MILANO AI TEMPI DELLA PANDEMIA di Roberto Biscardini del 7 gennaio 2021

07 gennaio 2021

MILANO AI TEMPI DELLA PANDEMIA di Roberto Biscardini del 7 gennaio 2021

Cos’è Milano oggi? La città che non si ferma mai? La città del “modello Milano” perché più internazionale rispetto alla altre città italiane? La città che continua a crescere in altezza con la bellezza dei suoi grattacieli tutti di vetro? O la città che si accorge in ritardo che quel “modello” ero un prodotto buono per una sola stagione, incapace di dare risposte a tutti e incapace di ridurre diseguaglianze e ingiustizie? E’ ancora la città internazionale dell’economia o la città chiusa nei propri confini?

Incapace di guardare oltre, quando addirittura non dedita solo al proprio centro storico e ai pochi abitanti che vi abitano, dimenticando non solo le periferie, ma interi quartieri. Dove lì non si investe, dove lì il tempo non passa. Dove lì non si fa nulla per migliorare la qualità delle aree, dei fabbricati e degli alloggi di edilizia sociale. Dove ci sono meno servizi. E dove al fabbisogno pregresso di edilizia popolare non si dà risposte da anni. Né in termini di bilancio, né con una progettualità all’altezza delle grandi e medie città europee, dove l’investimento per l’edilizia sovvenzionata è massiccio e costante, mentre da noi manca da anni.

Dove manca una strategia per migliorare la qualità urbana e della vita. Perché le attenzioni sono per la maggior parte concentrate sul centro cittadino e nessuna idea di sviluppo si ha per le aree più deboli. E men che meno per le aree sempre più in sofferenza dei comuni dell’area metropolitana, nonostante il sistema istituzionale carica sul sindaco di Milano anche la responsabilità politica di ciò che avviene nelle aree esterne. Ben sapendo che Milano non vivrà se il suo intorno continuerà a decrescere, perché buona parte della sua ricchezza deriva proprio dalla presenza di una grande area urbana che gravita, economicamente e culturalmente, sul capoluogo.

Insomma il “modello Milano” che ha chiuso Milano nel fortino urbano e nel fortino dei ceti più benestanti, impoverisce l’intera città. Aumenta il numero dei poveri, compresi quelli che fanno la fila al Pane quotidiano, e aumenta in numero dei ceti medi impoveriti. Dovevamo con Expo nutrire il pianeta e ci accorgiamo a distanza di poco tempo che non riusciamo a nutrire nemmeno i nostri cittadini, quando in epoca di pandemia la lotta alla povertà dovrebbe essere al primo posto. Dalla parte dei tanti che, in un economia già precedentemente fragile, forse potevano cavarsela e oggi muoiono di fame. C’è chi perde anche il lavoro precario e ci sono i ricchi che rubano ai poveri. E il grande capitale umano dei suoi giovani, laureati, diplomati, spesso in cerca di lavoro, rischia di andare perduto. A questo proposito non basta accontentarsi che c’è il volontariato, anche quello di medici che fanno i tamponi a chi non ha i soldi per farli. Ritenersi al top perché c’è tanto volontariato è una contraddizione in termini, vuol dire non ammettere che le strutture pubbliche sono insufficienti.

Questo è solo l’inizio di una sciagura annunciata, che può essere affrontata con un’idea di città diversa, partendo dal principio fondamentale che è necessario cambiare mentalità. Non bastano grandi eventi e piccole trovate. Anche Milano ha bisogno di scoprire una propria identità che sembra andata perduta. Si tratta di costruire passo dopo passo, azione dopo azione, progetto dopo progetto, una città “giusta”. E non ci si può muovere solo sulla spinta dell’emergenza, senza una vera visone di città.

Quindi basta con il miraggio della città “ricca” che lascia indietro gli ultimi, i penultimi e discrimina. Basta con una città che non governa i processi di trasformazione economica ma si lascia governare. Che non governa il proprio territorio ma lo fa governare ad altri. Basta con una città che non affronta strutturalmente i problemi della sua qualità ambientale, con interventi strategici e perenni. Basta con l’idea di una città chiusa, e che adesso si dovrebbe chiudere ancora di più in piccoli quartieri, contro l’idea elementare dell’offrire a tutti le maggiori opportunità di lavoro e di studio, ovunque e dovunque, disponendo di importanti infrastrutture di trasporto pubblico. Là dove la mobilità è un diritto.

Basta con una politica che, sia sul terreno della assistenza, così come su quello della sanità, ha accumulato ritardi ed errori. Oggi assolutamente evidenti.

L’impoverimento della sanità pubblica, soprattutto quella territoriale, non esenta il Comune dalle proprie responsabilità. Bisogna prendere atto che l’errore maggiore commesso dal Comune sia stato quello di delegare la sanità alla sola Regione, anche quando era chiaro che così facendo si rendeva complice del disastro e metteva in pericolo la vita dei propri cittadini.

Proprio la pandemia ha fatto capire quanto gravi siano stati gli errori del passato e quanto miope sia stata l’azione di un governo che non ha governato.

Anche per questo bisogna cambiare passo. La politica non può essere più quella cosa che pensa di risolvere tutto guardando dall’alto. Proprio nei momenti di crisi contano i soggetti e le persone e la capacità della politica non solo di ascoltare ma anche di far partecipare. Ma per partecipare occorre garantire l’informazione, rompere il bunker nel quale si prendono decisioni senza mai informare i cittadini. Il nostro ordinamento, oltreché la morale, chiede ad ogni amministratore, ad ogni partito, ad ogni lista, di dire non solo ciò che vorrà fare in futuro, ma anche ciò che ha fatto o non ha fatto in passato. All’amministratore pubblico si chiede di fare il bilancio del proprio operato, perché le elezioni non sono una lavanderia. Si possono enunciare nuove rivoluzioni, ma agli elettori bisogna spiegare perché non si è cambiato prima e perché non si inverte la rotta oggi.

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