ALBERTO BENZONI. RIVOLTE. L’INSOPPORTABILITÀ DI UN SISTEMA CHE NEGA AGLI OPPRESSI ATTENZIONE E DIGNITÀ. ANZI, LI IGNORA da Jobsnews del 26 ottobre 2019

26 ottobre 2019

ALBERTO BENZONI. RIVOLTE. L’INSOPPORTABILITÀ DI UN SISTEMA CHE NEGA AGLI OPPRESSI ATTENZIONE E DIGNITÀ. ANZI, LI IGNORA da Jobsnews del 26 ottobre 2019

Alzi il dito chi aveva previsto quest’anno la vittoria pressoché plebiscitaria di un comico in Ucraina e di un oscuro professore d’università in Tunisia. E chi aveva previsto, l’anno scorso, l’esplosione dei gilet gialli in Francia; e, in tempi più recenti, le rivolte di massa, prima in Sudan e in Algeria, poi in Ecuador, Cile e Libano. State sicuri. Non potrebbe farlo nessuno. Perché siamo tutti, in maggiore o minore misura, vittime (o complici?) intellettuali della micidiale mistura tra pensiero unico e politicamente corretto; una combinazione che ha l’effetto di renderci ciechi e sordi di fronte all’”altro da noi”. Ma anche perché le manifestazioni cui stiamo assistendo hanno caratteri nuovi e originali. Almeno rispetto alle esperienze che abbiamo vissute nel secolo scorso.

Allora c’erano le rivoluzioni (con gli intellettuali organici a spiegarci perché erano avvenute e magari , sempre più, perché non ne era ancora arrivato il moment) e, soprattutto, le manifestazioni: contro qualcuno o qualcosa; per solidarizzare e per ottenere. Organizzate dai partiti e dai sindacati ( di vertice o di base); e con il relativo servizio d’ordine. Il tutto in un quadro in cui azioni e reazioni erano codificate e prevedibili. Oggi, sono ambedue praticamente scomparse dalla nostra attenzione collettiva. Le rivoluzioni le fanno gli altri. E, In quanto a scioperi e cortei, questi vengono indetti, per così dire, per dovere d’ufficio. Solo venti-trenta anni fa, portavano i governi o a cadere o a fare marcia indietro; nella Grecia di Tsipras  (ma non solo) se ne sono registrati di continuo, ma senza alcun effetto. Questo vuoto  è oggi riempito dalla protesta. Una protesta che opera in contesti del tutto diversi (come sono quelli che si è citati all’inizio); ma che ha anche una serie di caratteristiche comuni.

L’ampiezza e la radicalità della protesta. In discussione la legittimità delle classi dirigenti

La prima in ordine di tempo è la banalità, per non dire, la marginalità del fattore scatenante. Quando, naturalmente, non si è di fronte ad un appuntamento elettorale, reale (Tunisia, Ucraina) o fraudolento e provocatorio (Algeria con la candidatura fantasma di un presidente incapace di intendere e di volere). Perché negli altri casi siamo di fronte: ad un aumento del prezzo della benzina (Francia, Ecuador); del biglietto della metropolitana (salito del 3 % in Cile come effetto automatico dell’aumento del costo della vita), di una tassa sul whatsapp (Libano) e, infine, dell’uccisione di alcuni manifestanti a Khartum (Sudan).

Viene poi l’ampiezza e la radicalità della protesta: a superare, da subito, i confini tra posizioni politiche, classi sociali, gruppi etnici e religiosi e, nel contempo, a rimettere in discussione il mandato e la legittimità delle classi dirigenti. Un fenomeno che si manifesta anche in occasione delle presidenziali. Scendono in strada, in Ecuador, classi medie e proletariato urbano. Così come ceti popolari e studenteschi in Cile; nell’un caso e nell’altro si registrano distruzioni (78 stazioni della metropolitana) e morti; eventi che si erano verificati anche durante la rivolta dei gilet gialli. In Libano, a manifestare, questa volta all’insegna dello “andatevene tutti” sono i giovani cristiani, sunniti, sciiti e di ogni altra religione presente nel paese; ed è una prima assoluta nella storia del paese. Mentre, singolare coincidenza, nelle presidenziali tunisine vincono, e in larga misura, candidati estranei all’establishment e alle sue tradizionali divisioni interne: che siano sui rapporti da tenere con la Russia o il conflitto tra islamisti e laici.

Rapporti politici, poi, vicini allo zero. Sicuramente per il timore di essere strumentalizzati. Ma c’è anche qualcosa di più. La constatazione della  totale assenza/passività delle forze politiche a monte e a valle della protesta. A monte per la loro passività complice nel totale degrado del sistema: il centro-sinistra cileno ha certo contribuito a rovesciare il regime di Pinochet ma al prezzo di non rimettere in discussione una politica economica ultraliberista che ha fatto del Cile non solo uno dei paesi più disuguali del mondo sviluppato ma anche il paese in cui l’impegno dello stato per ridurre le disuguaglianze  è stato di gran lunga il più limitato; in Libano il servizio pubblico è sull’orlo del collasso (dagli ospedali alle forniture di acqua e di elettricità) mentre il governo di unità nazionale ha assistito, anzi ha partecipato attivamente ad una fuga di capitali di proporzioni gigantesche in Svizzera e paradisi fiscali vari. In tutto questo, i partiti e segnatamente quelli “di sinistra” hanno fatto passare tutto. La morale della favola è che da loro  non ci si può attendere nulla; con il corollario logico che la protesta non può né deve diventare partito.

Siamo dunque, in definitiva, al “nunca mas”. Alla verifica esistenziale, a partire da un episodio magari in sé e per sé irrilevante, dell’insopportabilità di un sistema. E non solo perché ingiusto e opprimente. Ma anche e soprattutto perché nega agli oppressi qualsiasi attenzione e qualsiasi dignità. O perché, semplicemente, li ignora.

All’appuntamento mancano i politici. Ma ancora per quanto?

Un confronto che non comporta “soluzioni” immediate. Certo i “ribelli” avrebbero bisogno di portare qualcosa di sostanzioso e subito. La loro presenza è estesa ma fragile. Niente capi, niente strutture organizzative e/o appoggi politici. Quanto basta per affrontare una guerra lampo; non un conflitto di lunga durata con il Potere. Ma al fondo delle loro richieste c’è il “cambiamento di regime” o, quanto meno, un ripristino  del ruolo dello stato come unico possibile garante di una società più giusta (a partire dalla garanzia dei servizi essenziali per la collettività) mentre quello che gli viene  promesso sono quattro soldi in più in tasca e misure simboliche quali il dimezzamento degli stipendi dei parlamentari, tasse sulle banche e lotta alla corruzione (stiamo parlando del Libano; qualsiasi riferimento ad altri paesi è puramente casuale). In un contesto in cui la reazione delle autorità va da una specie di dichiarazione di guerra a disponibilità piene al dialogo.

Si sta dunque aprendo un conflitto di lunga durata. Con alti e bassi e soste compresi. Nulla, in tutto questo che attiri, qui e ora, la nostra attenzione e la nostra solidarietà. Pure, la natura di queste sollevazioni dovrebbe parlare anche a noi. Perché ha a che fare con un processo che ha colpito anche noi. Leggi l’accantonamento dello stato come garante dello sviluppo e della “giustizia distributiva”; e il corrispettivo affidamento ai privati di un compito che non sono mai stati in grado di svolgere. E, soprattutto,  perché il “sistema” oggetto di condanna da parte delle piazze è oggi al centro delle critiche degli economisti di tutto perché responsabile di una “stagnazione cronica” prossima ventura.

All’appuntamento mancano ancora i politici. Ma per quanto tempo?

Vai all'Archivio