REFERENDUM E AMMINISTRATIVE. CHI HA GIA’ PERSO E CHI NON HA ANCORA VINTO di Alberto Benzoni del 24 settembre 2020

24 settembre 2020

REFERENDUM E AMMINISTRATIVE. CHI HA GIA’ PERSO E CHI NON HA ANCORA VINTO di Alberto Benzoni del 24 settembre 2020

Salvini e Renzi offrivano agli italiani la possibilità di sapere, la sera delle elezioni, chi aveva vinto. Quasi che fossero tutti o tifosi o scommettitori.
Oggi, questi stessi italiani possono sapere, il pomeriggio del referendum e delle regionali, chi ha perso (e sono soddisfazioni anche queste…); mentre per capire fino in fondo chi abbia vinto, ci vorrà del tempo.
Ha perso in primo luogo, lasciatemelo dire, la grande stampa italiana. Un rigurgito di odio puro tutta quella di destra; una mistura di opportunismo, di disfattismo e di saccenteria quella, diciamo così, di opinione. Tutti a scommettere, irresponsabilmente, sulla caduta del governo, in nome di combinazioni alternative inesistenti; tutti a vedere catastrofi prossime venture; tutti a scommettere, talora in modo palese, sul successo della spallata.
E, invece, d’ora in poi, niente guerra lampo ma guerra di trincea. Dove non contano le infatuazioni momentanee. Ma la consistenza delle forze in campo, dove la capacità coalizionale sarà sempre più legata a quella progettuale.
Così ha perso il no. Rimanendo però intatto il suo valore politico; l’essere stato, quasi tutto, un voto di sinistra. Ma, come nel 2016, privo di rappresentanza politica.
Ha perso, e su cinque fronti, Salvini. Primo, perché non c’è stata alcuna spallata. Secondo, perché la sua vocazione di partito nazionale ha subito un colpo durissimo. Terzo, perché i consensi ottenuti sono, in percentuale, assai più vicini a quelli delle politiche del 2018 - poco meno del 20% - che a quelli delle europee - intorno al 33%. Quarto, perché, il gioco furbesco, suo e dei suoi alleati, di indicare il Sì e di suggerire il No, gli si è ritorto contro, e portando, di riflesso, alla ripresa del Sì, diciamo difensivo, nell’area di sinistra. Quinto, e ultimo , perché la sua tanto esaltata capacità comunicativa si è dimostrata nettamente inferiore a quella della Meloni.
Hanno perso non solo Renzi ma anche Calenda e la Bonino, dallo 0.9% in Veneto al 2% in Liguria e in Puglia. Italia viva, da sola, fa meglio: ma non tanto in Toscana con appena il 4% quanto, curiosamente, in Campania dove si va a quasi l’8 %... E’ la fine del centro anti governo e anti M5S (e quindi, per la proprietà transitiva, anti Pd) esaltato dalla stampa ma chiaramente snobbato dagli elettori.. Dopo, ognuno proseguirà per la sua strada. Calenda ad aspettare Chiamate improbabili. Bonino a inventarsi altrettanto improbabili lotte per la libertà. E Renzi a trasferire interessi e talenti nell’orbita del centrosinistra e nella prospettiva del 2023.
Ha perso Berlusconi. Perché Forza Italia, almeno nel centro-nord, è ai minimi termini; e perchè diventa sempre meno credibile la sua pretesa di essere, allo stesso tempo, perno del centro-destra e indispensabile ruota di scorta di quanti sognano alternative di governo in questa legislatura.
Hanno perso i populisti. E non perché la loro “forza propulsiva” si sia esaurita, così come quella del giustizialismo. Ma perché lontanissimi dal 50% e privi dei loro tradizionali referenti politici. Passata su altre sponde, la Lega. Per ora, incapace di intendere e di volere il M5S.
A parere di tutti, il Movimento è stato il grande sconfitto di queste elezioni. E non solo perché l’80% dei suoi elettori del 2018 lo ha abbandonato: più del 40% verso l’astensione, più del il 30% verso il Pd (il voto disgiunto praticamente inesistente), intorno al 15 % verso la Lega. Ma anche e soprattutto perché non sa come recuperarli: stupidamente suicida l’idea di un ritorno alle origini (com’è noto a tutti, non si può ritornare vergini) e, allo stato, dura da digerire quella di un’alleanza generale con il Pd basata sull’accettazione delle sue proposte nell’immediato (dal Mes ai decreti sicurezza), in cambio di impegni per alleanze e leggi elettorali future.
Sempre a sinistra, si registrano quattro chiare sconfitte: della sinistra radicale rispetto a quella moderata; dei difensori dell’ambiente rispetto ai cultori della continuità cementizia; del centro rispetto alla periferia; e, a coronare il tutto, del voto di scambio rispetto a quello di opinione.
Forse però quest’ultimo non merita la grande considerazione di cui è oggetto. Perché non appartiene soltanto ai competenti e alle anime belle; essendo oggi il terreno di caccia di imbroglioni e di fanatici, a partire da Trump. Mentre il voto di scambio non è solo luogo di eventi moralmente se non penalmente condannabili; ma anche sede dell’incontro tra il potere politico e istanze collettive degne di protezione e di sostegno. Per aggiungere che la contestazione di merito e, più ancora, di metodo dei comportamenti del potere appartengono alla normalità dei tempi e ai ceti medio-alti; mentre in tempi calamitosi e dominati dalla paura l’uso, anche spregiudicato, di questo potere diventa la calamita di ogni tipo di consenso popolare.
Dal canto suo il Pd ha vinto. Ma come struttura collettiva; e non certo come intellettuale collettivo. Come ha vinto la sua capacità di difendere modelli di governo e di gestione del consenso; non quella di costruirne di nuovi, visibili e soprattutto convincenti, all’interno di una sinistra plurale ma con comuni idee-forza.
Infine, ha perso la destra ma, qui e ora, non è affatto sicuro che abbia vinto la sinistra. Certo, abbiamo tenuto la linea del Piave. Ma Vittorio Veneto non compare ancora all’orizzonte.
C’è ora, certamente, il tempo necessario per progettare l’offensiva. Ma rimane più di un dubbio sulla capacita e, soprattutto, sulla volontà di procedere in questa direzione.

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