12 ottobre 2008 - Il testo della proposta di legge per l’Assemblea Costituente

12 ottobre 2008

Relazione



Da oltre trent’anni le forze politiche e il Parlamento discutono della necessità di una revisione costituzionale, partendo dalla considerazione che le trasformazioni che sono intervenute nella società e nell’economia italiana non potevano non avere ripercussioni sulla Legge fondamentale della nostra Repubblica.

Con il passare degli anni la crisi si è aggravata e la distanza tra società e istituzioni si è allargata, ma nonostante le dichiarazioni di buona volontà, la Costituzione non riesce ad avere quella revisione che il Paese si aspetta.

La crisi sistemica del Paese, la crisi strutturale del sistema, non può quindi essere affrontata con provvedimenti parziali, né si può più pensare che le riforme elettorali, che fra l’altro dovrebbero essere approvate a ragion di logica dopo la definizione del nuovo assetto istituzionale, o almeno contestualmente, possano risolvere i problemi complessi della crisi. Il Paese ha bisogno di uscire dalla confusione e dall’incertezza che ha caratterizzato e continua a caratterizzare la vita politica di questi ultimi decenni, con la forza di una nuova Carta Costituzionale. Solo così, rimettendo nelle mani della volontà popolare il processo costituente, il Paese può ritrovare quella fiducia e quelle passioni civili che sembra aver perso.

Il Novecento, nonostante il peso di tragedie politiche, di disastri umani e di aspre tensioni sociali, ha prodotto grandi sconvolgimenti negli assetti mondiali. Tre grandi guerre, due calde ed una fredda, hanno inciso in profondità nella vita degli Stati nazionali.

La storia ci ha insegnato che a un certo momento della lotta tra poteri (politici, civili e sociali) si pone un problema di forza, la cui soluzione causa una rottura dell’equilibrio istituzionale.

I socialisti hanno sempre avvertito per tempo il verificarsi di questa rottura, ma non sempre sono riusciti ad imporre una soluzione democratica e pacifica.

Nel 1919 al dilemma “Costituente o dittatura del proletariato” optarono, con lo scellerato congresso di Bologna, per la dittatura del proletariato. La conclusione fu fatale per il Paese.

Nel 1945 l’alternativa “La costituente o il caos” ebbe una soluzione democratica anche per il convergere di vari fattori internazionali, la tregua di Yalta, e nazionali, la nascita dei grandi partiti di massa.

Nacque così la Costituzione della conciliazione tra popolo e Stato, problema irrisolto con il primo Risorgimento. Ma il patto costituzionale aveva un punto debole (all’epoca necessario, anzi obbligato): la mediazione tra popolo e Stato era assunta e garantita dai grandi partiti di massa.

Fu così che i meccanismi istituzionali rappresentativi furono organizzati intorno agli assi di potere dei partiti e l’Assemblea Costituente affidò ai partiti e al loro concorso il radicamento della democrazia italiana. Ma in realtà ancora una volta, così facendo, non si era costruito uno Stato democratico che fosse la casa per milioni di uomini, bensì quei milioni di uomini erano stati affidati alla capacità di tenuta dei partiti. E finché i partiti tennero, oltre che nelle istituzioni anche nella società, i milioni di uomini vi si riconobbero; quando la società fu cresciuta e la rete in qualche modo finì per ossificarsi all’interno delle istituzioni, iniziò la fase della quale oggi stiamo discutendo.

L’esplosione civile, che negli anni ’60 e ’70 provoca una dilatazione della partecipazione dell’ opinione pubblica oltre i confini del controllo dei partiti, fa entrare in crisi il sistema istituzionale.

Nel 1979 il problema è avvertito dai socialisti che sollevano la questione della “Grande Riforma”, ma le burocrazie dei due grandi partiti (DC e PCI) affondano la proposta sotto giudizi impietosi: “deriva autoritaria” e “ neo cesarismo craxiano”.

Nel 1991 il messaggio del Capo dello Stato Francesca Cossiga alle Camere sul tema della revisione costituzionale viene sommerso dall’accusa di tradimento costituzionale.

Neanche il crollo del muro di Berlino riesce ad aprire gli occhi alle oligarchie dei burocrati di partito.

La necessità di un revisionismo costituzionale nasce nell’opinione pubblica a partire dagli anni ’70, generata e alimentata dai radicali cambiamenti avvenuti nel tessuto socio-economico del Paese, cambiamenti resi possibili proprio dalle lungimiranti scelte operate dai padri costituenti in materia di libertà civili, politiche ed economiche. Il primo decennio di vita della Costituzione è testimone di quel miracolo economico che rende possibile mettere mano, alle soglie degli anni ’60, alla costruzione dello Stato del benessere. Mentre l’industrializzazione e l’urbanizzazione cambiano il volto del Paese e l’aumento della produttività permette il miglioramento delle condizioni di vita, milioni di italiani proprio in fabbrica apprendono l’esercizio e la tutela dei propri diritti, acquistano maggiore consapevolezza dei fondamenti della democrazia e rivendicano maggiore equità e protezione. La prima crisi petrolifera scuote il sistema economico mondiale e i suoi equilibri, ma solo alle soglie degli anni ’80 l’economia mondiale esce dalla crisi. Economia e società vengono investite da un vento di rinnovamento, i modi di lavoro e di vita cambiano radicalmente. I più importanti processi di trasformazione che investono la società italiana sono il riconoscimento dei diritti individuali, la moltiplicazione dei canali di mobilità e di avanzamento sociale, la proliferazione dei soggetti collettivi, intermedi tra Stato e individui, l’avvento della modernizzazione e il principio di efficienza. L’impetuosa crescita del Paese pone il problema della corrispondenza tra istituzioni arretrate e realtà sociale trasformata o in trasformazione. Il tema del divario tra società politica e società civile diventa una costante. Alla fine degli anni ’80 anche l’Italia entra nella fase finale dell’integrazione europea e mentre la società economica è senz’altro pronta per intraprendere questo cammino, lo stesso non può dirsi per la società politica. Le disfunzioni del sistema costituzionale e amministrativo, la loro instabilità e inefficienza, si rendono evidenti in una pletora di manchevolezze, limiti e condizionamenti. L’apparato istituzionale sembra prigioniero di una carenza decisionale che si traduce nella inadeguatezza dei Governi e del parlamento a risolvere o anche solo ad affrontare i principali problemi del Paese: lo squilibrio Nord-Sud, l’indebitamento pubblico, le deficienze dell’apparato statale. Il deterioramento istituzionale viene declinato nella instabilità dei governi, nella fragilità delle maggioranze, nella frammentazione dei partiti, nella mancanza di alternanza al governo, nella lentezza dei lavori parlamentari, nell’inefficienza del bicameralismo, nella crisi della giustizia e nei conflitti tra poteri (tra governo e magistratura, tra governo e parlamento). Quando il Paese viene travolto dallo scandalo di Tangentopoli, il distacco della gente dalle istituzioni è netto, l’immagine alta dello Stato come garante dell’ordinato svolgimento della vita civile e amministrativa si è ormai persa, ma neanche la tempesta giudiziaria produce la tensione politica necessaria per una revisione costituzionale. Alla crisi delle istituzioni si accompagna una profonda crisi dei partiti, e i partiti a cui la Carta del ‘47 aveva consegnato gli italiani vanno via via sparendo. Contemporaneamente con la modifica delle leggi elettorali a partire dagli anni ’90, il Parlamento modifica di fatto la Costituzione e il suo spirito originario, la Costituzione “materiale” non corrisponde più a quella “formale”. E siamo all’oggi. La sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, della politica, dei partiti e persino dello Stato nelle sue articolazioni centrale, regionale e locale ha raggiunto un livello mai conosciuto dal dopoguerra. Il sistema istituzionale mostra i segni di un cedimento strutturale. L’ attuale forma di governo è un ibrido, abbiamo ancora costituzionalmente un sistema di governo di tipo parlamentare, ma con un Presidente del Consiglio di fatto eletto direttamente dai cittadini. La forma dello Stato è in bilico tra Stato unitario e Stato federale. Siamo di fronte a cessioni di sovranità al federalismo sopranazionale e cessioni di sovranità al federalismo infranazionale. Debole è il collegamento tra garanzia assoluta delle libertà politiche e sviluppo tendenziale dei diritti sociali. A distanza di centocinquanta anni dalla nascita dell’unità di Italia, si sta riproponendo la questione che già allora vide contrapposti i sostenitori dello Stato unitario, tra i quali Mazzini e Garibaldi insieme al Regno Sabaudo, e i federalisti, come Gioberti e Cattaneo, senza certezza di riferimenti costituzionali. Il federalismo nasce sulla spinta di una diversa modalità di prelievo e distribuzione fiscale, ma nella nostra Costituzione non c’è traccia di federalismo politico anzi, per la verità, è espressamente contraddetto.

A un’esigenza acclarata di revisionismo costituzionale si è però accompagnato per tanti anni nel Paese un sentimento conservatore che non ha voluto riconoscere il carattere di “provvisorietà” della Costituzione, già denunciato dai costituenti fin dal 1947, e non ha voluto riconoscere che la Costituzione “essendo di tutti” si può e si deve cambiare nel momento in cui emergono valide esigenze. L’altra manifestazione del lungo conservatorismo è stata quella di escludere dal processo riformatore la prima parte, quella in cui si trovano i principi fondativi dell’ordinamento e le garanzie delle libertà e dei diritti. Tale impostazione fu assunta persino dal Parlamento quando, ammettendo l’inadeguatezza della struttura parlamentare, decise di affidare la riforma alla Bicamerale ma limitandone il mandato a modificare solo la seconda parte. Questo ha avuto come effetto di considerare la Costituzione come composta da parti separate e distinte, contro un’acquisizione storica del costituzionalismo secondo la quale esiste una strettissima correlazione tra principi e struttura organizzativa dello Stato. Anzi è proprio la struttura dello Stato ad essere strumento e garanzia dell’attuazione della prima parte. L’idea che si possa cambiare la seconda parte ma non la prima, non riconoscendo il valore essenziale dell’inscindibilità dell’intero testo costituzionale, è un non senso che rischia di mettere in pericolo principi e valori, riducendo la prima parte ad essere “isolata e muta”. Come è stato da più parti sostenuto bisogna ripartire dai principi, per salvarli e arricchirli, bisogna ripartire dalla rilettura delle libertà e dei diritti per aggiornarli alle mutate esigenze. Bisogna riaprire il canale di discussione democratica non solo sulla difesa dei principi e dei valori ma anche in merito alla direzione in cui debbano essere estesi. Una politica delle libertà e dei diritti dovrebbe orientare le modifiche della seconda parte e non viceversa, “altrimenti la seconda parte rimane prigioniera di interessi particolari e contingenti”, come sono stati particolari e contingenti gli interessi che hanno prodotto le poche modifiche fin qui introdotte, povere e contraddittorie. Dal dibattito politico e giuridico si può concludere che la Costituzione si sia logorata rimanendo in piedi così com’è non per adesione e convinzione ma per incapacità della classe politica di avere forza sufficiente per modificarla.

Per trent’anni si è cercato di porre mano ad un problema reale facendo ricorso a Commissioni Parlamentari e a forme di manutenzione marginale della Costituzione, nella illusione che solo l’introduzione di leggi elettorali maggioritarie avrebbe reso più agevole l’uso dell’art. 138 della Costituzione .

E’ impressionante riprendere il dibattito parlamentare che si sviluppò alla Camera il 2 e 3 agosto 1995 sui disegni di legge costituzionale di modifica dell’art. 138. Tutti i gruppi politici convennero sulla necessità di affrontare il tema della definizione delle regole per la revisione costituzionale.

Nelle proposte di legge del centrodestra e della Lega apparve per la prima volta l’ipotesi della istituzione di una Assemblea Costituente.

Dopo il 1997 il fallimento della Bicamerale, che succede al fallimento di altre Bicamerali, è la prova evidente che non è possibile regolare una crisi negli equilibri istituzionali facendo ricorso agli esercizi di palazzo senza affrontare, sul tema, il confronto col popolo e la discussione nel popolo.

Contemporaneamente, almeno dal ‘92 ad oggi, non c’è legislatura che non si sia dichiarata costituente, ma nessuna è riuscita a mettere mano alla Riforma in modo significativo.

I socialisti pensano oggi, come hanno sempre sostenuto in passato, che la via maestra sia dare la parola al popolo.

La proposta di iniziativa popolare per l’istituzione di una Assemblea Costituente è nel solco della tradizione democratica e popolare dei socialisti, riconosce come essenziale per il Paese una Grande Riforma, tende ad evitare che tentazioni contraddittorie di separatismo politico e territoriale distruggano l’immenso contributo di sacrifici e di sofferenza che il popolo italiano ha dato per la costruzione di una libera Repubblica.





Art. 1. Il popolo italiano, a suffragio universale e diretto, elegge l’Assemblea Costituente della Repubblica italiana. L’assemblea Costituente redige e adotta la nuova Costituzione.



Art. 2. L’assemblea Costituente è composta da settantacinque membri eletti con metodo proporzionale atto a garantire la massima rappresentatività e disciplinato con legge ordinaria.

L’Assemblea Costituente è eletta entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale.

Sono eleggibili tutti i cittadini italiani maggiorenni che abbiano i requisiti di eleggibilità alla Camera dei Deputati, ad eccezione dei membri del Governo, del Parlamento italiano, del Parlamento europeo.



Art. 3. Il Presidente della Repubblica convoca l’Assemblea Costituente entro un mese dalla proclamazione degli eletti.

Nella prima seduta, l’Assemblea Costituente elegge il proprio presidente ed approva il regolamento interno.

Ai membri dell’Assemblea Costituente si applicano le disposizioni di cui agli articoli 66, 67, 68 e 69 della Costituzione.



Art. 4. Entro un anno dal suo insediamento l’Assemblea Costituente adotta la nuova Costituzione a maggioranza assoluta dei suoi membri.

In caso di mancata adozione della nuova Costituzione entro il termine di cui al comma 1), l’Assemblea Costituente è sciolta.

Le elezioni della nuova Assemblea Costituente si svolgono entro tre mesi dallo scioglimento della precedente.

I membri dell’Assemblea Costituente non sono rieleggibili.



Art. 5 Il testo della nuova Costituzione è approvato con referendum del popolo italiano entro tre mesi dalla sua adozione da parte dell’Assemblea Costituente.

Il referendum è disciplinato con legge ordinaria.



Art. 6 L’efficacia dell’art. 138 della Costituzione rimane sospesa per tutta la durata in carica dell’Assemblea Costituente.



Art. 7 La presente legge costituzionale entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, successiva alla sua promulgazione.

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