava le condizioni perché un grande leader della sinistra potesse dire: da oggi in poi la nostra collocazione politico parlamentare di governo sarà analoga a quella del PDS. Mi metto alla testa di una sinistra che lavora ad un programma comune, ad una prospettiva comune. Questo non ci fu e fino all’ultimo anche dopo le elezioni del ‘92.


Certamente Craxi ci chiese di astenerci sul governo Craxi ma dentro uno schema che era quello dell’accordo di potere della democrazia cristiana: mettiamo Forlani al Quirinale, io faccio il governo con la democrazia cristiana e voi vi astenete. Ora sinceramente lo schema dentro il quale noi dovevamo essere sussunti era lo schema di un patto di potere con la democrazia che si riteneva dovesse continuare ad essere il quadro della politica italiana. Nel ‘92!


Io poi ero fra quelli più attenti ai messaggi della politica ma sinceramente credo che questo fosse lo specchio di una visione che aveva esaurito la sua carica innovativa.





AMATO





Posso interromperti un attimo Massimo? Perché quell’episodio, visto che ricostruiamo la tragedia, è un momento topico della tragedia, perché quando noi facciamo quella crisi di governo e Craxi mi invitò ad andarla ad annunciare ai ministri democristiani a un convegno che si stava svolgendo alla Luiss era il momento per cambiare. A quel punto io ed altri lo spingevamo a cambiare e lui ricordo che diversamente da come avrebbe detto cinque anni prima mi rispondeva “io non posso ,essere l’eterno Giamburrasca che arriva allo scioglimento da solo perché si impunta. Abbiamo bisogno che altri la vedano così”.


In quel momento arriva quel messaggio da voi che è più che legittimo perché voi avevate appena cambiato partito, avevate il simbolo che ancora non era in grado di farsi percepire dagli elettori e lui accetta che non accada niente in realtà. E’ impressionante ma qui finiscono per convergere i due partiti in una mossa che ci infila tutti nella bufera.





D‘ALEMA





Prima di dire una cosa sul futuro siccome Giuliano non mi ha assolto mi assolvo da solo. E’ vero che il governo Amato fu l’ultimo governo del centro sinistra sia pure nelle condizioni del pentapartito. Del secondo centro sinistra sia pure nelle condizioni di una crisi che ne fece un governo largamente al di sopra dei partiti ed è anche vero che il governo Amato come mi è capitato più volte di dire, fu il governo che ebbe nell’emergenza il coraggio di scelte estremamente nette che hanno salvato il Paese e avviato il processo di risanamento.


Che questo sia avvenuto con noi che facevamo le barricate questo sinceramente avrei qualche ragionevole dubbio perché io ero capogruppo di quella opposizione e non di rado mi incontravo col presidente del Consiglio per vedere in che modo potevamo dare una mano a evitare che ,una maggioranza che oramai era in una palese e drammatica crisi lasciasse il Paese orfano di un governo che era necessario. Eravamo già entrati in un’altra fase.





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