APPUNTI SU CAPITALISMO E PRECARIATO di Alberto Angeli

26 dicembre 2017

APPUNTI SU CAPITALISMO E PRECARIATO di Alberto Angeli

Quando leggiamo i quotidiani o ascoltiamo gli anchorman dei talk show che ci informano su cosa pensano o quali azioni intraprendono i potenti del momento: Trump, Putin, Kim Jong-un, Xi Jinping, Erdogan, Merkel o Junker, tanto per citare la parte più in vista del panorama politico di questo mondo globalizzato, avvertiamo la concreta sensazione  di vivere in una società segnata da una crisi identitaria, contaminata da una sindrome individualista, per la quale solo il modello capitalistico-consumistico offre valori e merita attenzione. Una situazione psicotica,  di cui è particolarmente difficile rendersi conto.  Una accurata diagnosi rivelerebbe come la tensione di questo primo quarto di secolo origini dall’acuirsi della situazione socio-economica planetaria, in particolare dalle condizioni del lavoro sempre più precario, dall’aumento della povertà e dalla diffusione delle diseguaglianze a livello globale.
Alla base di queste tensioni sociali troviamo la crisi dei sistemi  tradizionali della rappresentanza politica, la deregolamentazione dei mercati finanziari e l’affermarsi dei movimenti populisti e delle destre ( USA, Austria, Turchia,  i quattro di Visegràd e la Russia, a cui si sono associati Paesi come  Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Cuba, Ecuador, Honduras, Nicaragua, Uruguay e Venezuela, che solo 10 anni fa erano governati dal centrosinistra ) pronte a sfruttare il fenomeno, meglio dire la tragedia umanitaria della migrazione di milioni di esseri umani, che fuggono dalle guerre e dalle carestie.
Insomma, l’arco della storia ha piegato a  favore della destra e dei movimenti populisti. E tutto questo avviene con il consenso di una buona parte del popolo elettore, scosso e arrabbiato a causa di una crisi economica, che rende inaccettabili e umilianti le crescenti diseguaglianze sulle quali si misura il concetto di vita sociale dell’individuo e delle condizioni del mondo del lavoro.
Non ci si stupisca quindi del crescente malessere, che in molti paesi si sta trasformando in una indignazione popolare, che sembra unire ceti sociali diversi per posizione reddituale e per cultura. Fenomeno considerato e analizzato da molti analisti dei costumi e comportamenti sociali e da  economisti di indubbia probità intellettuale, i quali concordano sulla tesi che ad alimentare questi movimenti di contestazione della politica e, sempre più spesso, anche  delle istituzioni, sono le  dinamiche sociali e politiche innescate dalla globalizzazione dell’economia di mercato.
Quello che dovrebbe preoccupare di questa crescente indignazione di massa, e l’attenzione si rivolge in modo particolare a  quelle forze politiche che si dichiarano di sinistra e progressiste, è l’assenza di contenuti di prospettiva e di orientamento  associativo, pluralistico ( inteso come rappresentanza politica) e di ogni forma di sensibilità storica a favore della democrazia e della solidarietà sociale. Ed è su questo terreno,  su cui arretrano i valori del pensiero collettivo, della comunicazione democratica,  (della ratio comunicativa, o argomentativa, come esposta da Habermas), che prende spazio la pretesa-protesta dell’individualismo.
Insomma, l’iper-globalizzazione della finanza, l’economia dei consumi ( Amazon ed altre 99 e-commerce sponsorship ne sono la punta di diamante ), l’emigrazione e il modello di sviluppo economico che poggia sulla precarizzazione, sono la nuova malattia della post modernità. Seguendo il filosofo Vattimo  su ciò che scrive nel saggio: “ La Società Trasparente”, saremmo giunti alla  “fine della storia ", ( riprendendo il saggio di Francis Fukujama )cioè della concezione moderna della storia come corso unitario e progressivo di eventi, alla luce dell'equazione secondo cui nuovo è sinonimo di migliore, nel senso, come egli afferma: " la modernità, nella ipotesi che propongo, finisce quando - per molteplici ragioni - non appare più possibile parlare della storia come qualcosa di unitario ". Di fatto Vattimo ritiene che il passaggio dal moderno al postmoderno si configuri come un passaggio da un pensiero "forte, ad un pensiero "debole". Per pensiero forte (o metafisico) Vattimo intende un pensiero che parla in nome della verità, dell'unità e della totalità, (ovvero un tipo di pensiero illusoriamente proteso a fornire "fondazioni" assolute del conoscere e dell'agire). Riflettere su questa  tesi  fondazionista  di un pensiero teso a valorizzare il nichilismo come vissuto dissolutivo dell’essere, ci aiuta a comprendere, in termini di valore politico, come il populismo non sia un movimento casuale, un fenomeno passeggero, quanto invece un pericolo esegetico di un nuovo totalitarismo  geneticamente fascista.
“Sai tu di che porti il lutto? Non è cosa morta solo da qualche anno, non si può dire esattamente quando esistette, quando passò: ma fu, è, è in te. Quel che tu cerchi è un tempo migliore, un mondo più bello”.(F. Hölderlin, Iperione). Ecco, un mondo più bello è il sogno del lavoratore precario ! Ma come realizzarlo,quale strada seguire e a quale forza politica di sinistra o riformista affidare il compito di contrastare il cosiddetto pensiero forte, che ammette solo certezze assolute e si pone contro una ricerca critica della verità, considerato che la sinistra si è divisa e oggi manca un’ alternativa al capitalismo parassitario, come lo descriveva Rosa Luxemburg  nel saggio “L’accumulazione del capitale”, pubblicato nel 1913, in sintesi, la lettura della realtà ci svela  con la liberalizzazione del mercato finanziario e la deregolamentazione del mercato del lavoro, mancando una opposizione di sinistra, i governi moderati o autoritari sono liberi di adottare una politica tesa ad inseguire il capitale, cercando di attrarlo, rendendo la regolamentazione del proprio mercato interno il più possibile conforme ai principi del neoliberismo. In pratica, tutto ciò significa meno tasse, meno o nessuna regola e soprattutto un mercato del lavoro flessibile. Per favorire questa condizione si adottano norme con le quali  si dissolve il legame tra capitale-lavoro, a favore del capitale, che è libero di muoversi e di delocalizzarsi, venendo inoltre sollevato dalle norme minime  di  rispetto dei diritti, delle misure di prevenzione e contrattare ogni condizione del lavoro. Così, nella realtà contemporanea, le divisioni di classe sono una conseguenza della assoluta liberalizzazione del capitale dai vincoli di giustizia ed equità, che appartiene a chi può spostarsi più velocemente. Se il capitale gode della massima libertà possibile in questo senso, lo stesso non può dirsi dei lavoratori, che sono legati alle catene della loro condizione subordinata e quindi in condizioni peggiori rispetto al passato, perché sono flessibili, precari, insicuri.  Il lavoro precario è oggi una realtà inoppugnabile, diffuso e praticato globalmente.
Quindi, nella realtà di questa modernità scopriamo come i lavori atipici ( flessibilità e precarietà ) sono esplicati in tutte le versioni conosciute e condizionano la vita di milioni di lavoratori, che sono  sfruttati e schiavizzati dal bisogno determinato dall’incertezza di un reddito equo e della continuità lavorativa e quindi limitati nelle libertà sociali, civili e politiche, come ha esaurientemente e lucidamente descritto Amartya  Sen  nei suoi studi e nell’opera con cui ha ricevuto il riconoscimento del premio Nobel.  Dobbiamo ammettere che questa tipologia di lavori sono in questo quarto di secolo la reale condizione economica.
Uno studio della MacKinsey Global Institute ci fa conoscere come nell’occidente globalizzato circa 170 milioni di posti di lavoro sono precari; mentre altri studi più specifici evidenziano che dei 10 milioni di posti di lavoro creati negli USA dal 2005 al 2015 per il 90% sono lavori atipici: a progetto, on demand o interinali. una evidenza che  mette a nudo una narrazione che viene smentita dai dati elaboratori e pubblicati da due studiosi :  Lawrence F. Katz di Harvard e Alan B. Krueger di Princeton (The Rise and Nature of Alternative Work Arrangements in the United States, Working paper n. 603, Princeton University, Industrial Relations Section). In Europa il 50% dei giovani europei tra i 15 o i 25 o lavorano part time (meno di 20 ore alla settimana), o hanno contratti a termine e stage. Il 64% dei giovani  laureati o diplomati ha il posto fisso, mentre solo il 48% di quelli con un basso livello di istruzione è assunto a tempo indeterminato. La percentuale di giovani imprenditori, freelance e disoccupati, invece, è la stessa per chi ha studiato e per chi si è fermato prima del diploma. Il 48% degli europei tra i 18 e i 35 anni, nel 2013 aveva svolto almeno uno stage, non retribuito o retribuito molto meno del minimo contrattuale. (I dati della mappa si riferiscono al 2015; i dati sono rilevati da Fonte: LSF)
Per quanto attiene l’Italia seguendo i dati dell’ISTAT si rileva che i residenti sono 60 milioni e 441mila. Ma solo una piccola parte di questi lavora, esattamente il 37,2%. La maggioranza non lo fa. Ecco i numeri. Su 60 milioni e 441 mila nel 2016 gli italiani al lavoro erano 22 milioni e 465 mila, cioè, in termini percentuali, il 37,2%. Di questi, 16 milioni e 988 mila persone sono dipendenti (pari al 28,1% della popolazione italiana) mentre 5 milioni 477 mila (cioè il 9,1% degli italiani) sono indipendenti. Ora concentriamoci solo sui dipendenti. Si scopre allora che appena il 19,8% del totale degli italiani ha un classico contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato: si tratta, cioè, di solo di 11 milioni e 973 mila persone. Tutti gli altri occupati hanno contratti diversi: 2 milioni e 632 mila sono a tempo parziale (4,4%); 1 milione 669 mila lo hanno a tempo pieno, ma a termine (2,8%); altri 714 mila ce l’hanno a termine e a tempo parziale (1,2%).
Ora vediamo i motivi per i quali 37 milioni e 976mila italiani, pari al 62,8% del totale dei residenti, non lavorano. La maggior parte non lo fanno perché o sono troppo giovani, cioè hanno meno di 15 anni (8 milioni 371 mila) oppure perché sono in pensione con più di 64 anni (12 milioni 534 mila). Queste persone sono quindi inattive (cioè non cercano un posto di lavoro) per motivi d’età. Poi ci sono coloro che sono inattivi ma avrebbero l’età per lavorare: sono 14 milioni e 38 mila italiani pari al 23,2% della popolazione residente. Queste persone, in pratica, non hanno una occupazione e nemmeno la cercano. Infine ci sono i disoccupati veri e propri, cioè coloro che non hanno un lavoro ma lo cercano: sono una assoluta minoranza: 3 milioni e 33 mila pari al 5% dei residenti.
Allora,  perché la critica avanzata possa ancorarsi a un qualche obiettivo realizzabile occorre una nuova  capacità di pensare a un qualcosa in grado di spingersi oltre l’esistente, di immaginare una realtà sociale al di là del capitalismo. Rimane da ricomporre la frattura che si è determinata tra strati della società e una qualsivoglia aspettativa futura, per pervenire allo svincolamento della protesta da ogni visione di un possibile miglioramento affidato alle forze populiste. D’altro canto si tratta di un fenomeno effettivamente nuovo nella storia delle società moderne; a iniziare dalla Rivoluzione francese, i grandi movimenti di lotta contro le condizioni sociali del capitalismo sono infatti sempre stati animati dalle utopie, e quindi sostenuti dalle immagini di come la società futura un giorno sarebbe dovuta essere organizzata – basti qui pensare al luddismo, alle cooperative, ai consigli di fabbrica o agli ideali comunisti di una società senza classi. Oggi il flusso di questa corrente di pensiero utopista, come direbbe Ernst Bloch, sembra però essersi interrotto. Certo si sa piuttosto bene che cosa non si vuole, e che cosa risulta scandaloso delle attuali condizioni sociali; e tuttavia non si ha neppure la minima idea della meta verso cui una trasformazione mirata dell’esistente dovrebbe puntare.
Il lavoro da condurre su questo fronte non è rilevabile da un manoscritto o da un saggio redatti nella previsione di quanto nel presente ci troviamo ad affrontare. Eppure, dobbiamo comprendere che la risposta non risiede nella proposta che da più parti si sente avanzare per il mercato del lavoro precario in Italia, cioè l’istituzione di un salario minimo. Forse, la strada da seguire è quella dei Contratti di lavoro, affermandone la cogenza normativa mediante il riconoscimento erga omnes. Questo percorso imporrebbel’obbligatorietà a carico di qualsiasi datore di lavoro, anche se non coinvolto nel processo della formazione del Contratto di lavoro,  di applicare le norme contrattuali, compresi i diritti normativi e la parte salariale nel rispetto delle mansioni e della conseguente retribuzione oraria. L’abolizione dei voucher e il conferimento al CNEL di specifiche competenze in materia di revisione degli ambiti di nuove attività alle quali estende forme contrattuali , da compiere ogni anno. Questo costituirebbe il terreno di pieno rispetto della normativa Costituzionale in materia di lavoro e della giusta retribuzione e rispetto pieno e totale dei diritti del lavoratore.
Concludo questo breve scritto ben consapevole che il tema qui affrontato non è affatto completo. Un tentativo di analisi su cui confido si prosegua. Intanto, a tutti un augurio di buon 2018.

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