PER LA RICOSTRUZIONE DELLA SINISTRA ITALIANA: LINEE DI SUCCESSIONE di Franco Astengo e Felice Besostri del 2 dicembre 2019

25 novembre 2019

PER LA RICOSTRUZIONE DELLA SINISTRA ITALIANA: LINEE DI SUCCESSIONE di Franco Astengo e Felice Besostri del 2 dicembre 2019

 

Da molto tempo la sinistra italiana ha bisogno di avviare un processo di vera e propria ricostruzione.

Alcuni punti fermi di una tale rifondazione sono a nostro avviso ben individuabili e costituiscono i presupposti fondamentali della possibile ripartenza:

1)    L’inutilità del mero assemblaggio delle residue forze esistenti e della stanca riproposizione di liste elettorali sempre diverse, ma immancabilmente votate al fallimento;

2)    la necessità di richiamarsi ad un patrimonio storico e culturale valido sia sul piano della teoria, sia su quello della dinamica politica, superando in avanti antiche divisioni. Di qui l’impegno ad evitare d’ora in avanti ogni ridicola diatriba sul “aveva ragione questo” o “aveva torto quello”, come ogni pretestuosa richiesta di scuse davanti alla storia (anzi alla Storia) ecc., ecc.;

3)    è ora di riavviare, senza anacronistici riferimenti a modelli passati (Bad Godesberg, Epinay, Primavera di Praga: tra l’altro tra loro del tutto diversi) l’elaborazione di un progetto originale che riparta delle contraddizioni e  “fratture” fondamentali, incrociandole però con le nuove contraddizioni imposte dal presente. Se da una parte infatti non basta più da sola l’antica “contraddizione principale” fra capitale e lavoro, certo non si può neanche sbilanciare il discorso dall’altra parte, lasciando campo solo a temi pure urgenti come la questione ambientale, peraltro strettamente legata al modo di produzione, o una strategia dei diritti riorganizzata esclusivamente attorno alle questioni di genere. Occorre invece tornare a pensare insieme i due piani: materiale e immateriale, struttura e sovrastruttura, economia e diritto. Le faglie oggi definite “post- materialiste” devono stare dentro una strategia complessiva di trasformazione dell’esistente. Per dirla con Carlo Marx: “Non basta interpretare il mondo, occorre cambiarlo”;

4)    Strettamente connesso a quanto appena detto sui mutati rapporti tra economia e politica, finanza e modello sociale, tecnica e vita civile, è anche lo sfrangiarsi individualistico della società, ma soprattutto la crisi evidente della democrazia, palesatasi dopo il 1989. Allora la fine della Guerra Fredda lungi dall’aprire ad un’epoca di “noia democratica”, ad un mondo pacificato all’insegna del liberalismo/liberismo, aprì piuttosto all’epoca della “guerra infinita” ovvero a modelli equivoci detti di “democrazia del pubblico” o “democrazia recitativa”. Si aprì insomma un’epoca di tensioni planetarie potenzialmente antidemocratiche, fondate sulla scissione tra procedimento elettorale e partecipazione dei cittadini, con l’esercizio del potere popolare messo pericolosamente in discussione. Per questo la sua rifondazione è oggi più che mai una priorità per una nuova sinistra che voglia essere all’altezza delle sfide del tempo nuovo;

5)    della crisi di sistema appena richiamata sono indizio anche alcune pulsioni che pensavamo ormai accantonate, da quelle nazionalistiche, a quelle imperialiste, al ritorno di fantasmi quali il razzismo e il fascismo. Anche tutto questo ovviamente deve essere inquadrato nel contesto del mutamento delle dinamiche internazionali degli ultimi decenni. La fase presenta infatti elementi di emersione di nuovi livelli di confronto tra le grandi potenze e di profonda modificazione del processo di globalizzazione, così come si era presentato alla fine del XX secolo e, successivamente, nella fase della “grande crisi” del 2007. Sotto quest’aspetto il grande tema rimane quello di un rilancio concreto dell’internazionalismo e della prefigurazione di un modello economico e sociale alternativo a quello neoliberista;

6)    in questo quadro un “dialogo Gramsci - Matteotti”, che parta dalla loro analisi dell’avvento del fascismo dopo la fine della Grande Guerra, può essere propedeutico ad un rinnovato discorso culturale e politico di sinistra all’indomani della fine della Guerra Fredda (e in presenza dei ricordati fenomeni di crisi della democrazia e di fascismo di ritorno). Non ci interessa costruire una sorta di Pantheon comune fra compagne e compagni che hanno vissuto passate divisioni e che invece oggi sono unicamente impegnati ad affrontarne sfide nuove ed inedite; molto più interessante semmai una ricerca in mare aperto su quelle che definiamo “linee di successione” rispetto ai grandi del pensiero e dell’azione politica di sinistra del ‘900.

Ritornare a Gramsci e Matteotti dunque. E non solo in ragione del grande valore morale e politico rappresentato dalla loro comunanza di martirio, ma soprattutto per alcuni tratti comuni della loro analisi. Che ci paiono tanto proficue a tanta distanza di tempo ed entro tutt’altra temperie politica e sociale.

Come preziosa ci appare la coerenza e l’intransigenza, scevra di settarismo, che sempre sottese la loro vita.

Sicuramente qualcuno potrà trovare fra i due autori testi o passaggi contradditori tra loro: condanne reciproche, interventi svolti sull’onda del contingente, che in apparenza parrebbero smentire la praticabilità di una ricerca attorno appunto a comuni “linee di successione”, ma si tratterebbe di letture superficiali e strumentali. Non ci si rapporta così ai classici. E Gramsci e Matteotti sono certamente dei classici della nostra modernità politica.

Di certo a noi non interessa indulgere in polemiche di corto respiro.

Molto più utile fissare alcune “linee” di lavoro:

 

1)    intanto l’impegno a sviluppare una adeguata “profondità di pensiero politico”. Potrebbe essere utile in questo senso riscoprire la categoria di “pensiero lungo”, a indicare uno sforzo di analisi e proposta che abbia respiro e profondità; premessa indispensabile tanto alla ricerca delle origini classiche di una teoria critica dell’esistente, quanto alla immaginazione e realizzazione di scenari futuri all’insegna della qualità e della civiltà;

2)    recuperare poi la capacità di riflessione e intervento sul presente che fu innanzitutto propria di Gramsci e Matteotti. Se il primo infatti è stato tanto l’organizzatore degli operai di Torino, quanto l’acuto interprete dei termini essenziali della “questione meridionale” (all’epoca coincidente in larga parte con la “questione contadina”), Matteotti è stato il riferimento dei braccianti di una delle zone più povere e d’intenso sfruttamento, quella del Delta del Po, ma anche chi indagò e denunciò le trame spesso oscure che intrecciavano già allora finanza e sfruttamento delle fonti energetiche;

3)    ma decisiva è anche la questione morale. In Gramsci essa costituiva una sorta di stile di pensiero e di vita, strettamente connessa alla fatica del pensiero, al rigore degli studi e delle analisi indispensabili all’azione politica di una classe operaia che doveva essere classe dirigente nazionale. Ebbene era la stessa serietà e intransigenza che animava Matteotti, quella che sempre ne sostenne l’azione politica e parlamentare; si pensi solo alla capacità d’inchiesta, alla fermezza con cui agitò proprio la “questione morale” in faccia al fascismo rampante, quella stessa che costituì la vera ragione della sua condanna a morte;

4)    ora fu proprio una radicale e coerente capacità di analisi a consentire sia a Gramsci sia a Matteotti di antivedere le dinamiche sociali e politiche che avrebbero portato al regime fascista. La cosa è tanto più significativa perché le loro intuizioni si sviluppavano in un clima nel quale, anche in ambiente antifascista, inizialmente ci si illuse che il movimento mussoliniano potesse essere solo un fenomeno passeggero, una “parentesi”, magari addirittura utile per riportare all’ordine liberale, dopo i drammi della guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra. Del resto allora addirittura a sinistra vi fu chi non riuscì a cogliere la pericolosità del fenomeno, considerandolo mero elemento degenerativo del capitalismo, cui ovviare attraverso il mero rilancio della dinamica della lotta di classe.

Ebbene le analisi ben altrimenti approfondite di Gramsci e Matteotti, un certo stile intellettuale e morale, tornarono utili non solo dopo il 1945 per la ricostruzione dei grandi partiti della sinistra dell’Italia repubblicana, ma mantengono un’intatta utilità ancora oggi, in un paese in cui la sinistra è letteralmente scomparsa e ci troviamo di fronte a problemi immani ed inediti di rifondazione e ricostruzione.

Per questo ci sembra indispensabile avviare un processo di “confronto costituente”. Gramsci e Matteotti possono contribuire a trovare la giusta direzione di marcia.

Resta per altro per noi chiaro che quella che ci attende non è una operazione di mero valore scientifico, individuare infatti le linee “di frattura” e “di successione” deve servire a meglio preparare il terreno per lo sviluppo del più alto livello possibile di progettualità sistemica.

Se ancora a cavallo tra il XIX il XX secolo definire cosa fosse il socialismo era abbastanza semplice e la divisione era su come raggiungere l’obiettivo di una società senza classi e con i mezzi di produzione in proprietà collettiva, oggi non solo in quel che resta della sinistra ci sono profonde differenze programmatiche, ma proprio il punto del socialismo è tutt’altro che condiviso. Si tratta dell’ennesima riprova della profondità di una crisi che è politica, teorica, morale, di classi dirigenti.

Di qui l’esigenza, che avvertiamo impellente, di un ripensamento dei fondamenti di una teoria e pratica politica che possano dirsi di sinistra, socialiste, riformiste, radicali, intransigenti.

Partire da Gramsci e Matteotti dunque come modo migliore per riprendere il cammino. Per dare sostanza ad un progetto politico ambizioso: che mira a ridare a poveri e sfruttati il loro partito e alla democrazia italiana una soggettività politica indispensabile. Necessaria alla sua qualità, alla sua rappresentatività, alla sua stessa sopravvivenza.

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