RICORDANDO PIETRO NENNI di Luigi Covatta – Roma - Manifestazione del 17 dicembre 2009

03 febbraio 2010

RICORDANDO PIETRO NENNI di Luigi Covatta – Roma - Manifestazione del 17 dicembre 2009

Ricordare Pietro Nenni significa ripercorrere tutta la storia del Novecento italiano, con le sue contraddizioni, le sue complessità, i suoi vizi e le sue virtù: un "vasto programma" che in questa sede possiamo risparmiarci.
Meglio allora concentrare la nostra attenzione su alcuni momenti della vita politica di Nenni. Ne propongo tre, che mi sembrano di particolare significato anche rispetto all’attualità.
Il primo è quello che lo stesso Nenni ha raccontato nella sua Storia di quattro anni: la critica, cioè, dell’agitazionismo fine a se stesso, ed il timore per i vuoti di potere che esso può determinare.
Una critica tanto più consapevole perché condotta dal ribelle della Settimana rossa; un timore tanto più autentico perché coltivato da chi, come Nenni in quel momento, era del tutto estraneo al circuito politico-istituzionale: non solo non era un capo-partito, ma non aveva nemmeno un partito.
Anche per questo, del resto, fu più lucido di quanti un partito lo avevano nel prevedere l’esito reazionario del movimentismo privo di sbocchi. E comunque quel timore del vuoto di potere, quel vero e proprio horror vacui, costituì da allora un vincolo fondamentale nell’indirizzo della sua azione politica: lo condizionò positivamente nell’adesione al partito socialista nel 1921, nella ricerca dell’unità socialista e dell’unità antifascista nell’esilio, nella battaglia per la Costituente nel secondo dopoguerra, fino a fargli percepire il "rumore di sciabole" nel corso della crisi del 1964.
"Piazze piene ed urne vuote", commenterà nel 1948, quando dovrà prendere atto non solo della sconfitta, ma dell’imprudenza con cui, almeno in quella occasione, aveva violato il vincolo che si era autoimposto vent’anni prima.
La prudenza non era tanto, per lui, mancanza di coraggio o inclinazione alla manovra. Era un dovere verso le masse che lui stesso tanto facilmente infiammava, ed alle quali era sua responsabilità offrire un orizzonte e un approdo.
L’orizzonte, per Nenni, era la politica, il lavoro quotidiano per incanalare proteste e pulsioni altrimenti foriere solo di repliche reazionarie. Questo significava per Nenni politique d’abord: non elogio della politique politicienne e della sua disinvoltura manovriera, ma presa di distanza sia dal determinismo economicista proprio del marxismo che dal rassegnato minimalismo dei conservatori.
Anche alla fine del Novecento italiano c’è stato chi, a sua volta, ha trovato le piazze piene e le urne vuote: le piazze del "popolo dei fax" e le urne del 1994, che colmavano il vuoto di potere che si era determinato dopo le radiose giornate referendarie del 1991 e del 1993. Ed anche oggi, in un’altra fase di crepuscolo che qualcuno vorrebbe illuminare con i riflettori dell’antipolitica, è bene guardarsi da chi preferisce le piazze alle urne.
Il secondo momento della vita di Nenni sui cui conviene riflettere è quello della nascita della Repubblica.
Per apprezzarlo fino in fondo bisogna però lasciarsi alle spalle reminiscenze oleografiche, e considerare invece da un lato la nuda realtà dello scontro politico fra gli antifascisti, gli Alleati e la Corona; e dall’altro quella del rapporto fra questo embrione di sistema politico ed un popolo stremato dalla sconfitta e dalla guerra civile.
Nenni allora aveva poco più del suo carisma, che comunque non aveva impedito che alla guida del governo gli venissero preferiti prima Parri e poi De Gasperi. Per di più anche lui aveva a che fare con una specie di "diaspora socialista": c’erano le vecchie barbe del riformismo, gli autromarxisti del Centro interno di Morandi, gli austromarxisti dell’esilio come Saragat, i reduci dalle galere fasciste come Pertini, gli ex comunisti come Tasca e Silone, i trotzkisti del movimento giovanile, i luxembourghiani di Lelio Basso, che addirittura potevano imporre di cambiare nome al partito in cui confluivano.
Neanche agli interlocutori di Nenni mancavano i problemi: De Gasperi non aveva ancora convinto il "partito romano" sull’opportunità dell’unità politica dei cattolici; e Togliatti non poteva far conto neanche sull’autorità di Stalin per debellare l’insurrezionalismo partigiano.
In quel contesto Nenni avrebbe anche potuto lasciare scorrere la transizione, magari stabilendo con Umberto un compromesso tutto sommato meno imbarazzante di quello che Togliatti aveva stabilito con Badoglio e Vittorio Emanuele. In fondo perfino il ministro della Real Casa era socialista, ed Umberto, come poi ricorderà Luigi Barzini, prevedeva, non senza acume politico, che la vittoria repubblicana avrebbe coinciso con un’egemonia democristiana, mentre la monarchia avrebbe ben potuto sopportare un governo socialista, garantendolo sia presso i ceti moderati che presso gli Alleati. E neanche allora mancavano i costituzionalisti, a cominciare da Bonomi, pronti a teorizzare che la nuova costituzione materiale non configgeva con la vecchia costituzione formale.
Nenni invece accelera i tempi, forza le procedure, lancia lo slogan "O la Repubblica o il caos", senza badare alle convenienze personali e di partito. Scarta anche l’ipotesi, che prima aveva condiviso con Togliatti, di lasciare la scelta della forma istituzionale all’Assemblea costituente invece che al popolo, e sposa la causa del referendum.
Perché questa scelta, apparentemente azzardata? Perché Nenni si rende conto che senza una forte legittimazione popolare il nuovo sistema politico - quello in cui De Gasperi doveva vedersela col "partito romano", Togliatti con Stalin e lui stesso con la diaspora - non sarebbe mai decollato, e l’eventuale governo socialista octroyèe dalla Corona avrebbe vissuto di stenti. E prima che la situazione incancrenisca, prima che si determini qualche nuovo vuoto di potere, crea le condizioni per costituzionalizzare un conflitto politico altrimenti destinato ad esplodere in forme ancora più cruente di quelle che pure non mancarono.
Il paragone con la situazione odierna è fin troppo facile. La transizione senza fine sembra smentire lo slogan nenniano, visto che oggi abbiamo sia la Repubblica che il caos. Ma non smentisce la saggezza politica di Nenni nel porre bruscamente quell’alternativa. Ed è stupefacente che le forze politiche odierne, divise fra loro da differenze assai minori di quelle che dividevano le forze politiche di allora, non trovino la strada della reciproca legittimazione attraverso un nuovo patto costituzionale.
Il terzo momento è quello del centro-sinistra (del centro-sinistra col trattino, visto che, con l’aria che tira, c’è ancora chi si appassiona per simili nuances).
E’ curioso che Nenni abbia condotto tutto il lungo (troppo lungo) itinerario verso l’accordo con la DC all’insegna della "alternativa socialista". Ovviamente nella scelta della parola d’ordine c’è anche tutta la sua sapienza propagandistica. Non era facile, altrimenti, convincere alla svolta un partito e un elettorato solo pochi anni prima mobilitato a sostenere il Fronte popolare. Ma non si tratta solo di propaganda.
Lo spiega bene, su Mondoperaio, Giovanni Galloni nel riferire dei colloqui avuti con lui nel 1956, dopo l’incontro di Pralognan. Per Nenni l’alternativa socialista non era l’alternativa di schieramento naufragata nel ’48. Era l’alternativa al centro-destra, alla formula politica, cioè, a cui sarebbe stata costretta la DC in assenza, appunto, di alternative.
Tecnicamente – lo ricorda Luciano Cafagna sempre su Mondoperaio - quella del centro-sinistra può essere definita un’operazione trasformista. Esattamente come lo fu il connubio con cui centocinquant’anni fa Cavour diede basi politiche allo Stato unitario. E come lo fu trent’anni dopo l’operazione con cui Depretis mise fine all’immobile sistema politico postunitario. Entrambe quelle operazioni realizzarono peraltro un’alternativa: l’una alla riduzione dell’unità d’Italia a pura e semplice annessione sabauda, l’altra alla degenerazione notabilare della destra storica.
Per fortuna di Nenni a metà degli anni ’50 in Italia la politologia era considerata ancora una pseudoscienza.
Altrimenti non sarebbe mancato qualche politologo che col ditino alzato gli contestasse di avere violato le regole della "democrazia dell’alternanza" o addirittura di avere rinunciato alla "vocazione maggioritaria". Per non parlare di quanti avrebbero deplorato, magari anche dai più alti seggi parlamentari, la pretesa di formare governi in Parlamento invece di farli eleggere direttamente dal popolo.
Nenni invece aveva ancora il privilegio di poter considerare pseudoconcetti questi ragionamenti, e di poter definire come alternativa un’operazione politica che determinasse un cambiamento rispetto allo status quo ante. Mentre probabilmente non avrebbe apprezzato alternanze che non producono cambiamenti nella vita sociale e civile, così come del resto non avrebbe concepito una partitocrazia senza partiti.
Il centro-sinistra col trattino i cambiamenti li determinò, anche se poi non raggiunse tutti i suoi obiettivi. Di questo, peraltro, non si può fare carico a Nenni. Se nel 1974, dopo il referendum sul divorzio, avesse avuto settant’anni, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma proprio allora si rammaricò di non avere più settant’anni, secondo la testimonianza di Gaetano Arfè riferita da Cafagna.
Riporto l’aneddoto per concludere celebrando la tempra di un leader politico. Di un leader che, come disse nel 1969 al Comitato centrale in cui andò in frantumi l’unificazione socialista, sapeva che "fare politica sarebbe il mestiere più facile del mondo se non comportasse l’obbligo di domandarsi cosa succederà il giorno dopo aver preso una certa decisione".

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