15.03.1998 - OCCORRE L'ELEZIONE DIRETTA DELL'ASSEMBLEA COSTITUENTE. Sulle riforme, il no dei socialisti

01 gennaio 2000

Un parlamento eletto per fare le riforme costituzionali dovrebbe andare a casa il giorno in cui dimostra di non essere in grado di farle.
Un parlamento che si è posto l’obiettivo di disegnare una nuova Repubblica federale dovrebbe andare a casa il giorno in cui dimostra di non essere in grado di definire il modello federalista dello Stato e si appresta con modifiche, apparentemente insignificanti, a normalizzare il Paese con l’uso spregiudicato dell’ambiguità. Così dovrebbero parlare i socialisti e così in democrazia dovrebbe accadere.
Non si può infatti accettare che la Bicamerale, di fallimento in fallimento, lasci sul campo solo l’accordo “di casa Letta” sulla riforma del sistema elettorale, un’intesa sottobanco, per dare un altro giro di vite alla democrazia rappresentativa.
Se la prima Repubblica prese corpo in un compromesso, tanto discutibile quanto autorevole, tra De Gasperi e Togliatti, la seconda Repubblica si cementerebbe in modo indecente su un compromesso elettorale tra Fini e D ‘Alema.
Un compromesso ormai chiaro, fatto infatti per non cambiare sostanzialmente nulla e per conservare tutto. Per non realizzare il federalismo, né la riforma dello Stato, né una nuova forma di governo, né per attuare la riforma del nostro sistema giudiziario.
Un compromesso quello che potrebbe profilarsi tra post-comunisti e post-fascisti ispirato solo dalla reciproca volontà di piegare ai propri fini la legge elettorale con una legge più truffa di quella cosiddetta “truffa” degli anni ‘50, che assegnerebbe a poche oligarchie politiche la possibilità di predeterminare l’elezione di tutti i parlamentari, in forma ancora più marcata di quanto già non avvenga con l’attuale sistema. Naturalmente in nome del bipolarismo, nonostante i guasti che questo bipolarismo ha sinora prodotto.
D’altra parte le premesse del lavoro della commissione Bicamerale non erano buone premesse. Le stesse forze che oggi sono disposte ad un compromesso debole sulle istituzioni, forte nell’imbroglio, si opposero all’elezione diretta di una Assemblea Costituente, che avrebbe potuto lavorare senza i condizionamenti e i tatticismi che la sinistra di potere è stata costretta a fare e a subire nel nome della governabilità e della tenuta della maggioranza.
Il primo errore è stato quello di aver impegnato D’Alema in prima persona, in quanto leader del maggiore partito di governo, alla presidenza della Bicamerale, legando così le sorti della commissione costituente alle sorti del governo. Il governo Prodi-D’Alema si è così perfettamente identificato nello
Stato e da qui la Bicamerale è diventata uno strumento del regime, in una logica politica aberrante che con la riforma della Costituzione poco aveva a che fare. D’Alema è stato eletto presidente della Bicamerale senza alcuna visione strategica né sua, né di chi lo ha sostenuto, senza alcun mandato. E’ stato eletto perché il più adatto a garantire, in quanto garante del Governo, il sistema delle mediazioni tra maggioranza e opposizioni, dandogli nelle mani lo straordinario potere di scegliere il terreno su cui trattare.
Secondo tragico errore: non si è voluto fin dall’inizio mettere mano alla modifica della prima parte della Costituzione per affrontare con coraggio la revisione dei principi generali della Costituzione attuale. Con questi presupposti non si poteva fare tanta strada.
Ma proprio per queste contraddizioni, il tema delle grandi riforme, che ha caratterizzato la politica dei socialisti fino agli anni ‘80, dovrà essere al centro della politica dei nuovi Socialisti Democratici Italiani.
Potrà caratterizzare la politica del nuovo partito socialista dando perfettamente ragione allo sforzi di unità messi in campo dalla costituente socialista dell’8 febbraio.
Sul tema delle riforme i socialisti possono infatti ricostruire una parte importante della propria identità, trasferendo dalle aule parlamentari alla società e nel sistema diffuso delle autonomie locali il significato profondo di una riforma dello Stato vera: Nella consapevolezza che le questioni dello Stato e della democrazia sono intimamente legate a quelle più generale delle libertà.
Possiamo proporci quattro obiettivi. Quello a più lungo termine riguarda come si è detto la riforma di tutta la Costituzione attuale, prima parte compresa. perché solo dalla modifica della prima parte della Costituzione può nascere la Seconda Repubblica.
Si tratta a ‘50 anni di distanza di fare ciò che allora non riuscì né alla cultura liberale né a quella socialista, che furono sostanzialmente escluse dalla Costituzione del ‘47, là dove prevalse la sintesi fra la cultura cattolica (il pieno sviluppo della persona umana) e quella comunista (l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori) e dove insieme riconobbero la Chiesa cattolica come Chiesa di Stato, mettendo fuori un principio fondamentale di libertà.
Secondo, si tratta di sostenere il nostro progetto di riforma costituzionale sfidando posizioni oggi certamente maggioritarie, avendo il coraggio di dire che l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, senza poteri significativi al nuovo Presidente, è una contraddizione, che mortifica la ragioni della democrazia, ed è un imbroglio per gli elettori in quanto annulla il valore dell’elezione diretta del Presidente.
Con forza, dobbiamo sostenere, nonostante le resistenze del Parlamento, un federalismo vero, per una chiara trasformazione dello Stato in senso federale contro le posizioni dei vecchi e dei nuovi centralisti. Per noi, il federalismo rappresenta l’unico modo serio per unire il Paese anziché dividerlo, per rispondere ai problemi del Nord coma a quelli del sud, e per organizzare uno Stato moderno. D’altra parte bisogna essere chiari, dividere lo Stato centrale e le sue competenze tra istituzioni diverse, non significa dividere la nazione, ma significa tenerla unita in modo diverso.
Per noi, federalismo significa stare dalla parte di uno Stato che deve essere articolato in modo paritario tra uno Stato centrale, tra uno Stato delle regioni e uno Stato dei comuni.
Togliendo, ad esempio, così come abbiamo scritto nel testo depositato in Bicamerale, alle Province valenza costituzionale, per trasformarle nella sede dell’autocoordinamento dei comuni, come lo erano gli antichi ma potentissimi Consorzi intercomunali, regolamentate dalle Regioni, per affrontare a livello sovraccomunale quei problemi che i Comuni da soli non sarebbero in grado di risolvere.
Il nostro modello federalista si appoggia quindi sostanzialmente sul ruolo delle Regioni, ma soprattutto sul ruolo di tutti i comuni, non solo di quelli grandi. Per questo siamo contro qualsiasi ipotesi centralistica, da chiunque esercitata. Siamo contro il centralismo regionale e quello oggi rivendicato dalle Province. Per questo non siamo dalla parte del ridicolo partito dei sindaci che vogliono diventare governatori delle Città metropolitane, a Milano, a Napoli, a Roma, come a Catania o a Trieste. E siamo contro la costituzionalizzazione delle Città metropolitane che non devono essere imposte dal Parlamento, ma solo se condivise e riconosciute utili dai Comuni, potranno da loro stessi essere proposte alle Regioni, con compiti e ordinamenti differenziati a seconda dei casi.
Ancora sul federalismo, a distanza di vent’anni, possiamo nuovamente citare Proudhon, mettendo in stretta correlazione le questioni dello Stato con il tema delle libertà. “chi dice libertà, dice federalismo o non dice niente, chi dice Repubblica, dice federalismo o non dice niente, che dice socialismo dice federalismo o non dice niente”.
Terzo, difendere la separazione dei poteri significa modificare sostanzialmente l’attuale sistema giudiziario, introducendo la separazione delle carriere e ritornando sul tema per il quale vincemmo il referendum sulle responsabilità dei magistrati. Bisogna ribellarsi ad un sistema politico che si piega supinamente alle volontà corporative e strabordanti della parte più politicizzata della magistratura, bisogna evitare che in parlamento passi la logica corrotta dello scambio: tu mi salvi e io ti premio, mandando a farsi benedire il tanto decantato equilibrio tra poteri.
Quarto: sul sistema elettorale dobbiamo sfatare ogni ipocrisia, non è vero che bipolarismo e maggioritario vuol dire uninominale e che maggioritario vuol dire meno partiti e più governabilità, come l’esperienza dal 1994 ad oggi dimostra.
Vogliamo garantire stabilità dei governi senza mortificare la rappresentanza delle differenti forze politiche? Allora lo si faccia nel modo più semplice. Come avviene in molti Paesi europei, attraverso il premio maggioranza e il rafforzamento del sistema proporzionale con sbarramento, sistema proporzionale che può convivere benissimo sia con elezioni di tipo uninominale sia con l’elezione diretta del Capo dello Stato o del Governo.
Sono solo alcuni degli argomenti su cui organizzare l’unità dei socialisti, andando anche oltre l’unità finora raggiunta, per dar vita con tutti coloro che ci stanno ad un partito socialista unito, autonomista e riformista. E intorno al nuovo partito dei socialisti organizzare nel paese una sinistra socialista e liberale fondata sulla verità

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