IL PROBLEMA DELLE PERIFERIE. Stefano Golfari intervista Manuela Barbarossa

18 marzo 2018

IL PROBLEMA DELLE PERIFERIE. Stefano Golfari intervista Manuela Barbarossa

Questa breve “dissertazione” di Manuela Barbarossa,  psicoanalista e filosofa, fondatrice dell'Accademia di Studi Prisma con il giornalista Stefano Golfari, è la sintesi di un incontro avvenuto con alcuni iscritti dell'Accademia venerdì 9 marzo 2018 a Milano.

D.
Dopo che il voto popolare degli italiani ha rimappato le aspirazioni ideali e le rabbie -consce e inconsce -dei nostri territori urbani, l’analisi politica è corsa ad occuparsi della frattura evidente, e profonda, fra Centro e Periferia. Il tema però è mondiale, globale, non affatto soltanto italiano, e non affatto soltanto politico. Anzi, se la politica non ne comprende i termini profondi non può pretendere di medicarne le ferite. Dunque, ridefiniamo i concetti: Periferia. Cosa intendiamo, cosa pensiamo quando diciamo “periferia”?…

R.
Il concetto di periferia è un concetto povero di spirito, che ci àncora nell'al di qua. Nel qui ed ora. Nel perimetro di uno spazio immaginario e nel contempo reale, blindato ideologicamente e fisicamente. Insomma, per dirla con “Alice nel paese delle meraviglie”, la periferia sembra proprio rappresentare la non-città. Il non mondo.

D.
La questione è scottante soprattutto a Milano, tant’è che il Sindaco Sala rilancia la mission sulle periferie come obiettivo primario della città. Ma, seguendo il tuo pensiero, dovremmo intendere per periferie la non-città di Milano … Dunque?

R.
Parlare di periferia in una città come Milano che, parimetrata a Londra o a Parigi, tanto per stare in Europa, dimensionalmente appare come un quartiere di Londra o di Parigi, sembra strano. Ma ci fa anche comprendere come il concetto di periferia, che appare così tanto reale, così tanto determinato, sia immaginario e prescinda dalle dimensioni di una metropoli. Oltre a ciò abbiamo una questione ulteriore che ci aiuta nella nostra riflessione. Parallela e speculare. Quella del concetto di centro.

D.
Centro e periferia come coppia e non come alternativa, mi sembra di capire, cioè due concetti imprescindibili l’uno all’altro … l’uno dentro l’altro come luce e buio. Tuttavia nella percezione comune prevale il sentimento della distanza, della differenza, del contrasto, dell’ingiustizia…

R.
Centro o periferia sono definizioni fenomenologiche di una ubicazione spaziale là dove il centro è, a ben vedere, spesso solo un punto di partenza ma non necessariamente di arrivo. O viceversa. E' un punto nello spazio. Ma nel vissuto psichico e nel senso comune il centro è ciò che è, mentre la periferia è un annesso. Un satellite, non un pianeta. Aristotelicamemte la periferia è l'accidente rispetto alla sostanza. L'accidente non è facente parte dell' essenza. E dunque, in sintesi la periferia è la non-città, annessa accidentalmente alla città identificata con il centro. L' “Io sono”, è solo del centro. La periferia è un contorno, è il non essere. Questa cosificazione e soggettivizzazione dello spazio che diviene definizione stessa della periferia la ritroviamo nelle classificazioni, sempre fenomenologiche e nel contempo fortemente immaginarie, del nord e del sud del mondo, dove il nord diventa il centro del mondo, l'essenza del mondo, mentre il sud rappresenta l'accidente. Ci rendiamo conto? Una essenza identificata con un luogo definito, con un perimetro di terra. Nulla di più desertico, banalizzante e reificato. Un vero e proprio fraintendimento non solo ideativo ma anche morale, che ci allontana dalla comprensione del concetto di essenza. Conseguentemente si rischia di identificare l'essenza con una specie, con un colore e perché no, con una “razza”. L'essenza si rivolta nella tomba dove è stata evidentemente e strumentalmente collocata.

D.
Già: il cittadino “vale di più o vale di meno” in base al luogo dove abita, più in centro, meno in periferia. E in ragione non di “chi è” ma di “dov’è” ottiene migliori o peggiori servizi. Sì, in fondo è la riproposizione su scala urbana delle discriminazioni fondate su fattori accessori come il colore della pelle o la provenienza da un Paese povero. Eleviamoci da queste brutture quotidiane e, come dici tu, cerchiamo di recuperare, o resuscitare, l’essenza dell’essere cittadini, il senso del nostro esser-ci (direbbe Heidegger) … Certo che servirebbe una nuova meta-fisica sociale sulla quale fondare la prassi politica. Serve un afflato universale e una rivoluzione di almeno 180 grandi nell’approccio…

R.
Ancora nel XVI secolo si pensava che la terra fosse il centro e tutto il resto ci ruotasse attorno. Anche in questa concezione osserviamo come spazialmente il concetto di centro rappresenti una attribuzione di valore essenziale Copernico rompe questo schema geocentrico e antropocentrico e ne propone un'altro. E' un passo avanti non solo per la matematica descrizione dei movimenti dei moti celesti  ma a mio parere anche nella ridefinizione simbolica  del concetto stesso di centro , sottratto alla superbia dell'uomo e consegnato al sole. Copernico scrive il De revolutionibus orbium coelestium dove dimostra che la terra gira attorno al sole. Siamo di fronte alla rivoluzione copernicana. Questo concetto kantiano di rivoluzione copernicana, è stato successivamente utilizzato anche per designare processi simili di capovolgimento di modelli acquisiti e descrittivi del mondo. Bisognerebbe attuare una sorta di altra rivoluzione copernicana per ridefinire nuovamente il concetto di centro e conseguentemente di periferia. Ma la nostra attuale industria culturale è congelata all'interno di schemi interpretativi della realtà obsoleti, prefissati , che sono divenuti una seconda natura. Questi schemi mostrano una noiosissima contrapposizione ideologica tra differenti “anime mundi”, o forse solo mundi, che non riescono a ridefinire l'essenza stessa del mondo fuori dalla povertà di spirito che è conseguenza di questa impostazione. Essenza del mondo che è costantemente fraintesa e mortificata da un pensiero banale, massificante, superficiale, comune, schematico infantile e a tratti perverso. Per uscirne fuori si deve ri-conquistare la metafisica.
D.

Parliamone partendo dalle radici del tema: la meta-fisica , la meta-psicologia freudiana, concetti che mostrano la necessità di superare i perimetri della fisica e della stessa psicologia. Ciò che è mèta, è altrove.
R.

La metafisica e la metapsicologia ci hanno salvato da una fisica e da una psicologia fattuali. L'essenza dell'essere non può venire identificata con ciò che è nell'al di qua. In un mondo dove tutto è esclusivamente factum brutum, fattualità oscurata dal buio esistenziale, merce di scambio, dove vige la sola legge riduzionistica dell'essere, comprendiamo come sia assolutamente necessario andare al di là. Altrove. Più che mai. L'essenza deve restare un simbolico che informa di sé tutto, senza prediligere nulla di ciò che è, pur essendo. L'essenza deve essere sempre mantenuta nell' al di là, oltre. E' mèta-fisica. Se riuscissimo a riconquistare questo status interiore e mentale trascendente, anticonformista che ci spinge in avanti, in alto, in basso, dovunque, in ogni parte spaziale e temporale, e che ci fa accedere ad un pensiero che pensa e non soccombe all'autoreferenzialità sociale perimetrata e conforme, potremmo riconoscere uno spazio infinito nel finito. Ci permetterebbe di scardinare certe cosificazioni mentali e ideologiche, per accedere a ciò che Simmel definisce, con una espressione a mio giudizio fantastica, l'“etica dell'evento”. L'evento, la realtà, la quotidianità, sono momenti espressivi dell'essere, ma gli si deve consentire di essere ciò che sono. Non solo fattualità, ma espressione di vita alla luce dell'etica dell'esistente. L'evento, la quotidianità, la stessa realtà cosificata, ridotta a povera cosa e resa luogo di merce di scambio, determina l'espulsione dell'essenza.
D.
Dobbiamo però portare questi discorsi alti all’impatto con la cronaca concreta. La violenza dilagante, preoccupante e percepita come insopportabile come entra in rapporto con quella “assenza di essenza” che tu ci descrivi?

R.
La violenza potremmo interpretarla simbolicamente come una sorta di “psicosi”, come un eccesso di adesione all'esistente che al contrario di ciò che potrebbe apparirci allontana dalla realtà, Questa adesione compatta, questa aderenza massiccia, questa incollatura al reale deforma noi stessi e la realtà . L’adesione massiccia all’esistente, all’al di qua , fa divenire la realtà opaca, reificata, brutalizzata dall'assenza di essenza. E' come se si leggesse un libro tenendolo appiccicato al viso. Non solo non vedo nulla, non solo respiro male, ma non capisco il significato  del libro, la e neppure capisco il senso di me stesso appiccicato al libro. Il libro diventa esclusivamente un oggetto ingombrante e fastidioso e io mi realizzo solo nell'eliminarlo. Ciò significa che la giusta distanza tra me e l'altro, lo spazio vitale, consentono una corretta visione di ciò che ho di fronte, e mi permettono di osservare anche me stesso. Questa è etica dell'esistente, che si fonda  passando attraverso lo sviluppo del sentimento di sé stessi e dell'altro. Ma attenzione. Comprendere, capire, sentire, è sempre una questione pulsionale. E' nelle pulsioni che le più remote oggettivazioni dell'essere, ci dice T.W. Adorno, trovano la loro origine. Tutto è etica, intesa come fondazione della coscienza di se stessi e dell’altro da sè per andare oltre se stessi, altrove, nell’al di là.
In un mio scritto (ndr. Coscienza morale e dominio della natura –in Rivista italiana di antispecismo -novembre 2014-Novalogos) ho avuto modo di spiegare che il fondamento della relazione dell'uomo con il mondo circostante e con gli altri “abitanti” del mondo, tra i quali gli animali non umani, è la costituzione della coscienza morale. In assenza di essa, non andiamo molto lontano. Quando parliamo di coscienza morale la dobbiamo intendere come apertura al mondo,come superamento dell’autoreferenzialità esclusiva, come superamento della fondazione organica dell’essere per giungere aldilà dell’organico stesso.
D.

Riproporre il discorso sull’Etica in questo modo appare davvero “rivoluzionario” in un mondo che dell'etica non solo pare avere fatto un orpello per anime belle, ma che la fraintende come condizione da acquisire culturalmente. In questa visione l'etica è connessa allo sviluppo della soggettività?
R.
Si, rivoluzionario mi piace. Nel testo che ho suindicato, scrivevo che il bambino, in quanto tale, non pensa all'esistenza di un mondo al di là di se stesso, non può farlo. Questa è la condizione infantile. Il bambino percepisce e osserva solo un frammento di mondo, quello che gira intorno a lui. Per il bambino è importante il suo fondamento organico. vivere e non soffrire, stare bene. Ma senza la formazione nel corso dello sviluppo psichico dell'individuo della coscienza morale, della capacità di pensare astraendo dal contingente e dall’organico, dal qui ed ora, dal pezzettino di mondo che mi cade sotto gli occhi, da me stesso, dal mio unico sentire, non si va molto lontano da se stessi e dal frammento di mondo che ci gira intorno. Si va in qualche luogo comunque, certo, ma decisamente con un orizzonte perimetrato.

D.
Ritorniamo ora ai nostri primi argomenti, quelli sulla città, sul Centro e in particolare sulla Periferia. Ci hai condotto in viaggio nei quartieri luminosi della filosofia, nelle vie ombrose della psicanalisi sociale e sulle mura panoramiche di una nuova Etica culturale … Ma ora come lo chiudi il cerchio, come concludi?
R.

Ci vuole un trascendimento della visione del mondo per dare alla fattualità e dunque alle città, alle metropoli, la loro dignità. E a tutti coloro che le abitano. Ogni città e ogni metropoli, quale luogo di vita individuale e collettiva, umana, animale e faunistica, e dunque quale luogo di espressione dell'essenza dell'essere, hanno necessità di spazio di respirare e di dare respiro ai propri abitanti, di poter alzare gli occhi al cielo per guardare la terra con incanto. Iniziamo a pensare alla periferia non come povero luogo da salvare, da migliorare, da abbellire e cosmetizzare, non come non-città, ma come spazio esistente in sé e per sé. Facciamo diventare la periferia centro di se stessa, attraverso un'etica della città. Semplice ... no?

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